Un articolo sul Journal del Pecci

Il fungo atomico alle Marshall

Corredato dall’inquietante immagine del fungo provocato dall’esplosione sottomarina del 25 luglio 1946 alle Isole Marshall come esperimento nucleare promosso dalla Marina americana e da una drammatica istantanea scattata nella grande discarica di rifiuti elettronici e tecnologici provenienti dai paesi occidentali che si trova ad Agbogbloshie, un agglomerato della capitale del Ghana, Accra, e col titolo La fine del mondo. Ancora, il “Journal” del Museo Pecci d’arte contemporanea a Prato ha pubblicato ieri un mio articolo in vista della mostra, proprio sull’argomento della fine del mondo, che il 16 ottobre prossimo inaugurerà la riapertura del centro espositivo sottoposto a lunghi quanto indispensabili lavori di restauro.

Lavori i quali non hanno tuttavia impedito al Pecci, nell’inverno scorso, di organizzare lì o in altre sedi, col prezioso aiuto di Wlodek Goldkorn – ex responsabile delle pagine dei libri de l’Espresso ed autore di quella che giudico la gratificazione migliore per aver scritto Io la salverò, signorina Else, poche sintetiche parole di uno che ha letto, ci è entrato dentro, ha capito e non necessita di salamelecchi per dirlo – un interessantissimo ciclo di conferenze, a molte delle quali da pensionato ho partecipato, che ha consentito al pubblico di incontrare David Grossman, Marco Belpoliti, Donatella Di Cesare, ed altri ancora parlare di “Uomini in guerra”, cioè di una buona dose di questioni che ci toccano molto da vicino, eccome.

Veduta aerea della costruzione del Pecci negli anni Ottanta fotografata da Andrea Ruggeri

È stato proprio nel corso di uno di quegli incontri che, dalle parole del nuovo direttore del museo, Fabio Cavallucci, ho colto la notizia che era in progetto una mostra su un tema del quale – negli intervalli concessi dal mestiere di giornalista e da una bella scelta coniugale, leggendo quanti più libri possibile e raccogliendo uno sterminato numero di articoli che prima o poi dovrò decidermi a catalogare – mi sono occupato per una vita, da quando il professor Paolo Rossi Monti, col quale mi ero piccato di laurearmi, mi fece leggere l’incompiuto, ponderoso e frammentario La fine del mondo di Ernesto De Martino e, poco dopo forse, un’antologia di apocalittici d’inizio secolo, quello trascorso, curata da Michela Nacci ed intitolata Tecnica e cultura della crisi, finché non mi decisi a proporgli una tesi su quell’argomento, scritta, corretta, implementata, riscritta, ricorretta e mai portata del tutto a termine – tanto da aver poi deciso di chiudere gli studi insieme al professor Sandro Pagnini, con un argomento diverso ma riconducibile al cuore di quelle riflessioni e, soprattutto, più compatto – e tuttavia utilizzata in parte nel 2012, alla vigilia della presunta profezia Maya riguardo l’ultimo giorno coincidente con il 12.12.12, per dare alle stampe con la Baskerville di Bologna che già aveva pubblicato i miei racconti Sempre più verso Occidente, il saggio Apocalisse, il giorno dopo. La fine del mondo fra deliri e lucidità.

Perciò, con l’aiuto del mio amico Gian Luca Corradi, storico e veterano della Biblioteca Nazionale di Firenze, mi sono messo in contatto con Cavallucci ed i suoi collaboratori, suggerendogli una serie di opportunità collaterali al cuore della loro iniziativa, che è pur sempre una riflessione sull’arte contemporanea, materia nella quale io, oltre alla percezione dei miei sensi, non ho alcuna competenza. Di lì la richiesta di pubblicare un mio contributo nel “Journal” del Pecci, che qui ripropongo:

La fine del mondo. Ancora

L’apocalisse: un’idea, come quella dell’amore, che pervade la cultura di tutti i tempi.

di Daniele Pugliese

Un'incisione di Duhrer per l'Apocalisse

La “storia della fine del mondo” è lunga quanto la “storia dell’origine del mondo”. Entrambe sono consegnate al “mito” e ad esso sottratte dalla scienza. Cosmogonie, escatologie e teleologie pullulano la tradizione orale e da essa si trasferiscono ai primi documenti scritti, in particolare nei testi religiosi, indipendentemente dal luogo o dal periodo temporale della loro stesura.

La comprensione del moto dei pianeti, della formazione delle galassie, della comparsa della vita sulla Terra e dell’origine delle specie ad un certo punto abbandona la sudditanza al divino o almeno trova un compromesso con essa.

Invece nel lungo repertorio del pensiero affidato alle biblioteche, la predizione della catastrofe o la ricerca del senso della nostra esistenza, fatica ad abbandonare l’irrazionale, la fede e l’emotività.

La storia dell’Apocalisse non può, infatti, discostarsi dalla storia della paura, in particolare di quella della morte, propria del gruppo a cui si appartiene o dell’ambiente in cui si vive, ed anzi si sovrappone in molti punti alla storia di come tale morte venga elaborata o la si vorrebbe scongiurare. L’Apocalisse assume tuttavia la forma di straordinari trattati filosofici e di capolavori della letteratura interamente dedicati ad essa o in cui la fine di tutto fa da sottofondo, oppure ricorre come un accenno costante o una citazione dotta.

Un particolare dell'Apocalisse nel Battistero di Padova

Quasi tutti conoscono l’esistenza dell’Apocalisse di Giovanni, immortalata nelle incisioni di Dührer o negli affreschi del Battistero di Padova dipinti da Giusto dei Menabuoi. Forse meno noti al grande pubblico sono invece i saggi Il tramonto dell’Occidente di Osvald Spengler e La crisi della civiltà di Johan Huizinga, il testo teatrale Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus e il romanzo Dissipatio H.G. di Guido Morselli. I foschi presagi tratteggiati in questi testi ci pongono dinanzi all’inquietante interrogativo di cosa potrebbe esserne del genere umano e dell’intero pianeta se si prosegue sulla strada delle guerre, dello spreco delle risorse, dell’inquinamento e dello sfruttamento indiscriminato.

Il conflitto nucleare, temuto con angoscia in tutta la metà del secolo scorso, è stato oscurato dalla caduta di un muro che ne ha lasciati innalzare molti altri.

Allo stesso modo l’inquietante nube radioattiva di Chernobyl o quella tossica di Bhopal si sono dissolte lasciando carcasse di industrie e un’impalpabile economia basata su byte e capital gain. La stessa Shoah viene negata. Non cessa però di farci da monito il giulivo ed incosciente brindisi che nel 1938 Joseph Roth affidava a La cripta dei Cappuccini – «Sopra i bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo, la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute». Tutto questo ha ancor più senso in un mondo incollato alle Playstation, vagante nei centri commerciali, abbacinato da Facebook e aizzato al panico dalla propaganda su un manipolo di dinamitardi e su flussi migratori che nulla hanno da invidiare alle invasioni barbariche. Antichissimi esodi già testimoniati oltre tremila anni fa dalla peregrinazione sui ghiacci delle Alpi di Oetzi, la mummia ora esposta al Museo di Bolzano.

Il panico per l’incombente giorno del giudizio ed i deliri dell’idea di fine del mondo si sono succeduti nel corso dei millenni fino alla fatidica catastrofe annunciata del 12.12.12 attribuita ai Maya. Il picco è stato però nelle inquietudini sorte fra la fine dell’Ottocento, con il venir meno dell’acritica fiducia nel progresso, e il fungo di Hiroshima. Inquietudini che si sono intrecciate con le utopie e le distopie, confondendo tempi storici e tempi biologici. E sono proseguite nel lungo filone di film catastrofici che va dagli zombie fino a scenari di post-distruzione del pianeta: un’idea, come quella dell’amore, che pervade la cultura di tutti i tempi ed a cui dobbiamo prestare ancora attenzione, se non vogliamo restare atterriti dinanzi all’ennesimo presagio, che non tarderà a giungere, della scomparsa di tutto e della definitiva vittoria del nulla.

Nei giorni prossimi mi riprometto di dare conto, con un indice almeno, dei temi proposti nel “Journal” del Pecci intorno alla fine del mondo.

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