Lezione di intervista 7: esercizi di stile
Proprio dell’ultimo di quei “grandi” personaggi di cui avrei voluto parlare nella lezione ai ragazzi di Inveruno (vedi Dal generale al particolare) per accennare alle interviste che ho avuto la fortuna di poter fare, come spiego nell’Introduzione di Appropriazione indebita, Francis Haskell – professore a Oxford in Inghilterra, uno dei più importanti storici dell’arte del mondo, ma soprattutto un carissimo amico fin da quando io ero un bambino, ragion per cui prima o poi dovrò scrivere specificamente qualcosa su di lui – ed in particolare dell’intervista che mi aveva concesso nell’aprile del 1992 per un numero speciale del giornale nel quale lavoravo, l’Unità, dedicato a una importante mostra su Lorenzo de’ Medici, mi sono servito per aggiungere un tassello relativo alla forma per così dire “letteraria” in cui un’intervista può essere fatta, ovvero sia, come recitava il titolo, “Con o senza domande”.
La classica, spiegavo, le prevede e per ciascuna di esse una risposta, all’incirca come si scrivono i testi teatrali o il colonnino dei dialoghi in una sceneggiatura cinematografica. Parole dette, dall’una e dall’altra parte, con il punto interrogativo alla fine della frase o con quello senza altri aggettivi, come questo. Si può usare il corsivo o il rientro di paragrafo o l’uso delle sergentine – che sono «queste», per distinguerle dalla virgolette che invece sono “queste”, ed ancora dalle sergentine che sono ‘queste’ – per dar maggior risalto alla distinzione tra chi domanda e chi risponde.
Ma aggiungevo che può essere trasformata in un racconto dove parla solo l’intervistato.
Riportavo fedelmente – corredandola del disegno caricaturale dell’amico Francis trovata su internet che si vede in alto, mentre qui accanto compare lui in foto – la prima domanda e la prima risposta di quell’intervista fatta, davanti a una bottiglia di whisky, a Oxford del 1992:
Professor Haskell, lei ha indagato a fondo il rapporto tra artisti e mecenati nell’età barocca. Cosa può dirci del mecenatismo a Firenze in pieno Rinascimento?
C’è una grandissima differenza tra il mecenatismo dei Medici, e di Lorenzo in particolare, e quello che ho studiato in epoca più tarda, nell’età barocca. La differenza più importante deriva dal fatto che a Firenze, in pieno Rinascimento, la società era ancora una repubblica. Non c’era una corte, o un papa, o un cardinale. Si discute molto su che tipo di regime sia stato in verità quello di Lorenzo, ma comunque, almeno nominalmente, non era una società diretta da un re o da una famiglia reale. E questo determina una differenza enorme, perché significa che il mecenate in un certo senso è un semplice cittadino. Certo, è un cittadino ricco – i mecenati sono sempre ricchi – ma non sono signori che possono comandare a loro piacimento. Un progetto come piazza San Pietro a Roma non era neanche immaginabile nella Firenze del Quattrocento. Magari più tardi, quando c’era il Granducato, le cose cambiarono a Firenze, e cambiò anche il mecenatismo. Ma nel Rinascimento, cioè nell’epoca di Lorenzo, e indietro fino a suo nonno Cosimo, o al tempo di suo padre e dei suoi zii, un mecenatismo «fastoso» e «assoluto» non era concepibile, perché i Medici erano semplici cittadini. E quindi, anche per motivi politici, non potevano offendere i loro clienti.
Così è come comparve su l’Unità, ma – affidandomi ai segreti che meglio di tutti ci ha svelato Raimond Queneau in Esercizi di stile, libro che ho consigliato a chiunque mi abbia chiesto o abbia dovuto ascoltare dalle mie parole, qualcosa di fondamentale per chi intenda fare (bene) il giornalista, o anche solo apprendere qualcosa di più riguardo la comunicazione e del quale ho scritto qui in un post del giugno 2010 intitolato proprio Esercizi di stile – avrei potuto scriverla anche così:
Seduto nel divano della sua casa a Oxford, in un perfetto italiano che solo la cadenza britannica tradisce, il professor Francis Haskell, storico dell’arte che spesso ha accompagnato la Regina d’Inghilterra nei musei a scoprire i segreti delle opere d’arte, gran conoscitore del Rinascimento italiano ed esperto del mecenatismo, spiega che Lorenzo dei Medici fu sì un “mecenate” – un individuo cioè che sostiene anche economicamente attività artistiche e culturali, finanziando scultori e architetti, come fra il 68 a.C. e l’8 d.C. fece a Roma Gaio Cilnio Mecenate, da cui deriva il nome – ma in una forma che solo più tardi, in età barocca, assumerà pienamente la caratteristica che le si attribuisce.
«Firenze, in pieno Rinascimento – dice il professor Haskell – era ancora una repubblica, non c’era una corte, o un Papa, o un cardinale… non era una società diretta da un re o da una famiglia reale. E questo determina una differenza enorme, perché significa che il mecenate in un certo senso è un semplice cittadino. Certo, un cittadino ricco – i mecenati sono sempre ricchi – ma non signori che possono comandare a loro piacimento».
Spiega che nella Firenze di Lorenzo de’ Medici, e di suo nonno Cosimo, non sarebbe stato neanche immaginabile un progetto come piazza San Pietro a Roma, perché i Medici erano semplici cittadini. «Anche per motivi politici, non potevano offendere i loro clienti. Più tardi, quando arriverà il Granducato, le cose cambiarono a Firenze, e cambiò anche il mecenatismo. Ma nell’epoca di Lorenzo un mecenatismo “fastoso” e “assoluto” non era concepibile».
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