Questo terremoto

Scosse registrate da un sismografo

La paura che il mondo possa finire viene in mente tutte le volte che la Terra trema, come alle 3.36 di questa mattina, e poi ancora un’altra scossa. Epicentro ad Accumoli vicino a Rieti, ma la percezione del sisma si è avvertita anche a Roma e a Bologna.

La Terra trema e chi la sente tremare pensa sia giunta la fine. Spesso per qualcuno è così: oggi si contano già 23 morti, ma i dispersi sono tanti e la cifra è destinata a crescere.

La classifica dei terremoti più disastrosi del XX e XXI secolo in base al numero di morti dichiarati, quasi sempre sottostimati e il più delle volte approssimativi, vede in vetta le 316.000 vittime del terremoto del 2010 ad Haiti, ed a seguire Tangshan in Cina nel 1976 con 255.000 morti, Sumatra settentrionale in Indonesia nel 2004 (230.000 morti), Haiyuan in Cina nel 1920 (200.000) ex equo con quello di Qinghai in Cina nel 1927 (ma il primo vanta il primato del massimo grado mai registrato, il dodicesimo, della scala Mercalli, quella che misura gli effetti di un terremoto). Ed ancora Kanto in Giappone nel 1923 (143.000 morti), Messina e Reggio Calabria nel 1908 (120.000 morti), Ashgabat nel Turkmenistan nel 1948 (110.000) e il Sichuan orientale in Cina nel 2008 (88.000).

Oltre a quello di Messina e Reggio Calabria nel 1908, i terremoti più forti in Italia si ritiene siano stati quello dell’Aquila del 1703, quello della Marsica del 1915, quello dell’Irpinia del 1980, il più recente in Emilia nel 2012, quello dell’Aquila del 2009 e quello del Friuli del 1976.

A questi va aggiunto quello che colpì Messina e la Calabria nel 1783, riguardo al quale l’anno successivo pubblicò un libro Deodat De Dolomieu, il celebre geologo francese nato nell’omonima cittadina situato lungo l’Isère nella regione del Rodano-Alpi, a cui dobbiamo il nome delle più belle Alpi d’Italia, le Dolomiti, perché nel 1791, pubblicò un articolo intitolato “Su un genere di pietre calcaree molto poco effervescente con gli acidi e fosforescente per collisione”. A questa particolare roccia, che chi l’ha toccata con mano riconosce per l’inequivocabile colore rosato che assumono quelle vette sotto il sole, fu dato il nome di dolomia, ma solo nel 1864 un pittore e un naturalista inglesi, Josiah Gilbert e George Churchill, mandando alle stampe il resoconto dei loro viaggi, ribattezzando quelle montagne Dolomiti.

Ma di quel terremoto parla anche ampiamente, trent’anni dopo, nel 1813, niente popò di meno che Wolgang Goethe il quale, nel suo Viaggio in Italia, tra l’altro scriveva: «In verità tutto ciò che avevamo veduto erano stati i vani sforzi del genere umano per difendersi dalla violenza della natura…: non sono bastati due millenni ad abbattere i templi di Girgenti, ma ci sono volute poche ore, se non secondi per distruggere Catania e Messina».

Ma accanto a Dolomieu e a Goethe molti altri intellettuali si interrogarono non solo sull’atroce fenomeno naturale e i suoi disastrosi effetti, ma pure su quanto quelle scosse permanessero nel petto degli uomini anche dopo ed il significato che essi tentavano di dare, a seconda dell’approccio intrapreso, a quella tragedia come prova dell’esistenza (la punizione) o dell’inesistenza (lo scialo) di dio, un bravissimo storico italiano.

Di essi si è occupato un bravissimo storico italiano, Augusto Placanica, scomparso nel 2002, che sull’argomento ha scritto un ricchissimo libro intitolato Il filosofo e la catastrofe al quale ho ampiamente attinto per un capitolo della mia originaria tesi di laurea che poi, ridotta e contestualizzata, è diventata Apocalisse, il giorno dopo. La fine del mondo tra deliri e lucidità.

È proprio in virtù di questa mia lunga e antica attenzione alle catastrofi e all’idea di fine del mondo – alla quale è dedicata la mostra che inaugurerà il 16 ottobre prossimo la riapertura del Museo di arte contemporanea di Prato, il Pecci – che cerco oggi di comprendere, a fianco del dolore per chi è rimasto sotto le macerie o della solidarietà a chi è lì che scava per cercare cosa resta senza aver più dove ripararsi, quanto questa tragedia possa scuotere le già inquiete nostre coscienze, inebetite dalle grancasse che rullano, ma tuttavia come se costantemente allertate che la strada da lungo intrapresa non conduce da alcuna parte, anzi, ci prospetta scenari futuri sempre più cupi e disastrosi.

Ho ricordato il terremoto dell’Irpinia del 1980, un altro bagno di sangue, e poi, per anni, le mancate promesse di ricostruzione. Fu dopo di esso che Enrico Berlinguer, solo tre anni prima di morire, ebbe come un colpo di coda, manifestò un volto che non gli era consuetudinario. Pose fine alla mano tesa e all’appello alla cooperazione per tentar di salvare tutti insieme un paese minacciato da forze vogliose di riportarlo nel passato, ad una dittatura simile a quella che si era instaurata in Cile e, di lì a poco, in Argentina. Sterzò la sua tattica, tenendo ferma la strategia che comunque prevedeva larghe intese, conquista del consenso, democrazia, ma anche tutto ciò che con una parola si chiama socialismo. Qualcuno dice che fu allora che commise errori madornali, io non sono in grado di giudicarlo. Però so che quell’evento, o se si preferisce quell’anno o quelli che gli vennero subito dopo, fu quello della svolta, non solo in Italia, verso un quadro politico che è quello che abbiamo di fronte, e chiamarlo politico è un’offesa a una parola che meriterebbe invece rispetto.

Lo so che quando si vede così fosco davanti si somiglia ai millenaristi che prevedevano ogni anno, lo fanno ancora, il giorno del giudizio universale e la fine dei tempi nonché della specie. Fine che, come sostengo nel mio libro, è una litania puntualmente disattesa e che il giorno che dovesse davvero essere probabilmente nemmeno ce ne accorgeremo.

Ma la mia deprecatio temporis, lo sdegno per il presente, vuol essere solo il richiamo alle coscienze, a quante ve ne sono, a guardare che davanti è un disastro, come quello provocato dal terremoto o da una qualsiasi altra calamità naturale. Perciò occhi aperti e cuore in mano.

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