Noi, forse “salvati”

L'ingresso della "Fortezza da basso"

Nel ringraziare Enrico Zoi per l’intervista che mi ha fatto su “esserciweb” prendendo spunto dalla pubblicazione ora nel blog e poi in un e-book delle mie interviste raccolte in Appropriazione indebita, ho menzionato un certo numero di ex studenti del liceo classico Niccolò Machiavelli di Firenze che hanno poi intrapreso come me la strada del giornalismo, e nel ripescare i loro nomi nella memoria – in qualche maniera ripercorrendo i corridoi ed entrando nelle classi di quell’ex edificio militare, direi proprio una caserma con le sue camerate, nel quale ci si imbatte una volta varcato il grande portone di legno che su viale Filippo Strozzi, di fronte al Palazzo dei congressi, consente di accedere alla Fortezza da basso progettata da un pool di architetti al servizio dei Medici, tra i quali spicca Antonio da Sangallo il Giovane – ho visto decine e decine di volti proprio come in una sorta di Facebook privato, a molti dei quali associo un nome e un cognome, qualcuno di una persona a cui sono molto legato, a partire dalla mia ex moglie, ma anche altri amici ed amiche che vedo più o meno frequentemente ma sempre con il medesimo entusiasmo e sentimenti mutati sì ma non ininfluenti, e tanti altri compagni di scuola che invece restano anonimi o rarefatti o come sbiaditi, qualcuno anche svanito.

Direi che nella mia memoria ci sono, mutatis mutandis e fatte le debite proporzioni, quelli che Primo Levi, riferendosi a ben altro, ha chiamato i “sommersi” e i “salvati”, fra quest’ultimi dovendo aggiungere nel mio caso anche gli “eletti”.

E poi, rammentati o meno quei volti e quei nomi, c’è un’ulteriore suddivisione in “sommersi” e “salvati”, una constatazione obiettiva inevitabile da farsi per quanto sgradevole e, per così dire, immorale, come quelle messe lucidamente a fuoco da Thomas Hobbes nel constatare che l’essere umano è homo homini lupus; o da Sigmund Freud, rafforzato nella sua scoperta dai romanzi di Fëdor Dostoevskij o di Arthur Schnitzler, rilevando che siamo agiti da brutali e possenti forze interiori, difficili da indirizzare senza reprimerle in una prospettiva che non procuri sofferenza a se stessi e agli altri; o da Karl Marx a cui si deve l’impronunciabile e ormai rimossa “scoperta dell’acqua calda” della suddivisione della società in classi in conflitto tra loro perché dal martirio di una dipende il benessere, anzi l’opulenza dell’altra; o da implacabili “vivisezionatori” della natura umana e delle balle che ci raccontiamo su di essa per darci un tono di civiltà ed una ragione di sopravvivenza, quali Friedrich Nietzsche, Giacomo Leopardi e Elias Canetti.

Una constatazione obiettiva dinanzi alla quale mi ha sbattuto quasi violentemente, un giorno di agosto del 2007, una persona, anch’essa discente nella medesima scuola, che ha sì dell’intelligenza, tanto da aver tentato io insistentemente, e invano, di valorizzarla e farla emergere da una condizione interiormente patologica di disistima e sminuimento corrispondente alla bassa statura donata dal fato nell’istante del concepimento o qualche mese dopo al momento del parto, ma anche un tal groviglio di pregiudizi, semplificazioni, invidie e rancori, da renderla una persona misera e miseranda, di nulla rilevanza, anzi, nociva e infetta, più che altro una comare insignificante, una maestrina obliabile, della quale ho tratteggiato un impietoso profilo il 24 luglio 2010 in un post intitolato Copricapi.

Quella sorta di cazzotto nello stomaco o di rivelazione celeste – qualcosa di simile a un verdetto emesso o al vaticinio d’un veggente – mi riempì prima di stupore e poi d’orgoglio, anzi quasi di boria, e infine instillò la voglia di riflettere, il bisogno di elaborare, la necessità di congetturare ulteriormente su quanto appena appreso, ed il ticchettio inesorabile al quale, per sortilegio o determinazione, mi sono votato mi ha portato ad accettare quell’evidenza e a non controbattere al fatto che appartenevo ai pochi che, usciti da quel liceo, erano “diventati qualcuno”, in altre parole avevano intrapreso una carriera che li aveva fatti distinguere, dando loro una certa notorietà, quanto meno un ruolo sociale pubblicamente apprezzabile, una meritoria posizione.

In queste riflessioni mi sono tornati alla mente gli insegnamenti che il mio buon maestro, il compianto Paolo Rossi Monti, mi dette all’inizio degli studi universitari, spiegando l’incerto e tenue confine fra magia e scienza agli albori, nel Seicento, di quest’ultima così come ancor oggi la intendiamo, ed in particolare, se non ricordo male, a quelle pagine del libro Da Galileo a Newton 1630-1720 di Alfred Rupert Hall (Feltrinelli, 1973) dove si illustra la sensazione che quanti si trovavano a disvelare e a portare all’altezza di tutti i misteri dell’universo e del creato avevano di essere degli “eletti” (called, credo in inglese, cioè “chiamati” da dio o altra entità superiore), traendone così un senso di superiorità ed eccezione (L’eletto è anche il titolo di un bel romanzo di Thomas Mann, ed è chiaro che qui mi servo di questa parola non nel significato che ha per indicare quanti hanno strappato un numero sufficiente di voti per entrare a far parte di un’assemblea elettiva, qualcuno per meriti, molti per arguzia).

Veduta dall'alto della "Fortezza da basso"

E in effetti alcuni di quegli studenti del mio liceo poi emersi nel campo della medicina come in quello del funzionamento della giustizia, delle lettere come della ricerca farmacologica o, appunto, nel mestiere di dar notizie, come nel mio caso, già all’epoca assomigliavano a dei cavalli indicati sul tabellone della sala corse su cui sarebbe valsa la pena di scommettere.

Ve ne sono altri, tuttavia, e non pochi, sui quali avrei puntato ogni mio bene, perdendo in un sol colpo il patrimonio e che, tuttavia, non sono ancor oggi meno meritevoli di ammirazione e stima.

Ma per tornare ai “sommersi” e ai “salvati” – non quelli nella mia memoria, ma quelli appunto nei casi della vita, nella caduta dei dadi – e a quell’istante dell’agosto 2007 in cui mi venne disvelato l’arcano, ebbene sì, dovetti prendere atto, dopo 50 anni esatti d’esistenza e di propensione alla modestia ed alla sottovalutazione, di essermi “salvato”, e quella presa d’atto è divenuta una consapevolezza, un’accettazione ulteriore di me stesso e della mia natura, un allontanamento dei retaggi psichici che a lungo mi avevano indotto all’autodafé ed al “trattenere” – coazione che a detta della medicina non allopatica avrebbe procurato qualche danno al mio organismo – quanto è innegabile vi sia, o al non essere quel che sono.

Consapevolezza che talvolta, ne sono cosciente, vien presa – o confusa, o forse sono io stesso a proporla come tale – per presunzione, arroganza, narcisismo, ed accettare che anche questo sia digeribile ed accettabile è un’altra bella conquista, un altro frutto di una fatica non spesa invano, e comunque ascrivile, come cantava Frank Sinatra, a “my way” o, come sosteneva Neruda, “vivibilmente confessabile”.

Non so se i miei compagni di liceo anch’essi “salvati” provino qualcosa di analogo od abbiano tentato simili riflessioni, né voglio insinuare che i “sommersi” debbano trarne amare constatazioni ed abbassare la stima in se stessi. Semplicemente volevo rendere partecipe chi legge a un’acquisizione cerebrale, questa volta innescata dall’aver menzionato alcuni ex compagni di scuola che, come Enrico Zoi e me, sono poi diventati colleghi.

Insomma, come canta Ivano Fossati e mi ha disvelato un mio raro e sommerso amore, «verremo perdonati da un bacio sulla bocca un giorno o l’altro».

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