Lezione di intervista 8: imparando da Eugenio
Dall’amico Francis Haskell che, ahimè, non c’è più, nella mia scaletta preparata per la lezione sull’intervista ai “Giovani reporter” della scuola Alessandro Volta, avevo deciso di passare a un altro amico che anch’egli, ahimè, non c’è più, Eugenio Manca, del quale era da poco uscita, curata da Sergio Sergi e Carlo Ricchini, una raccolta delle sue principali interviste preparate per l’Unità e – dopo la morte di questa testata ripetutamente fatta risorgere senza più rispettarne il Dna originario, fino all’obbrobrio dei giorni nostri – per altri giornali, intitolata Non li abbiamo ascoltati. Peggio per noi, fra le quali avevo scelto quella fatta, nell’aprile del 2000, ad un grande regista italiano che era recentemente scomparso: Ettore Scola.
Erano solo un paio di domande che ai miei giovani interlocutori avrei chiesto il permesso di leggere, per far vedere loro anche l’uso ibrido del discorso diretto e indiretto:
Come nasce un film
Ma come nasce un film? Quando un’idea cessa di essere solo un’idea per divenire una “impresa filmica”?
Scola riflette un momento: «La partenza è sempre solitaria, di pura ispirazione: comincia a girare nella testa l’idea di un tema, un personaggio, una situazione, una psicologia. A mano a mano cresce, prende corpo, si fa più nitida e definita. (…) Non si parte subito dicendo: voglio fare un film. Questo è un equivoco piuttosto diffuso tra le nuove generazioni, avvezze come sono ad apprendere e a esprimersi per immagini, oggi che l’immagine è considerata quasi un secondo alfabeto. Ma l’idea del film ha bisogno di maturare, di sedimentare. Si parla con altri, si cercano interlocutori e “complici”, dall’idea nasce un progetto, poi una storia, poi una sceneggiatura corposa, dettagliata, che può raggiungere anche le trecento pagine. Ma una risma di carta non basta, non basta un computer. Perché un’idea si trasformi in fatto filmico c’è bisogno d’altro: una produzione che lo organizzi, un finanziatore che lo sostenga. (…)».
E quanto conta il danaro nella realizzazione di un film?
«Conta molto. Ma non deve contare più del dovuto. L’uso del danaro può essere decisivo nel determinare talune scelte, così come il bisogno di danaro può esser decisivo nel consentirne altre. Voglio dire che il danaro – materia indispensabile per fare un film – spesso può divenire un alibi per un giovane regista preso da dubbi, incertezze, preoccupazioni. (…)».
L’accenno ai giovani registi anticipa una domanda che nel colloquio con Scola non può mancare. Quale impressione gli fanno i ragazzi che bussano alla sua porta? Scuote il capo e sorride: ne vede molti, ma vengono tutti a chiedere di fare l’assistente alla regia o alla sceneggiatura. Se propone loro di fare intanto l’assistente alla macchina o alle luci, spariscono. Non si fanno più vedere. Come se macchina e luci e fotografia non fossero anch’esse cinema, come se Chaplin o Fellini o Antonioni non siano divenuti grandi anche per la puntigliosa inesausta cura riservata agli aspetti tecnici del loro lavoro.
La mancanza di tempo ha impedito che potessi far leggere ai ragazzi questo bel pezzo di giornalismo scritto, e qui merita una parentesi su due concetti importanti. Il primo riguarda il tempo.
Non era la prima volta che facevo una lezione. A dispetto del perentorio proposito giovanile secondo il quale mai e poi mai sarei salito su una cattedra – persuaso com’ero, non per saggezza socratica, ma per dissonanze nella mia mente che nulla avevano a che fare con l’esercizio dell’insegnamento, ma potrebbero essere risolte parlando di autostima e cordoni ombelicali interiori – a un certo punto della mia vita mi è toccato cimentarmi episodicamente con la docenza e, vinta l’iniziale paura, oltre ad essermi divertito, ho visto anche dinanzi a me discenti sorridenti, incuriositi e in qualche caso entusiasti. Diciamo che, per fortuna, nel frattempo ho avuto a che fare con un bravo psicoterapeuta.
Non avevo tuttavia mai, nel corso delle mie lezioni precedenti, predisposto la proiezione alle mie spalle di diapositive riassuntive del tema trattato.
Nel caso specifico è evidente che il calcolo dei tempi fatto a tavolino, lavorando con Power Point, era più che sbagliato, diciamo fallimentare.
Ma in una redazione il “calcolo dei tempi” e, più che altro, il “rispetto dei tempi”, è molto più che importante, molto più che fondamentale o basilare. È “vitale”: se non si chiude il giornale per una certa ora non si va in stampa; e se non si va in stampa si perde il treno o la macchina che portano le copie al distributore; e se si perde il treno non si va in edicola; e se non si va in edicola è come aver lavorato per nulla. Lo stesso vale se si deve andare in onda all’ora del telegiornale: quella è, non un minuto più tardi.
È come aver dato lo straccio per terra con poca energia, senza olio di gomito, ed esser quindi costretti a ridarlo un’altra volta, a spaccarsi la schiena ancora, a veder allontanarsi l’ora in cui, pulito il pavimento, si è liberi di far altro.
Questo l’avevo imparato da adolescente, dopo aver fatto il carrozziere e il baby sitter, lavorando mentre studiavo come barista per guadagnarmi di che essere indipendente, ed è proprio il caso di dire che l’avevo imparato sulle mie spalle, ma, passato a scrivere articoli prima, e a farli scrivere poi, quello scrupolo, quell’attenzione, quel monito, mi erano entrati nel sangue, avevano iniziato a far parte del mio Dna.
E, come stava avvenendo nella lezione con le diapositive, avevo imparato che se, per un qualche contrattempo, del tempo lo si perde da una parte, da un’altra lo si deve recuperare, che si dev’essere lesti ad individuare la soluzione alternativa e che, appunto, una soluzione alternativa dev’esserci sempre.
Non solo. Serve una buona dose di improvvisazione, di estro, a dispetto del fondamentale ordinario ricorso all’attenta programmazione, al rispetto dell’orologio, del calendario e della scaletta preordinata.
Il secondo concetto importante su cui merita una parentesi riguarda invece la multimedialità. Avevo in mente di far leggere ai ragazzi il brano di un articolo del maestro Eugenio – Manca non Scalfari che pure lo è – preparato per un giornale: giornalismo scritto come quello che avevo scelto di fare e per la maggior parte della mia vita avevo fatto. Ma, come ho già accennato, immagini televisive, di un giornalismo cioè che non ho mai in prima persona praticato, risultavano più convenienti ed efficaci in quella situazione.
Se avessi potuto soffermarmi su questo punto con i ragazzi avrei detto loro che è importante imparare a saltabeccare da un media a un altro, anche perché la tecnologia ora consente contaminazioni impensabili quando io ho imparato il mestiere, quando tuttavia, a fianco della carta, giocai un po’ con la radio o, come poi più avanti, ho dovuto dilettarmi, e con gratificazione, con la grafica.
Ma avrei anche insistito con loro – come mi è capitato di fare con un burocrate ignaro della materia ma incaricato di governarla sopra la mia testa – che non ci si inventa dal mattino alla sera una professionalità che richiede tempo, apprendimento ed esperienza, e che se si vuol fare qualcosa lo si deve fare bene, perciò, se si è decisi di votarsi all’eclettismo, alla variabilità, al multimediale appunto, bisogna attrezzarsi, di strumenti e competenze.
Non basta insomma una videocamera, o ancor più oggi un I-Phone, per improvvisarsi Antonioni, Cartier-Bresson, Cronkite, ed anche i redattori delle trasmissioni condotte da Milena Gabbanelli o da Riccardo Iacona, che non si portano sterminate troupe al seguito, per far proprio quello, encomiabile modi di esercitare il mestiere, proprio quello hanno studiato.
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