Una barzelletta rivelatrice

Sigmund Freud

Se non ricordo male, Freud s’è occupato delle barzellette, dando loro dignità di forma espressiva degna d’essere presa in considerazione, non tanto però per il valore intrinseco che si può trovare in quelle storielle, prevalentemente trasmesse in forma orale e volte a scatenare una reazione di ilarità nell’ascoltatore; per lo più brevi, al limite della semplice battuta, che in questo caso mi par paragonabile a un aforisma e cioè ad una delle forme letterarie che io prediligo perché riesce a condensare in una sola frase o poco più quello che ad altri necessita un intero romanzo o un trattato di filosofia; non tanto dunque per la qualità della costruzione narrativa e per i messaggi con esse comunicati, quanto per il bisogno di un individuo di servirsene, per la possibilità che raccontandole ci si nasconda dietro qualcosa e dicendole s’intenda sotto sotto dir altro.

Non so se critici letterari, filosofi, linguisti, semiologi le abbiano approfonditamente studiate e noto la scarsità di informazioni enciclopediche che riguardo ad esse emerge digitando la parola su un motore di ricerca, il quale per lo più indirizza verso stupidari grossolani, giocosi o grevi, improvvisate antologie che mettono in fila tutto quanto è stato recentemente messo in circolazione per scatenare la risata o strappare un sorriso.

Mentre sono piuttosto convinto che se debitamente selezionate meriterebbero la collana di una seria casa editrice, l’introduzione nei libri di testo che riferiscono delle differenze fra il racconto, il romanzo, la novella, il componimento poetico, il libretto d’opera, e che riflettendo sulla “morale” di alcune di esse, novelli Wittgenstein, Heidegger, Gramsci o Nietzsche potrebbero avere molto da dirci.

In altre parole dico che le barzellette, non tutte, ma quelle che davvero rivelano l’estro dell’intuizione, la forza del paradosso, ma anche le felicità della costruzione sintattica e narrativa, andrebbero tenute di gran conto e, trattandosi appunto di componimenti per lo più trasmessi in forma orale, meriterebbero di essere trascritte nero su bianco, lasciandone testimonianza, datandole e cercando di individuarne la provenienza, illustrando il contesto nel quale sono nate e al quale fanno riferimento, catalogando i temi che trattano e gli ambiti concettuali nei quali si collocano, e, in definitiva, che 4 o 5 volumi dei Meridiani Mondadori potrebbe a pieno titoli ad esse essere dedicati, così come s’è fatto dell’eccellenza giornalistica o antologicamente dei lirici greci o dei presocratici.

Val peraltro la pena ricordare che di essa l’enciclopedia Treccani dà la definizione di «componimento poetico per musica, d’origine popolare (sec. 15°). Composto di solito di settenari e ottonari, caratteristico per la scioltezza del metro e la leggerezza del tono, fu detto anche frottola».

Wikipedia annota: «Il meccanismo linguistico alla base della barzelletta è normalmente il rovesciamento in forma comica, ridicola o semplicemente inusuale di una situazione normale, quotidiana, che può essere condivisa e compresa da chiunque. Questo rovesciamento può aversi già all’inizio o nel corpo del racconto, oppure, più frequentemente, al termine della storia, sfruttando così al massimo l’effetto sorpresa della situazione inattesa».

E aggiunge come essa sia «strettamente legata alla forma orale», tanto da essere «spesso accompagnata dalla mimica del raccontatore e da una caratterizzazione caricaturale dei protagonisti, per conferire corpo e forza al racconto», così avvicinando la qualità ed il valore della barzelletta non solo all’ambito letterario e filosofico del quale difendo la dignità, ma anche a quello teatrale.

Wikipedia insiste sul suo aspetto recitativo, spiegando che spesso è proprio esso, data «la brevità della vicenda, quasi sempre raccolta in poche frasi», l’ingrediente basilare «per ottenere il coinvolgimento dello spettatore e, quindi, il massimo effetto». Il quale appunto può dipendere proprio dalla sua «interpretazione», altrimenti «se non riportata con il giusto coinvolgimento, riesce al massimo a far sorridere. In questo caso si dice normalmente che il narratore “non le sa raccontare”».

Poi precisa: «Un’altra cosa è la freddura, che condensa di solito in una o due sole frasi l’effetto comico».

Riferisce di alcune costanti della barzelletta, il fatto cioè che in Italia se vuoi raccontare di uno sciocco prendi a prestito un carabiniere, mentre negli Stati Uniti la stessa storiella è interpretata da un polacco; o il bambino un po’ monello ma furbetto che si chiama sempre Pierino.

Fornisce infine la preziosa informazione che Achille Campanile nel 1961 ha scritto un Trattato delle barzellette, ristampato nel 2001 dalla BUR con postfazione di Stefano Bartezzaghi.

Ho fatto questa premessa – dalla quale si desume che la battutaccia o la storiella sconcia sono esercizi di stile come quelli che ci ha disvelato Raymond Queneau (rimando a questo post e a quest’altro) perché mi pare utile riportare qui una barzelletta appresa molti anni orsono, quando ancora lavoravo all’Unità, raccontata da un collega senese che poi ne ha fatta di strada, barzelletta che di tanto in tanto io racconto ancora, perché, al di là del suo lato divertente e ovviamente un po’ sboccato, mi pare istruttiva, rivelatrice di quanto siano fragili le nostre ipocrisie e malleabile il nostro linguaggio.

Mi è tornata in mente dopo aver raccontato in Il linguaggio rapito la gelosia e la presunzione di casta dell’esimio luminare, specialista in patologie di un angolo buio del corpo del cui nome non mi sono mai servito, facendo perifrasi e aggirando gli ostacoli intorno al riferimento specifico. Ecco la barzelletta, ambientata a Firenze – perciò si serve della parola “babbo” al posto di “papà” – ma riproducibile con la toponomastica di una qualunque città al mondo:

Un bambino e suo padre stanno camminando in piazza del Duomo. L’uomo vede una bella ragazza e resta colpito dal suo splendido sedere e di bocca gli sfugge solo bisbigliato: «Che culo!»

«Cos’hai detto babbo?», gli chiede il bambino che l’ha sentito mormorare.

«Gufo, tesoro, ho detto gufo».

«E che cos’è un gufo, babbo?»

«Un gufo è un uccello rapace, con gli occhi grandi e gli artigli possenti, che sta sugli alberi e di notte fa “tuu, tuu, tuu”».

«Ah, ecco, grazie babbo», gli risponde il bambino.

I due arrivano in via Calzaiuoli e il bambino chiede: «Babbo, e i bambini del gufo come si chiamano?»

«I bambini del gufo si chiamano gufini, e sono quegli uccelli rapaci, con gli occhi grandi e gli artigli possenti, che stanno sugli alberi e di notte fanno “tuu, tuu, tuu”».

Il bambino ringrazia di nuovo e qualche centinaio di metri dopo, in piazza Signoria, sempre stretto per mano al padre, domanda con la sua flebile ma decisa voce:«E i bambini dei gufini come si chiamano?»

«I bambini dei gufini si chiamano gufini-ini, e sono quegli uccelli rapaci, con gli occhi grandi e gli artigli possenti, che stanno sugli alberi e di notte fanno “tuu, tuu, tuu”».

Solito ringraziamento, silenzio fino a via por Santa Maria in direzione dell’Arno, poi di nuovo l’interrogativo:«E i bambini dei gufini-ini come si chiamano, babbo?»

«I bambini dei gufini-ini si chiamano gufini-ini-ini, e sono quegli uccelli rapaci, con gli occhi grandi e gli artigli possenti, che stanno sugli alberi e di notte fanno “tuu, tuu, tuu”».

Giunti al Ponte vecchio il piccolo esordisce con l’ennesima domanda: «E i bambini dei gufini-ini-ini come si chiamano?»

«Culo, ho detto culo!»

Ecco, di quello si stava parlando senza dirne mai il nome.

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