Intervista all’Italia

Questo è il testo dell’intervista immaginaria grazie al quale il 5 settembre 1981 vinsi il primo premio della sezione Giornalismo del Premio letterario Romena indetto dal Comune di Pratovecchio in provincia di Arezzo dalle mani di Romano Battaglia. Ne riferisco nel post intitolato Il mio piccolo Pulitzer.

Il tema che era stato assegnato ai concorrenti era: “Scusi, Lei giornalista, è un professionista od un dilettante, uno storico od un pettegolo? Sa… mi interessa: sono l’Italia”.

Scusi, Lei giornalista, è un professionista od un dilettante, uno storico od un pettegolo? Sa… mi interessa: sono l’Italia”.

Sono una persona che, pur di racimolare un milione, scrive un tema sulla sua domanda. Mi creda, Italia, io, prima di tutto sono questo.

Non La capisco. E Le ripeto, mi interessa sapere.

È naturale che Lei non mi capisca. Senza offese. Sono io che non mi faccio capire, che uso un linguaggio ermetico. I sociologi dicono che questa è una delle cause per cui la gente, la Sua gente, legge poco. Dicono che i nostri fogli sono poco chiari. Ma, visto che Lei è molto interessata, per una volta cercherò di spiegarmi. Con chiarezza.

Dunque, che cos’è Lei?

Prego, “chi è Lei”. Io sono uno che vende delle parole. Mi pagano per scrivere. Ed io, più mi pagano, più scrivo. Ora è in gioco un milione. Gli altri giorni una cifra più modica. Ma il succo, quello che noi chiamiamo la notizia e i filosofi la sostanza, è lo stesso. Chi sta ad un tornio vende l’energia dei propri muscoli. Io vendo l’energia dei polpastrelli delle mie dita con cui batto incessantemente alla macchina da scrivere. Sia il tornitore che io, poi, vendiamo i nostri nervi. Forse aveva ragione Lei a chiedermi, “che cosa sono”. In fondo, da quello che le ho detto, si capisce che sono, come ogni altro lavoratore salariato, una merce, sebbene un particolarissimo tipo di merce.

Più particolare del tornitore?

Dovrei provare a fare il tornitore per rispondere. Quand’ero più giovane ho fatto il cameriere, il correttore di bozze. Rispetto questi lavori posso dire che fare il giornalista è solo diverso, non più particolare. Bruciare il collo di un cliente con la minestra bollente o saltare un capitolo in un libro è meno grave che far credere ai propri lettori quello che si vuole.

Perché Lei fa credere quello che vuole ai Suoi lettori?

E chi non fa così? Tutti abbiamo delle idee, delle esperienze, degli obiettivi, dei sogni. Come si può prescindere da questi? Si ricorda il caso D’Urso con il ricatto delle brigate rosse “o pubblicate i nostri documenti o lo uccidiamo”. I giornalisti, i direttori hanno avuto comportamenti diversi in quell’occasione. In base appunto alle loro idee, alla loro esperienza, ai loro obiettivi e ai loro sogni. Ah, dimenticavo, in base anche ai loro interessi. In quel caso, se l’interesse di un redattore, o del suo direttore o del proprietario della sua testata, fosse stato mandare Lei all’aria, avrebbe pubblicato quegli abominevoli fogli con la stella a cinque punte. Ma c’è chi, avendo Lei a cuore, per non farlo ha pagato di persona.

Lei vuol dire che i Suoi colleghi sono dei venduti?

Non tutti. Comunque non tutti allo stesso padrone. Soprattutto voglio dire che c’è chi ci vuol comprare. Non sempre ci riesce. A volte sì. Il problema è per che cosa ci si vende e per cosa ci vogliono comprare.

Mi ha detto che Lei si vende per i soldi.

Senza dubbio. Ma non ho nessuna intenzione di pagare più, di dare più quello che dicevo. E per farmi dire certe cose, cose che non penso, che non sono vere, che possono costituire un pericolo per me, per le persone a me più vicine e in generale per i miei simili, dovrebbero pagarmi molto profumatamente. Non le dirò poi quanto costa il mio silenzio. Credo che nessun editore disponga di una cifra così grande. Neanche il più facoltoso industriale.

In cambio di un assegno non direbbe una bugia? Da quello che mi ha detto non ci posso credere.

Non ho detto che non direi una bugia. Ne dico tante. Ho detto che non direi una bugia nociva. Mi scusi, Italia, io di interviste me ne intendo. Mi chieda “nociva per chi?”

Come vuole. Nociva per chi?

E io giro la frittata. Come vuole Lei. Mi dica, secondo Lei, cos’è nocivo. Migliaia di disoccupati o un bel rimpasto nei vertici dell’industria automobilistica e, magari, anche del Suo governo? Quando ha trovato una risposta, mi telefoni pure redazione. Gliela pubblico.

Il mio governo… è anche il Suo, sa!

Sì, sì, lo so. E me ne duole. Comunque si tranquillizzi. Per quanto mi riguarda, dalle colonne del mio giornale, faccio di tutto per averne uno migliore. O, male che vada, per stimolare questo a far cose intelligenti, utili per Lei; nei limiti delle mie capacità!

Ah, ecco. Le sue capacità. Lei, insomma, è un professionista? Oppure no?

Ufficialmente non ancora. Per ora sono iscritto nell’Albo dei praticanti, che sono quelli che devono farsi le ossa. A volte sa per molto tempo. Anche perché far fare le ossa costa meno. Comunque credo di fare il mio mestiere nel rispetto dei canoni della professione: “chi, come, dove, quando e perché” nelle prime cinque righe dell’articolo. Poi prosegui come vuoi.
Se intende professionista, come il vocabolario Garzanti, nel senso di “esercitare una professione intellettuale o comunque una libera professione”, Le rispondo affermativamente alla prima dizione, negativamente alla seconda. Sono un lavoratore dipendente.

Comunque non è un dilettante.

Perché? A volte mi diverto anche. Non quando mi occupo di cronaca nera, con tutto quel dolore e quelle miserie umane. Ci sono delle cose divertenti da raccontare. Almeno spero siano anche primi elettori. Poi voleva sapere se sono storico o un…

… un pettegolo.

Ah, un pettegolo. Uno storico sicuramente no. Io non scavo nel passato. Scavo nel presente, nella novità, nella notizia. Per farlo mi servo del passato, della memoria, della “magister vitae”. Oh, mi scusi, maestra di vita, cioè la storia. Non mi dica poi che non sono chiaro e che se i giornali non si vendono e tutta colpa nostra. Pettegolo? Aspetti. Guardo sul vocabolario: “si dice di persona che parla molto e con malizia dei fatti altrui”. No, non è il mio caso. Scrivo su un giornale, non parlo alla tivvù. È vero che racconto i fatti altrui. Con malizia se sono poco limpidi, che nascondono qualcosa. Ma vede il giornalista racconta quello che interessa la gente, cerca di soddisfare, come diceva Gramsci, “tutti i bisogni (di una certa categoria) del suo pubblico”. Non solo, “intende di creare e sviluppare questi bisogni e quindi di suscitare, in un certo senso, il suo pubblico e di estenderne progressivamente l’area. Un altro giorno poi discuteremo su questi bisogni se questi bisogni sono il 1300 coupé o un concerto di Beethoven.

Insomma, i Suoi lettori, cioè la mia gente, le stanno molto a cuore?

Sa cosa scrisse Vittorio alfieri della nostra categoria? «Dare e tôr quel che non sa / è una nuova abilità. / Chi dà fama? / I giornalisti. / Chi diffama? / I giornalisti. / Chi s’infama? / I giornalisti. / Ma chi sfama i giornalisti? / Gli oziosi, ignoranti, invidi, tristi».
E per nostra fortuna, di Vittorio Alfieri, quello che si legava alle sedi per leggere, c’è stato uno solo.
Auguri intervistatrice.

Tags: ,

Leave a Reply