Un obolo alla memoria
Ho tralasciato di scrivere molte cose nei mesi scorsi. Sembrava quasi avessi interrotto il dialogo con i miei lettori, privandoli della possibilità di leggere qualcosa che poteva risultar loro interessante, quanto meno di essere scorso. Me ne scuso, ma sono state ragioni di forza maggiore che non sono affatto scomparse, solo finalmente riesco a tenerle a freno. Provo in qualche caso a rimediare, affidandomi per lo più alla memoria.
Avrei per esempio voluto scrivere di quanto è avvenuto venerdì 20 maggio al circolo Vie Nuove di Firenze, dove l’associazione “Ciclostilato in proprio” per la memoria del Movimento studentesco fiorentino, di cui faccio parte avendo in gioventù vissuto quell’esperienza politica e civile, insieme all’associazione “Intexere” messa in piedi da Giovanna Nicoletti e ad altri partner, ha organizzato una manifestazione intitolata “¡Nunca más!”, ovvero sia “Mai più!”, per ricordare che esattamente 40 ani fa, nel 1976, un dittatore di nome Videla riuscì a compiere un colpo di Stato in Argentina, tenendo quel paese sotto scacco fino al 1983, e in quei cinque maledetti anni soprusi, malversazioni, violenze, terrore regnarono come sempre quando il fascismo e gli altri totalitarismi impongono il proprio regime, ma soprattutto più di 30 mila argentini sparirono nel nulla, si volatilizzarono, scomparvero.
Sono i cosiddetti desaparecidos, prima detenuti in luoghi dell’orrore e lì torturati per le loro idee, il loro coraggio, la loro opposizione, e poi segretamente assassinati, per lo più gettandoli nell’Oceano Atlantico o nel Rio de la Plata con i cosiddetti “voli della morte”.
Un crimine orrendo contro il quale si mobilitarono i familiari di quelle persone svanite senza lasciar traccia, in particolare dando vita alla resistenza delle Madres de Plaza de Mayo, madri, mogli, figlie che disperatamente volevano sapere che fine avessero fatto i loro uomini.
La scintilla di quell’iniziativa – che è riuscita a portare in una delle poche sopravvissute case del popolo ancora parzialmente impegnate al di là delle slot machine, dei videogiochi e di qualche birretta consumata prima di andarne a bere qualcun’altra in un mini market improvvisato da chi è arrivato qui per cercare un qualche modo di sopravvivere – è scoccata alla fine di febbraio quando ad un convegno di psicanalisti riunitisi per discutere seriamente, non come purtroppo sull’argomento si è fatto nelle aule di Camera e Senato, di cosa veramente provino, di come si sentano, di cosa eventualmente soffrano i figli delle coppie omosessuali, quei bambini o adolescenti che, alla fine di un matrimonio, rimangono con uno dei due genitori che nel frattempo ha fatto una scelta diversa riguardo il proprio orientamento sessuale, oppure di quelli che, abbandonati e in cerca di una adozione, trovano un porto nella casa di due maschi o di due femmine che così hanno organizzato la propria vita sentimentale.
Di quel convegno ho dato conto il 26 febbraio in un articolo intitolato L’anima della famiglia ed il “Sole 24 Ore Sanità” ne ha dato testimonianza in Coppie omosessuali: la parola agli psicoterapeuti che io ho riportato in un altro post nel mio blog.
Durante quel convegno, a cui fui gentilmente invitato da Nicoletta Collu, ho incontrato, dopo non so più quanti anni, un’amica argentina, Cristina Canzio, che mi ha appunto chiesto di aiutarla a far qualcosa che ricordasse quella tragedia, ne conservasse la memoria, invitasse ad aver fermo in petto “¡Nunca más!”, o “Zakhor!”, come dicono gli ebrei.
Cristina, che fa la psicoterapeuta, ha raccolto molto materiale su quel pezzo di storia del suo paese dal quale venne via giovanissima quando appunto c’era la dittatura, studiando in particolare le ricadute emozionali, i tormenti interiori, la sofferenza di chi è rimasto, dei sopravvissuti, dei “salvati” come disse Primo Levi, ed ancor più a fondo di chi ha cercato per anni di capire chi fossero effettivamente i propri genitori dei quali non c’era più alcuna traccia. E con questo materiale ha dato vita ad uno spettacolo – lo si può vedere qui su Youtube – dove le sue parole, immagini tremende e musica, raccontano tutto ciò.
Le detti la mia disponibilità e mi sono impegnato appunto a coinvolgere l’associazione degli ormai sessantenni che, quando andavano al liceo o all’istituto tecnico o professionale, provavano sdegno per i crimini commessi in giro per il mondo, le stragi e gli omicidi dei terroristi compiuti nel nostro paese, le prime avvisaglie di una corruzione nel mondo della politica che poi è dilagata e non intende fermarsi, ed erano intenzionati a reagire, sperando che la loro protesta potesse incidere in qualche misura contro quelle brutture, o comunque fosse un debito con la propria coscienza quello di non restare inerti.
Proposi allora ai miei compagni, dopo aver parlato con Cristina, di organizzare un’iniziativa che, prendendo spunto da quel quarantennale, ricordasse a chi allora non c’era – chi oggi appunto ha 30 o 20 o 15 anni – che i regimi fascisti e gli orrori delle loro prigioni o dei loro campi di concentramento, non erano qualcosa finito – com’era successo da noi grazie alla Resistenza e all’azione delle truppe alleate – con la fine della Seconda guerra mondiale e la nascita di questa nostra strapazzata Costituzione, scritta da giganti ed ora minacciata da nani.
Ma erano qualcosa che nella vicinissima Spagna e nel vicinissimo Portogallo perdurava da tempi lontanissimi, in Grecia, qui a due passi, aveva appena preso corpo con il regime dei Colonnelli, ed era esploso in Cile, in Argentina appunto ed in altri paesi del Sud America. Qualcosa che, in qualche caso, come con la rivoluzione dei garofani, la fine del franchismo e il ritorno della democrazia in Grecia, proprio dov’era nata molti secoli prima.
Proposi cioè di coinvolgere, e ne abbiamo tutti purtroppo, amici che all’epoca fossero giunti come immigrati extracomunitari da quei paesi, dopo aver provato cosa vuol dire farsi mettere due elettrodi sui testicoli per emendarsi dell’aver letto un libretto di Bakunin o di Engels, o lasciare i propri genitori senza tue notizie per giorni e giorni per estirpare loro la confessione di quali fossero le loro amicizie e frequentazioni, o l’inconfondibile sapore della canna di una pistola fatta assaggiare per “cantare” e far “delazione”.
Ma soprattutto proposi che nell’organizzazione dell’iniziativa fossero coinvolte almeno un paio di associazioni, la Rete degli studenti medi e gli universitari dell’Udu, perché a loro volta almeno tentassero di coinvolgere i propri coetanei e renderli partecipi appunto di questa memoria non così lontana nel tempo e nello spazio e – come sta drammaticamente sbattendoci in faccia quanto avviene in paesi che hanno aderito alla Costituzione europea scritta per tenerci uniti, pacifici, portatori di pace, accoglienti, ispirati a principi sacrosanti che hanno animato questo continente a fianco delle nefandezze che ha compiuto – renderli partecipi della necessità di rendersi conto di quanto sta avvenendo e se del caso contrastarlo con le proprie pur modeste forze.
L’iniziativa ha poi preso un’altra piega, tutta incentrata sull’Argentina, ma va bene lo stesso così, l’importante è che abbia avuto, come ha avuto, successo. E che nel petto di qualcuno di noi, almeno, batta ancora inequivocabile il monito “¡Nunca más!”.