L’amicizia con il morituro
Agìto da qualcosa di analogo a quanto suppongo spinga lo scienziato a chiedersi il perché delle cose più impensate, a sfrucugliare nei recessi più oscuri ed inesplorati dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, compresi quelli scomodi, sconvenienti e capaci di sconcertare lo stesso ricercatore, talvolta mi servo del più diffuso dei social network, Facebook, direi quasi come un antropologo osserva una popolazione che gli è pressoché sconosciuta, di cui ignora usanze e costumi, o più precisamente in maniera provocatoria, lanciando un sasso che presumibilmente smuoverà le acque.
Nell’episodio di cui sto per narrare – ma credo questa sia una mia caratteristica assai più generale – senza la benché minima intenzione di ritrarre la mano dopo averlo gettato quel sasso, in altre parole cercando di assumermi la responsabilità di quanto ho innescato, fino alle estreme conseguenze, incurante delle antipatie che potrei suscitare.
Nella finestrella del social network in cui appare l’invito a riferire quanto si sta pensando, credo manifestando un candore che dubito molto mi appartenga, ho recentemente formulato la seguente domanda: «Al posto mio chiedereste l’amicizia su Facebook alla persona che in gioventù ero davvero sul punto di ammazzare?»
Ho contato, nel momento in cui scrivo, l’apprezzamento di 15 persone, espresso con altrettanti “Mi piace”, e una ventina di commenti di un numero di persone di poco inferiore, avendo qualcuno scritto la propria opinione più di una volta.
Ho anche ricevuto un misericordioso e pieno d’affetto messaggio privato da una persona che sapeva a cosa avrei potuto alludere, anzi, per l’esattezza, chi fosse la persona che in gioventù ero davvero sul punto di ammazzare.
Perché questo è avvenuto realmente, anzi di più: stavo quasi per riuscirci, e se ciò non è accaduto è solo per l’energico intervento del provvidenziale “deus ex machina”, interpretato da persone in carne ed ossa, le quali hanno letteralmente strappato il malcapitato dalla morsa delle mie braccia con cui ero fermamente intenzionato ad impedirgli, per sempre, di respirare, e il rantolo soffocato ed impotente che usciva dalla sua bocca stava a dimostrare che mancasse proprio poco.
Sì, in gioventù ho avuto istinti omicidi, anzi, se la memoria non mi tradisce, un solo istinto omicida: quello.
Ho fatto a botte per darsele di santa ragione, non dirò senza esclusione di colpi, anzi quasi con cavalleresche convenzioni, ma certamente per farsi quanto più male possibile.
Solo in quell’occasione, però, è emerso chiaramente che potrei essere un assassino, che non è affatto difficile, per quanto inatteso, diventarlo.
Prima di raccontare l’episodio e di scandagliare cosa abbiano ingenerato le reazioni alla mia provocatoria e leggermente retorica domanda su Facebook, mi pare doveroso dichiarare che – dopo un’intera vita passata ad odiare lo scampato al mio delitto ed a tenermi pronto a terminare l’opera, a portare a compimento quanto era stato soltanto interrotto, non scongiurato o reso impossibile; dopo un’intera vita trascorsa facendo tutt’altro e non avendo quel chiodo fisso in testa, ma come allertato, sul chi va là, pronto a compiere l’inconcluso, a passare dall’ipotetico al fattuale, vale a dire irrorando di sangue i miei occhi, arcuando le spalle, piantando ben fissi i piedi in terra, gonfiando il collo, arricciando il naso e mostrando i denti con il medesimo odio ogni qual volta capitava casualmente di incontrare il graziato, di vederlo anche solo da lontano, di scorgerlo tra la folla – dopo un’intera vita così trascorsa, alcuni anni fa, complice un amico con cui mi piacerebbe aver più a che fare ancor oggi, mi sono avvicinato con un bicchiere in mano al nemico.
L’amico in qualche maniera ha fatto le presentazioni, ha detto a l’un l’altro chi fossimo all’anagrafe, e poi ha lasciato che ci scambiassimo qualche parola, che avviassimo un dialogo che non c’era mai stato ed ora che si è svolto mi risulta non meritevole di essere proseguito, per nessun pregiudizio o valutazione morale, ma per disinteresse, per assenza di significato, di contenuti che alimentino la conversazione.
L’amico, precedentemente messo a giorno dell’astio rimasto, delle ragioni che in passato l’avevano prodotto, del permanere dei cagneschi e vendicativi propositi, aveva insistito perché quell’incontro tra due persone con cui lui aveva analoga confidenza, avvenisse.
Direi quasi forzando la mano, con una certa insistenza, ridendo sornione sotto i davvero presenti folti baffi, rivelando in volto quello che si potrebbe definire un retrogusto di beffarda presa in giro, come a dirmi, senza ricorrere alle parole, che fosse stupido dopo tanto tempo mantenere desto un simile rancore, e che l’individuo in questione era talmente misero ed arrendevole e quasi vulnerabile che davvero sarebbe stato non solo sciocco e biasimevole portare a compimento l’antica intenzione – dando sfogo alla bile rimasta in corpo e alle oscure forze ancora attive in fondo all’anima, alla primordiale istintività solo sopita dalla lunga dedizione alle usanze civili e all’impiego della ragione – ma di più sarebbe stato quello che solitamente si definisce un gioco da ragazzo, un’azione priva di alcun particolare impegno, troppo semplice da potersi poi annoverare tra i meritevoli ricordi, in definitiva, cioè, affatto appagante.
Finii per accogliere le sue motivazioni, o anche solo la sua sbrigativa risoluzione del conflitto, il suo quasi giocoso metterci l’un l’altro di fronte, osservando distante e distaccato cosa ne sarebbe scaturito.
Mi trovai così a rammentare al nemico come io mi chiamassi ed ascoltarlo pronunciare il proprio nome, per poi chiedergli se si ricordasse dove, quando e come ci fossimo precedentemente incontrati, le circostanze nelle quali avessimo un pur minuscolo passato in comune.
E restai come allibito, inerme e incredulo dinanzi alla totale assenza di un residuo di memoria, alla pur minima traccia di qualcosa che fosse un ricordo. Niente.
L’alcol ed altre più potenti droghe avevano cancellato tutto, non c’era nascosto recesso nel quale albergasse la vivida sensazione di aver avuto due braccia strette con furiosa forza intorno al collo fin sul punto di soffocarlo, né tanto meno la consapevolezza di cosa avesse condotto a quella tragica situazione, né come si fossero svolti i fatti, cosa avesse preceduto e cosa impedito il peggio, nemmeno la sensazione che quella volta si fosse stati a un passo dalla morte, la si avesse vista in faccia, le si fosse data la mano.
Mano che invece noi in quell’istante, quanto meno in forma ideale se non pratica, ci eravamo appena stretti, gettando rapidissimamente molte palate di terra su una fossa rimasta per un tempo interminabile aperta, al limite della putrefazione di quanto in essa deposto, anzi ormai mummificata la salma là dimenticata.
E la constatazione di quanto distanti fossero il mio vivido ricordo e la sua totale cancellazione della più minima rimembranza mi resero come spossato, vinto, esausto, ma anche, incredibilmente, pacificato, distante.
Io odiavo quell’uomo, come ho detto stavo per ammazzarlo, ed avevo senza tregua mantenuto desto il proposito di portare a compimento quel desiderio assassino.
Lo odiavo e provavo tutto quello perché in un soleggiato pomeriggio primaverile, o forse ad estate appena iniziata, nel rapido volgere di qualche istante, lo vidi prendere a pugni in faccia mio fratello, colpirlo in volto mentre altri due energumeni lo costringevano immobile avendolo afferrato per le spalle ed esponendolo alla gragnuola di colpi che lo stavano facendo sanguinare e non era difficile immedesimarsi nel dolore provato.
Avrò avuto dodici o tredici anni, forse quattordici, certo non di più, e Davide, mio fratello, il più grande, mi portò con sé per qualche giorno fuori stagione in vacanza all’isola del Giglio, dove alcuni nostri zii possedevano quella che a tutti gli effetti dovrebbe essere chiamata una villa, cioè una casa tutta loro, indipendente, solitaria, circondata dal verde, da cui si vede benissimo il mare che è proprio lì di fronte, ma sobria, affatto pretenziosa, esente dallo sfarzo, per certi versi quasi modesta, benché non priva di gusto e di raffinati accorgimenti.
All’epoca Davide incespicava, comprensibilmente disorientato, tra una vocazione da figlio dei fiori – da hippy si diceva allora – pace, amore, musica e prime esperienze psichedeliche, e un’altra derivata o non disgiunta, ma in nuce inconciliabile con la prima, quella dell’anarchismo, di un certo anarchismo, di una ribellione sul punto di predisporsi alla violenza, all’insurrezione armata, al terrorismo. E le sue compagnie di allora saltabeccavano tra questi due orientamenti.
Lui, generoso e di buon animo, aveva invitato un manipolo di amici in bilico tra le due opzioni a trascorrere qualche giorno in quel “buen retiro”, né più né meno auspicando, suppongo, ore di spensieratezza in comune come ancor oggi fa qualsiasi adolescente.
Perciò taluni furono ospitati nella villa ed altri in tenda nel terreno circostante, condividendo però i momenti conviviali, i pranzi e le cene ovviamente consumati alle più disparate ore del giorno o della notte, i momenti in cui suonare la chitarra e lasciarsi andare al canto.
Non posso dimenticare la disponibilità a portarmi appresso, forse imposta dai miei genitori quasi più a tutela della sua integrità che del mio divertimento, ma in definitiva consapevolmente e con pienezza accolta tanto che mi vien da dire di essermi sentito come un figlio nelle mani di un padre, per quanto davvero non ricordi come potessi provar piacere e soddisfazione da una compagnia tanto più grande di me, solo tre anni a onor del vero, ma un abisso direi a quell’età.
Un giorno, alcuni dei convitati accampati nel giardino della casa – un susseguirsi di ulivi e qualche altro albero di cui non saprei dire il nome, se non due piccoli neonati pini che mio fratello ed io avevamo piantato seminando i pinoli raccolti nella piazza accanto a dove vivevamo in città ed essi sorprendentemente avevano attecchito ed anche rigogliosi – entrarono nell’edificio le cui porte erano aperte e nel quale noi ci trovavamo insieme agli altri ospiti.
Entrarono ed iniziarono, scherzosi ma affatto affabili, a far incetta dello scatolame che si trovava in cucina, poca roba, niente di prezioso, le provviste per il desco comunitario di quei pochi giorni di vacanza.
E dopo aver arraffato fagioli, tonno, simmenthal e simili, proprio mettendoseli in tasca con mano lesta, passarono con fare furtivo e insieme beffardo, forse scanzonato, a far incetta di suppellettili e soprammobili, anche in quel caso niente di prezioso, ma comunque appartenente agli zii, che avevano offerto l’usufrutto, non la cessione, del loro luogo e dei loro beni, oggetti ai quali probabilmente erano affezionati, avendoli conservati in un posto a loro caro.
Quando mio fratello si rese conto di quanto stesse avvenendo, protestò amareggiato, limitandosi a chiedere la sospensione di quello che non poteva sembrargli altro, e forse nell’intimo desiderava altro non fosse, che un infelice gioco, ma al protrarsi dell’accaparraggio della misera refurtiva, si fece più adirato e risoluto, e, non essendo affatto privo di coraggio, si avvicinò ai furfantelli per strappar loro di mano il mal tolto, per recuperare quanto era stato sottratto.
Fu a quel punto che due di loro lo immobilizzarono portandogli le braccia dietro alle spalle, incurvandogli la schiena di modo che protendesse il petto, lo stomaco e il volto, e il terzo – l’uomo che io poi stavo per uccidere, col quale ormai, grazie all’amico dai folti baffi, ora ho chiuso qualunque conto in sospeso e sopito ogni rancore e che ora mi compare su Facebook come suggerito amico – iniziò a colpirlo con decisione e forza, un cazzotto dietro l’altro, veemente e quasi posseduto, fino a farlo sanguinare senza nemmeno emettere un grido di dolore.
Fu una frazione di secondo quella che intercorse tra la mia percezione e l’azione che questa scatenò, nessun pensiero passò per la mia testa, fu solo il sistema nervoso ad accendersi, e se ad affacciarsi alla coscienza qualcosa vi fu, fu solo l’istinto, l’immediata reazione, senza alcun calcolo sulle conseguenze, l’opportunità, il senso di tutto ciò.
Mi scagliai furente sull’aggressore, quello che stava compiendo il maggior danno ed andava immediatamente fermato, anzi soppresso, reso innocuo e per sempre.
Gli circondai il collo col braccio destro, quello dotato di maggior forza e istintivamente il primo ad innescarsi, ed iniziai a stringere, a stringere e solo a stringere, senz’altra intenzione che non fosse quella di stringere, e per farlo con maggior potenza afferrai al polso il braccio destro con la mano sinistra, e scaricai su di esso tutta l’energia che l’altro braccio conteneva ed era in grado di trasmettere, di modo che la presa fosse possente ed inesorabile, ed accompagnai tutto questo arretrando le spalle per conquistare qualche centimetro ancora alla ritorsione, per moltiplicare l’effetto della costrizione, l’emulazione del cappio, e in definitiva per trasformare quello stringere, stringere e solo stringere, senz’altra intenzione che non fosse quella di stringere, in uccidere, uccidere e solo uccidere, senz’altra intenzione che non fosse quella di uccidere, totalmente incurante di qualunque implicazione morale, valutazione delle conseguenze, considerazione pietosa, essendo completamente assente qualsiasi cosa appartenesse al raziocinio, eclissatosi dinanzi alla strabiliante potenza del ferino, del bestiale, del sanguigno.
Sì, diventare assassini è così semplice, non è affatto astruso ed appartenente ad un mondo non nostro come potrebbe comprensibilmente apparire, quantunque per fortuna ordinariamente questo prevalga, ed è probabilmente dall’intuizione di quella “banalità” che molti anni orsono ho scritto un racconto, inserito in una raccolta non ancora pubblicata, il quale ruota proprio intorno a questa confidenzialità col crimine ed il brutale, ma anche con quanto spinge ad astenersene.
Dunque stavo per ucciderlo e me l’hanno fortunatamente impedito, anche se ancor oggi trovo degno pagar col carcere a vita il fio per non averci visto più dinanzi alla gratuita, brutale e vigliacca aggressione di mio fratello.
Sì, di mio fratello, di lui o parimenti di uno degli altri due che ho, ma suppongo anche di quelli in qualche maniera acquisiti per scelta, per elezione, quelli che più appropriatamente si chiamano amici, senza confonderli con il solo contatto telematico di chi ha un account su Facebook.
Ma più in generale, credo, per chiunque subisca un torto o sia vittima di violenza e si trovi sul punto di essere ucciso perciò è d’uopo uccidere chi lo sta facendo, a meno che non si riesca ad immobilizzarlo, renderlo sterile e inoffensivo.
Scriveva Primo Levi in Vanadio, uno dei più bei racconti di Il sistema periodico, riferendosi al tedesco conosciuto in lager col quale, per motivi di lavoro, era casualmente dovuto tornare in relazione, trovando un uomo che di quanto era avvenuto ad Auschwitz sostanzialmente diceva di non aver avuto all’epoca «keine Ahnung», di non essersi reso conto, ed ancor oggi, al tempo della loro corrispondenza, insisteva a «non avere assolutamente idea»:
«Mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli, ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici. Nel caso contrario, del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo» .
Condivido in pieno il pensiero e della citazione mi sono avvalso nel racconto che s’intitola Ebrei erranti e fa parte di Sempre più verso Occidente.
E l’aggressore di mio fratello sottratto alla morsa mortale delle mie braccia, negli anni in cui si veniva uccisi partecipando a un corteo o perché ci si trovava in un comizio in piazza, stava, il volto mezzo travisato, con in mano il manico di piccone adornato da uno straccetto appena di bandiera rossa che i militanti di “Autonomia operaia” non esitavano a brandire per colpire noi giovani comunisti, rei di aver venduto l’anima al diavolo in un patto col demonio democristiano, giungendo finanche, in qualche caso, a servirsi di armi da fuoco.
Mio dovere era giudicarlo, non perdonarlo, e l’odio dentro era tutt’altro che spento, perciò come un cane affetto dalla rabbia, per così lungo tempo ho arricciato il naso, mostrato i denti e stretto i pugni pronto a colpire ogni qual volta mi sia comparso dinanzi, fino appunto al momento in cui l’amico con i folti baffi e l’accento straniero, ha concluso quell’incontro.
Ed io nel frattempo ero a un buon punto sulla strada che mi ha portato a cancellare ogni rancore, a non sentirmi né in debito né in credito, a sedare il poco di invidia che mi può in passato esser appartenuto, a frenare, fin quasi ad estinguerla, la gelosia.
In altre parole a sentirmi in pace con me stesso e con il mondo, lasciando che i pochi nemici ancora esistenti – si contano esattamente sulle dita di una mano ed hanno un nome e un cognome –, in quanto rimasti tali, perseverando nella volontà di creare sofferenza e non mostrando segni certi di pentimento, decisi a non cessare di essere nemici o ancora non avendo, o trovando comodo e consolatorio non avere, «keine Ahnung», siano da me giudicati, non perdonati, mi risultino indifferenti e come se vivessero in un mondo che non è il mio, dal quale mi tengo a debita distanza.
Ma per tornare al morituro, la constatazione che in lui il non rendersi conto, il non avere idea, «keine Ahnung», il non ricordare più nulla, nemmeno l’istante in cui stava per essere ammazzato, avessero finito per essere prodotti dall’abuso di sostanze che spappolano il cervello, o quanto meno lo costellano di buchi, vuoti, voragini, mi ha indotto ad abbassare la guardia, a riporre nella faretra la spada così a lungo tenuta in allerta.
Però vedermelo suggerire come amico da un algoritmo fatto da una macchina che probabilmente risiede a Seattle o a San Diego, ha riaperto una finestrella nella mia mente e, di getto, agìto presumo da quel qualcosa che all’inizio di questo scritto ho immaginato animi lo scienziato e sia la scintilla dell’antropologo, ho posto la provocatoria domanda: «Al posto mio chiedereste l’amicizia su Facebook alla persona che in gioventù ero davvero sul punto di ammazzare?»
Come ho scritto, i commenti sono stati numerosi, per lo più suggerimenti affettuosi, tutti ovviamente ignari del fatto che io sia stato davvero sul punto di uccidere un uomo e della, chiamiamola così, stretta di mano finale.
Ad uno di essi sono particolarmente grato, non solo per quello che dice ma perché l’ha scritto la mia amata nipotina, Felicita Recordati che per me è Feliz. Alla quale di fatto dò ascolto, in parte perché se non un romanzo, come suggerito da Sandro Damiani, qualcosa ho scritto, ma anche perché non chiederò l’amicizia al sopravvissuto.
Ma non gliela chiederò non per il permanere di un rancore o altre elucubrazioni sul passato, ma solo perché credo che avremmo poco da dirci, e se finissimo per dircelo, i vuoti nel suo cervello, lo rimuoverebbero celermente. Direi, dunque, per inutilità, disinteresse, riappacificazione. Che è lui là, ed io qua.
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