Il linguaggio rapito

Ho chiesto un consulto ad un esimio luminare, specialista in patologie di un angolo buio del corpo, dove altri stimabilissimi professionisti non hanno indagato.

Anzi a me pareva che quell’estremità, nelle pur minuziose e sofisticatissime indagini d’ogni tipo recentemente fatte per far luce su che diavolo stia avvenendo nel mio corpo, fosse rimasta un po’ in ombra, o addirittura oscurata.

Mentre io avverto chiarissimo, come alla luce del sole, il suo coinvolgimento, quanto meno l’associazione a quanto d’intorno gli avviene, e volevo comprendere se fosse escluso, coinvolto o addirittura compartecipe dei fastidi che mi accompagnano da un po’ di tempo.

I quali hanno richiesto, oltre alla pazienza del mio medico curante, alla premurosa attenzione del nefrologo che mi segue da anni ed ormai è tanto amico quanto medico, la collaborazione di un altro non piccolo stuolo di specialisti, ognuno preposto a un pezzetto del puzzle che si sta cercando di ricostruire, cioè io.

Affiancati nella loro preziosa attività di restituirmi salute, da altre altrettanto preziose figure di professionisti che, oltre alla mia salute, sono preposti a guardare anche al mio benessere.

No, non al mio arricchimento, all’accrescimento delle risorse e delle finanze, invero disastrate e non favorite dai costi legati al disagio ed alla malattia, ma all’equilibrio della varie parti tra loro, comprese quelle meno fisiologiche e più energetiche, in taluni casi meno dipendenti dalla chimica o, comunque, dalla combinazione di elementi da assumere con la regolarità di un certosino, precisione che comporta un non indifferente impegno di tempo e testa, ma va be’.

Vado insomma dal luminare e porto con me i referti basilari, quelli che evidenziano la sostanze delle cose e spesso racchiudono in sintesi quanto emerso da altri esami, accertamenti, analisi, diagnosi.

Mi chiede il motivo della visita ed io cercando di essere breve ma di dire tutto parto dal problema principale, lo chiamo con il suo nome riferendo grosso modo le date dell’insorgenza del problema ed il fatto che questo si è presentato a distanza di un certo numero di anni dall’altra patologia seria con cui faccio i conti, tenendola fortunatamente finora sotto controllo, ed anche per questa uso il termine esatto con la quale si indica.

Poi passo al malanno che maggiormente mi affligge, quello forse meno grave ma più doloroso e invalidante, dandogli conto di come esso sia insorto, per così dire, come effetto collaterale delle terapie pesanti assunte per contrastare, con discreti risultati, il morbo principale, sia insomma stata causata da farmaci e farmaci chieda di impiegare.

Per l’esattezza gli enuncio il fatto che quanto ora mi rende pesanti le giornate è la fase avanzata di un accidente ormai concluso nell’ambito in cui compare e che lascia però strascichi altrove, derivati dai danni che esso ha provocato nella sua fase acuta, considerata dai medici ormai risolta.

Per entrambe le malattie impiego i termini scientifici che i medici mi hanno riferito nel curarle, ed è a quel punto che l’esimio luminare mi chiede dove sia il referto che attesta quanto sto dicendo.

Gli mostro il foglio, invero assai scarabocchiato, dove viene diagnosticata la prima di queste due malattie, quella più aggressiva ma ormai sedata da cui discende l’altra, e questo in letteratura è quasi come l’ABC, ed è a quel punto che indispettito il prof mi chiede dove sia il documento che certifica l’esistenza di questo secondo male derivato dall’altro.

Quasi scusandomi gli dico che una carta attestante lo stato avanzato o degenerativo della prima non c’è, ma dovrebbe far fede il verdetto impresso con quella calligrafia pasticciona sul foglietto appena mostrato, il quale diagnostica un accidente nella sua fase iniziale che nella maggior parte dei casi poi degenera in quella successiva, la quale interessa altre parti del corpo, si sposta, assume forme diverse, necessita di specifici trattamenti, per certi versi entra nel campo di competenza di specialisti diversi da quello che ne ha appurato l’eziologia, aggiungendo che anche tutti gli altri specialisti stretti al mio capezzale, pur non occupandosene direttamente e non avendone riportato traccia scritta nei loro referti, concordano, chiamandolo con il nome da me impiegato, sull’esistenza del fastidio per il quale ora a lui ho chiesto un consulto, ed in particolare per chiedergli se vi siano interferenze di questo fastidio laddove lui è sovrano, se abbia provocato lesioni in quel luogo di tenebre, invero un po’ maleodorante, di cui egli ha approfondita conoscenza.

E mi permetto di aggiungergli che la sintomatologia di quanto gli ho riferito con linguaggio specialistico è ben appurata, purtroppo, dalla mia percezione, in particolare dal dolore, inequivocabilmente di una tipologia attinente a quello così ampollosamente definito.

Sul volto del medico il fastidio e l’indisposizione assumono allora un’inequivocabile espressione, direi fosse stizzito, e allora mi tempesta di domande per definire l’esatta manifestazione del dolore che provo, ed io gli spiego che è duplice, una localizzata nell’area di sua competenza, ed una riflessa nelle aree circostanti e di lì trasmessa mediante il sistema nervoso altrove, e lui insiste perché io tralasci questa derivazione o diffusione della sofferenza.

Mi concentro allora sui tenebrosi recessi di sua competenza e gli enucleo la presenza di un sintomo e dell’affezione che ne è causa, chiamandola col proprio nome, il che finisce per innervosirlo oltre misura, tanto che mi zittisce affermando che spetta a lui diagnosticare l’eventuale presenza di tal malanno.

Mansueto lo assecondo, garantendogli che sono proprio lì apposta, che tale è lo scopo della mia richiesta di un consulto, e mi dichiaro pronto a una visita che non è affatto gradevole ed anche un po’ imbarazzante, ma che mi dispongo a far fare, proprio per appurare la presenza di eventuali danni nei pertugi ad egli noti e di cui ha gran dimestichezza, avendo maturato nel corso degli anni passati prima studiando e poi esercitando, un’esperienza che gli è attestata e riconosciuta.

Sfurdiga allora con mia paziente sopportazione nell’orifizio ed acclara che, proprio dove io gli dicevo, la pressione procura dolore, lì in maniera diretta e poco più in là in maniera riflessa, cioè altrove, lontano dalla zona perlustrata, a dimostrazione di una conduzione nervosa innescata in quella parte del corpo e in un’altra percepita.

Al termine della perlustrazione il luminare non mi riferisce nulla di quanto riscontrato in quell’oscura cavità, non mi testimonia la presenza o meno di qualcosa che si possa dir patologico, semplicemente nota la presenza di una secrezione o di un inumidimento che gli risulta anomalo e probabilmente indicante una qualche malfunzione, ma io mi trovo costretto a precisargli che probabilmente si sta riferendo ad una pomata usata, dopo le abluzioni e l’igienizzazione nella zona interessata, per lenire il dolore, sedare l’infiammazione e, a quanto mi è stato detto da chi me l’ha consigliata, ridurre e far rientrare l’affezione che io mi ero permesso di chiamare con il proprio nome senza che fosse stata clinicamente appurata, un po’ come dicendo occhio si intende l’organo con cui si vede o stomaco per dir di dove avviene la digestione.

Mi prescrive allora dei costosi, dolorosi e complessi esami mirati ad acclarare la patologia meno grave ma più dolorosa che mi affligge e sulla cui presenza tutti gli altri medici concordano, avendomi anche prescritto farmaci mirati a placarne gli aggressivi effetti e ad accelerarne la spontanea risoluzione, invitandomi ad una visita di controllo dopo la raccolta dei referti di quegli accertamenti.

Che, a parer di tutti gli altri specialisti, nulla aggiungerebbero alla conoscenza del problema, solo confermandolo, tutt’al più dandogli una misurazione di intensità, ininfluente alla messa a punto della terapia da adottare per contrastare il problema, attutire il dolore, ripristinare la normalità.

Ringrazio e me ne vado con quei nuovi foglietti in mano, sapendo che non me ne servirò per non sprecar denaro pubblico e in quota aggiuntiva mio, saper quel che già so e sottopormi ad un surplus di sofferenza.

Ma tutto questo solo per raccontare di come l’appropriazione e l’utilizzo da parte del profano di linguaggi specialistici, mirati ad indicare con maggior precisione ciò di cui si sta parlando, possa infastidire chi è detentore primario di quel vocabolario, quasi che lo si stia espropriando della sua indiscussa competenza, sminuendo il suo ruolo, riducendo il suo prestigio.

Non date le perle ai porci dicevano in latino gli alchimisti preservando la segretezza del loro sapere e l’ermetismo delle loro pratiche all’alba della scienza moderna. E qualcosa di quello stregonesco clima, di quel debito alla magia, dev’essere rimasto intatto nella nostra era dove lo stato della salute degli individui è principalmente affidato a macchine che emettono numeri implacabili e millimesimali.

Pape Satàn, pape Satàn aleppe.

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