Stili di esercizio
Ho ricordato gli Esercizi di stile di Raymond Queneau nella settima puntata di Lezione di intervista e quel libro l’ho caldeggiato tutte le volte che – durante un corso dinanzi a dei discenti, o conversando amichevolmente con qualcuno in privato che mi chiedeva consigli sul mestiere o, più in generale, sulla comunicazione – avevo bisogno di spiegare come allenare la propria mentalità alla necessita di scrivere, o parlare, in ogni caso esprimersi nei confronti degli altri, scrivendoci anche un post in questo blog col medesimo titolo pubblicato nel giugno del 2010.
E lo raccomanderei anche se mi invitassero a parlare di come si sta al mondo, di quale sia il bagaglio migliore da portarsi appresso per condurre la vita, del piacevole e benefico stato derivante dall’esercizio dell’apertura mentale.
Perché apprendere che una unica cosa la si può descrivere, e perciò prima osservare, ed in definitiva in qualche modo accettarla, in almeno 99 modi diversi l’uno dall’altro – tanti ne mette in fila nel suo libro l’intellettuale francese la cui attività, come quella di Gregory Bateson a mio avviso, è difficilmente inquadrabile in una casella, se non servendosi della parola “scrittore”, che tuttavia è assai limitativa e per certi versi inesatta, non essendo propriamente un autore di narrativa – non solo costringe alla presa d’atto della realtà com’è e non come vorremmo immaginarcela, ma esplica inequivocabilmente anche quanto questa sia ricca e per ciò gradevole, proficua, alimentante, sempre piena di nuove cose da scoprire, apprendere, conoscere.
Non solo: mette in guardia dalle apparenze e dal fermarsi alla prima occhiata, dal farsi un’opinione che in un batter di ciglia si trasforma in un pregiudizio, dal restar rapidamente e dolorosamente delusi dall’idea che ci si era fatta o ci avevano dato a credere, dalla sfrenata e insensata voglia di incasellare tutto come se si fosse in un ufficio postale o in biblioteca dove invece ordine e criterio sono indispensabili.
In quel libro Queneau, per chi non lo sapesse, riscrive ottantotto volte il brano che segue usando linguaggi, formulazioni delle frasi, punti di vista, categorie letteraria diverse, ma il succo della faccenda è sempre lo stesso, di quello si parla.
Ecco il brano, tratto dall’edizione Einaudi con testo a fronte del 2014 che riprende la traduzione e l’introduzione di Umberto Eco del 1983 (il libro fu pubblicato da Gallimard in Francia nel 1947), arricchita da altro materiale nel frattempo raccolto da Stefano Bartezzaghi.
Notazioni
Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché.
Poi in Pronostici, in Esitazioni, in Comunicato stampa, in Onomatopee, in Canzone, in Aferesi, in Interrogatorio, in Medico, Botanico, Zoologico, in Geometrico ed infine in Inatteso, come s’è detto, la storia prende sempre forme diverse, ma non strade diverse, o meglio, non proprio strade diverse, solo modalità di narrazione che cambiano ad ogni voltar di pagina.
Se la citazione di Queneau e dei suoi Esercizi di stile nella Lezione di intervista mi ha indotto a riprendere in mano il libro e scriverci su un post che ne prenda spunto è perché in qualche maniera in questo momento, diciamo in questa fase della mia vita, pur sapendo che non è affatto così come la sto per scrivere, leggo Pronostici, Esitazioni, Comunicato stampa, Onomatopee, Canzone, Aferesi, Interrogatorio, Medico, Botanico, Zoologico, Geometrico, Inatteso e le altre 86 varianti e mi sembra di tornare sempre a Notazioni, cioè di vederne di cotte e di crude ma di trovarmi inesorabilmente sempre e soltanto ad un denominatore comune, che non so identificare né tanto meno dargli un nome, ma si riduce a poca cosa, produce un misto di noia e fastidio, ha un sapore sgradevole, e vien compensato solo dalla voglia tutta interiore di scrivere 999 storie diverse, anche se dovessero avere tutte la medesima trama. Insomma, anziché dinanzi ad esercizi di stile mi sembra di essere di fronte a stili di esercizio. Uno solo.
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