Omaggio all’utopia

L'Utopia ti Tommaso Moro

Mentre stavo scrivendo un articolo che pubblicherò nei prossimi giorni intorno alla figura di Italo Calvino, ieri ascoltavo a Radio 3 Peppe Servillo leggere brani delle visibilissime Città invisibili dal palco della festa dell’emittente culturale della Rai che, con il pensiero rivolto ai terremotati, fino a domani si svolge a Matera avendo come tema intorno al quale ruotano gli eventi le utopie e le distopie, e prima di sentire quelle concise, accurate geografie metropolitane fantastiche, avevo sentito ospiti della trasmissione ricordare che in questo 2016 ricorrono i 500 anni dell’Utopia di Tommaso Moro, il testo che ha introdotto questo concetto – quantunque i “non-luoghi” esistano fin dall’antichità, ne è piena la mitologia e l’epica greca, ma che altro è l’Atlantide di Platone? – ed i rimandi che da questa parola giungono ad Adriano Olivetti, personaggio a cui sto prestando sempre maggior attenzione.

Ascolto tutto questo e mi sovviene che il titolo originale dell’intervista contenuta in Appropriazione indebita nella quale Eugenio Garin storceva il naso all’ipotesi di affossare, con il nome del Pci, la molla che fa desiderare di non aspettare il paradiso nell’al di là e di avere dei valori in cui credere era proprio Ma un’utopia deve restare, e che anche  un intero capitolo, il nono per la precisione, del mio Apocalisse, il giorno dopo. La fine del mondo fra deliri e lucidità, pubblicato da Baskerville nel 2012, tratta proprio il medesimo argomento.

Ho deciso quindi di pubblicarlo qui anche in vista della mostra sulla fine del mondo che aprirà il 16 ottobre a Prato, inaugurando il ristrutturato museo Pecci d’arte contemporanea, della quale ho qui dato conto in Gli articoli sulla fine del mondo.

La copertina di "Apocalisse, il giorno dopo"

9. Utopie e non luoghi

L’Ottocento è, per certi versi, considerato anche il secolo delle grandi utopie e, come vedremo più avanti, spesso è dalla delusione per la mancata realizzazione di queste, dal loro non “inveramento” qui, in terra, che scaturisce un ripiegamento tanto pessimistico da prefigurare nuovamente l’ipotesi della fine del mondo.

Letteralmente utopia significa “non luogo”, dal greco ou-topos. È, insomma, l’isola che non c’è. O, se si vuole, è solo immaginata e lì, nell’immaginazione, esiste.

In questo senso potrebbe essere dunque ciascuna di quelle voci – o tappe, essendo stato scritto in forma di guida turistica – di quel Dizionario dei luoghi fantastici di Alberto Manguel uscito nel 1980 che porta il lettore in viaggio nelle méte immaginarie scaturite dalla penna degli scrittori di ogni tempo.

Ma l’utopia è anche eu-topia, vale a dire “luogo felice”, e tuttavia sotto il suo dominio rientrano anche le dis-topie, vale a dire le utopie negative, o antiutopie o contro utopie, perché anch’esse, nella maggior parte dei casi, immaginano un luogo che non c’è.

E, d’altra parte, nella sua orbita andrebbe iscritta anche l’ucronìa. Questa parola indica un genere di narrativa fantastica (detta anche fantastoria o allostoria o storia alternativa) che immagina la storia del mondo nel caso avesse preso un corso diverso da quello reale, avvicinandosi alla fantascienza e alla fantapolitica. Il termine ucronìa è apparso per la prima volta nel 1857 come titolo di un saggio del francese Charles Renouvier e si basa sul “cosa sarebbe successo se” non comprendendo quelle utopie o distopie che, anziché partorire un altro mondo, partoriscono un altro tempo. Tito Livio viene considerato il primo autore di una ucronìa, avendo immaginato in un brano di Ab Urbe condita cosa sarebbe avvenuto se Alessandro Magno anziché sviluppare il regno macedone ad est si fosse spinto ad occidente. Appartiene al genere delle ucronìe quella Storia dell’assedio di Lisbona di José Saramago che abbiamo citato ricostruendo la leggenda del Mille terrifico.

Ma torniamo all’utopia. La parola comparve per la prima volta nel 1516 quando Thomas More dette alle stampe a Lovanio, il Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, che contiene «la dettagliata descrizione di un mondo ideale situato in un’isola dove la vita è regolata da saggi ordinamenti che consentono uno sviluppo sereno e armonico dei cittadini, mettendoli al riparo dalle insidie del lusso e dalle minacce della povertà»1.

È importante precisare che si tratta del resoconto di un viaggio fatto da un marinaio reduce da esplorazioni nel nuovo mondo, in un paese lontano dove quell’ideale è realizzato, non della trattazione teorica dell’ideale.

Non-luoghi-felici si incontrano nell’Odissea di Omero e la rigorosa descrizione razionale di uno Stato perfetto compare nella Repubblica di Platone, considerata la prima manifestazione del pensiero utopico.

Ovviamente, a tutti gli effetti, un felice-non-luogo andrebbe considerato anche il paradiso, il regno dei cieli, o comunque lo si sia chiamato, e parimenti privo di collocazione realmente “geografica” è l’inferno, così come il purgatorio, che siano stati chiamati Ade, Walhalla, Janna o Amenti.

È un’utopia la leggendaria isola Atlantide, descritta da Platone nel Timeo e in Crizia, così come Libertalia, la colonia di pirati fondata nel 1724 vicino al Madagascar.

Per delimitarne l’ambito, Verra invita a considerare l’utopia come «una costruzione immaginaria» e «uno stato ottimale della cosa pubblica».

L’utopia si configura così come alternativa critica rispetto alla realtà presente, esperita, vissuta, e come alternativa totale e ottimale, dotata di una sua intrinseca razionalità, rispetto alla quale anzi risulta irrazionale, e perfino assurdo, il modo effettivo di vivere e di pensare nella realtà storica presente e conosciuta.

Essa si presenta, a differenza delle fantasticherie e delle costruzioni romanzesche «come il risultato di una progettazione sapiente, meditata, dotata [...] di una “logica” interna».

Intesa in questo senso, oltre a quelle già citate di Platone e Tommaso Moro, sono utopie La città del sole (1623) di Tommaso Campanella, La nuova Atlantide (1627) di Francesco Bacone, Oceana (1656) di James Harrington.

Lo è, naturalmente, anche I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift che, con un evidente intento di critica sociale, già contrappone una società quasi perfetta a una orribile e assai simile a quella reale.

Per restare nell’ambito delle utopie più squisitamente politiche si deve ovviamente fare i conti con Saint-Simon, Owen e Fourier, e insomma con quello che viene definito il socialismo utopistico che propugnava e riteneva possibile una riforma generale della società e dello Stato capace di garantire giustizia e redistribuzione delle risorse.

È noto che Marx, e più di lui Engels2, conducono una aspra critica a questo indirizzo di pensiero, considerandolo irrealizzabile in assenza di una rivoluzione. La contrapposizione dà origine a quello che gli stessi Marx ed Engels chiamano socialismo scientifico, rivelando tuttavia la soggezione del loro impianto teorico al clima positivista di quegli anni, all’ottimismo cieco dell’evoluzionismo e che sarà alla base di una amara delusione dai toni fortemente pessimistici.

Vedremo più avanti come alcune delle voci che animano proprio il dibattito critico sul ruolo dell’utopia – a favore o contro di essa – siano in qualche modo partecipi di questo orizzonte culturale.

Il fiorire delle utopie nell’Ottocento, è spesso animato dall’elogio del Progresso scientifico come motore di una società del benessere capace di garantire un ordine sociale dove l’equa distribuzione del reddito si sostituisce alla logica del profitto.

Verra sostiene che, fatta eccezione per L’an 2440. Rêve s’il en fut jamais, pubblicato da Louis Sebastian Mercier nel 17713, è alla fine dell’Ottocento che l’utopia passa dal viaggio nello spazio immaginario a quello nel tempo, o meglio, offre all’uomo la possibilità «di muoversi nel tempo a suo piacimento, dominandolo, come già è accaduto per lo spazio».

La scoperta delle geometrie non euclidee e la teoria della relatività hanno infatti, nel frattempo, mutato la concezione del rapporto spazio-tempo.

La macchina del tempo di Herbert Georges Wells4 ne è l’esempio più significativo. In essa si afferma esplicitamente che «la concezione tradizionale della geometria è errata poiché tiene separate le dimensioni spaziali da quella temporale».

Sempre Wells in Uomini come dèi5, facendo riferimento alle teorie einsteiniane, immagina un gruppo di attoniti cittadini inglesi del Novecento sbalestrato, per un esperimento compiuto dagli utopiani, nel loro universo, un mondo paradisiaco, abitato da splendide creature simili a divinità elleniche e in una natura idilliaca e pacificata dove perfino le belve feroci convivono serenamente con gli altri animali e con l’uomo. Così Wells immagina «una pluralità di tempi, ciascuno dei quali dotato di un suo sviluppo interno e nei quali ci si può collocare a piacere, passando dall’uno all’altro come ci si muove nelle diverse dimensioni dello spazio»6.

Anche le prospettive biologiche e genetiche dischiuse dall’evoluzionismo hanno aperto nuovi scenari all’utopia. Superata la fissità della specie, l’umanità può evolvere ulteriormente, nuove forme di vita possono avere il sopravvento sull’uomo, si possono realizzare condizioni ambientali capaci di realizzare le speranze utopiche. Gli Eloïs e i Morlocks de La macchina del tempo di Wells, discendenti i primi dalle classi superiori e i secondi da quelle inferiori, ma specie biologicamente distinte, sono appunto gli esempi di un’evoluzione genetica del conflitto sociale.

Nell’ambito delle costruzioni utopico-evoluzionistiche vanno annoverati anche Infinito e Il costruttore di stelle di Olaf Stapledon7, rispettivamente del 1930 e del 1937, e Torniamo a Matusalemme di Georges Bernard Shaw8, che è del 1921. Nel quadro della polemica contro le interpretazioni dogmatiche del darwinismo tra Otto e Novecento che ne avevano accentuato gli aspetti fortuiti e meccanici dell’evoluzione, servendosene come strumenti di lotta politica e religiosa, Shaw mette l’accento sulle possibilità dell’uomo di scegliere e promuovere il proprio destino, realizzando l’utopia di una conquista evolutiva che fornisca all’uomo una maggiore longevità, tale da consentirgli di realizzare adeguatamente ciò che la durata della vita non consente, ed in particolare di mettere a frutto la saggezza e l’esperienza acquisite.

Oltre ai progressi delle geometrie non euclidee e alla relatività, oltre alle prospettive biologiche e genetiche dischiuse dall’evoluzionismo, anche la comprensione dei condizionamenti e del controllo dei comportamenti da parte della psicologia influenza gli sviluppi dell’utopia.

La storia psicologica delle utopie tracciata da Frank E. Manuel9, individua tre grandi fasi: 1) l’utopia della “calma felicità”, da More alla Rivoluzione francese, che tende a una società ideale, statica e perfetta; 2) l’“eucronia”, tipica dell’Ottocento, che idealizza una dinamica sociale volta a realizzare la perfezione utopica nel tempo e nella storia; 3) l’“eupsichia” novecentesca che mira ad oltrepassare il progetto sociale perfetto e a ricostruirne le radici più profonde a livello di istinti e appetiti.

Secondo Manuel, scrive Verra,

il Novecento non solo [...] ha compiuto una revisione dei tratti pessimistici e competitivi dell’evoluzionismo, ma avrebbe pure superato gli aspetti pessimistici e antiutopici della teoria freudiana, riconducendo i motivi di insoddisfazione e di frustrazione a condizioni sociali eliminabili, piuttosto che a fattori psicologici costitutivi, istintuali e strutturali. Viene così a cadere il pregiudizio antiutopico essenziale, e cioè l’opposizione di principio tra felicità e civiltà o, comunque, viene eliminata la convinzione che tale opposizione non possa essere superata storicamente, proprio perché non avrebbe origini storiche. Reich, Fromm, Marcuse e N. Brown rappresentano in questo senso, per Manuel, una rinascita dell’utopia adamitica in una società meccanizzata dove le relazioni sono state danneggiate da un’atrofia dell’amore.

Su un altro versante le più recenti scoperte della psicologia sono state utilizzate, perfino in sostituzione della politica almeno nelle sue forme violente e coercitive, come strumento di realizzazione dell’ideale utopico: dallo psicologo che sostituisce il poliziotto nel già citato Uomini come dèi di Wells alle meno note utopie di Hall, Münsterberg, Mc Dougall e Watson, tutte scritte fra il 1916 e il 192910.

Ma la più nota opera che lega psicologia ad utopia è Walden due di Burrhus Frederic Skinner11:

La comunità utopica qui descritta è costruita in base al principio che la psicologia, o meglio l”ingegneria del comportamento”, possa e debba sostituire la politica per avviare gli uomini a una forma di convivenza felice senza necessità di misure repressive o coercitive. [...] Non si tratta cioè di eliminare il governo, ma di instaurare una forma di governo che operi in base alla scienza del comportamento umano.

Verra analizza anche alcuni testi sui rapporti fra utopia e letteratura12 evidenziando soprattutto il dibattito sulla fantascienza indicata come esito storico e surrogato dell’utopia o come genere più ampio di cui l’utopia è una sottospecie contraddistinta dalla scienza a cui si ispira.

Non ci soffermiamo su questa analisi limitandoci all’attenzione che Verra dedica a L’uomo senza qualità di Robert Musil13, il quale «può essere considerato come una serie di esperimenti, di “saggi” utopici».

Precisione e anima, razionalità matematica e sensibilità mistica si incontrano nel carattere radicalmente utopico della letteratura e della vita. Per Musil, scrive Verra, «tutta la letteratura è utopica come la vita» e l’utopia è quella possibilità che si trova inattuata per le circostanze in cui è attualmente impigliata; sciolta da quei vincoli e lasciata sviluppare, tale possibilità diventa un’utopia, ossia un esperimento che consente di osservare il possibile mutamento di un elemento della situazione e gli effetti che esso provocherebbe in quel fenomeno composito che è la vita.

In effetti arte e letteratura contemporanee – a partire dal futurismo e dal surrealismo – sono pervase da caratteri utopici. Inevitabile dal momento che riflettono «lo sviluppo della società industriale, con le sue conseguenze non soltanto politiche e sociali, ma morali, intellettuali e perfino ecologiche, in una parola con le profonde modifiche della vita umana che ha già causato e che minaccia o promette (a seconda delle prospettive) di apportare ulteriormente».

Verra passa in rassegna alcune di queste tematiche nel corso del Novecento: dall’utopia contadina di Alexandr. V. Cajanov14 del 1920 a quella sionista di Theodor Herzl15 del 1902. Il primo descrive il viaggio nella Russia di fine XX secolo, dove la civiltà contadina ha interamente e felicemente soppiantato quella industriale, affermando «un socialismo che non considera il capitalismo industriale come una tappa necessaria dello sviluppo economico e sociale, ma imbocca la strada alternativa dell’agricoltura, che corrisponde allo stato naturale dell’uomo, da cui l’uomo è stato trascinato fuori a forza dal “demone” del capitalismo». Cajanov attinge evidentemente alle considerazioni antimoderniste del suo tempo → che incontreremo nel capitolo dedicato alla letteratura della crisi: ipotizza per esempio l’abolizione delle metropoli e la ricostruzione di relazioni culturali e sociali nelle città, sostituisce lo spirito di competizione della società americana con gli antichi valori della Russia contadina (e zarista) ma «senza per questo rinunciare ai vantaggi del progresso tecnologico».

Il romanzo del secondo tratteggia l’utopia comunitaria e cooperativistica nella prospettiva dello Stato ebraico. In questo filone Verra inserisce anche i Sentieri in Utopia di Martin Buber. Lì il kibuz, forma di socialismo libero e aperto, viene contrapposto al socialismo burocratico sovietico che lo stesso Lenin avrebbe criticato affermando «Siamo diventati un’utopia burocratica»16.

Nell’ambito dell’utopia comunitaria e cooperativistica, tesa a valorizzare gli aspetti spontanei del socialismo, andrebbe inoltre inserito, benché Verra non lo faccia, il Che fare? di Nikolaj Cerniscevkij17.

C’è poi l’utopia ecologica che prospetta un’inversione di marcia nella civiltà contemporanea non tanto per motivi morali o in nome di una vita più felice, ma in base alla pura e semplice sopravvivenza della specie. Al riguardo Verra cita L’utopia o la morte di René Dumont18 e Ecotopia di Ernest Callenbach19.

Il primo prospetta un “socialismo della sopravvivenza”, imperfetto e suscettibile di revisioni, rassegnato a rinunciare all’“estrema abbondanza”, ma capace di arrestare la tendenza suicida della società capitalistica; il secondo, seguendo la forma tradizionale del viaggio immaginario in una comunità del futuro, descrive una società nata dal rifiuto dei princìpi americani, in primo luogo delle idee di progresso ininterrotto, di industrialismo al servizio di tutti e di crescita del prodotto interno lordo, dove si è realizzato un radicale rovesciamento dell’etica protestante del lavoro per affermare il principio della sopravvivenza futura dell’umanità.

Un’attenzione particolare, soprattutto per il nesso che si sta qui cercando tra utopia e, come vedremo a breve, controutopia, tra raffigurazioni ottimistiche e previsioni catastrofiche, merita Anatole France che pubblica le sue utopie20 proprio nei primi dieci anni del Novecento.

Nel primo, del 1905, «descrive il passaggio da una società capitalistica, lacerata da conflitti e guerre, a una società socialista armoniosa che ha saputo andare perfino oltre gli slogans tradizionali – libertà, uguaglianza e fraternità – e stabilire una cooperazione effettiva tra i suoi membri», una società dove le grandi metropoli sono state smembrate, le radici di delinquenza e alcolismo sono state estirpate, l’istruzione e le arti hanno ampio spazio per dare alla specie umana, o a quella superiore che la sostituirà, ulteriori possibilità di sviluppo.

Nel secondo, del 1908, si ipotizza una catastrofe finale a cui l’umanità giunge, a causa dei progressi tecnologici e sociali, dopo periodi di anarchia, distruzioni e «perfino una sorta di esplosione atomica, cui seguirà il ritorno alla vita primitiva per ricominciare il cammino verso la civiltà industrializzata e una nuova catastrofe, secondo il ciclo ripetitivo della “storia senza fine”».

Altrettanto sfiduciata e atterrita è l’utopia prospettata da Jack London ne Il tallone di ferro21 del 1907. London si avvale di un espediente tipico del romanzo utopico, lo «sguardo retrospettivo a oltre sette secoli di distanza, attraverso un manoscritto scampato miracolosamente alla repressione poliziesca».

Ma la catastrofe e l’annientamento della specie sono, secondo Verra, anche il timore, o l’ossessione, «che sta alla base delle diverse utopie di Wells»: La macchina del tempo (The time machine) del 1895, Il risveglio del dormiente (When the sleeper wakes) del 1899, Una utopia moderna (A modern utopia) del 1905, La liberazione del mondo (The world set free) del 1913, Uomini come déi (Men likes Gods) del 1923, The shape of things to come del 1933 e Gli astrigeni (Star begotten) del 1937. Nella sua opera il conflitto delle classi è ricondotto alla legge più vasta della lotta per l’esistenza e la sopravvivenza così come i possibili rimedi sono più di natura aristocratica e tecnocratica che legati al mutamento della struttura economica e sociale: sfiduciato nelle istituzioni parlamentari e negli Stati, Wells confida «soltanto in un “governo mondiale” che realizzi una comunità socialista, cosmopolita e creativa» e nelle modificazioni del comportamento e dei condizionamenti psicologici.

Vanno infine ricordate le utopie di Hermann Hesse22 e di Ernst Jünger23. Il primo, costruisce un sogno platonico, un mondo potenziale conscio della propria relatività:

la “Castalia” è una sorta di provincia pedagogica qualificata dalla presenza di una comunità dedita al “gioco delle perle di vetro”. Si tratta – scrive Verra – di un esercizio simile al gioco degli scacchi, dove però i pezzi sono i valori e i contenuti della nostra civiltà: le conoscenze, i pensieri elettivi e le opere d’arte che l’umanità ha prodotto nei suoi periodi creativi, tutto ciò che le successive epoche di studi hanno ridotto a concetti e possesso intellettuale [...]. Un’utopia che a un certo punto, per bocca dello stesso “Maestro del gioco”, giunge a dubitare della propria legittimità di fronte alla storia, a sentirsi minacciata dal rapido divenire di un mondo in declino, ma che riafferma la propria funzione e il proprio rifiuto dell’impegno politico: meglio sacrificare la propria persona che non la fedeltà allo spirito.

Il secondo, servendosi anche di ambientazioni tipicamente utopiche, ma con riferimenti e analogie alla situazione europea e tedesca del tempo, riversa la componente utopica «nel culto della grandezza etico-culturale contrapposta all’usura e alla vacuità di tutti i costumi e di tutte le ideologie. Protagoniste non sono qui né le masse né le classi sociali, quanto piuttosto, da una parte organismi militari, paramilitari o tecnologici così perfetti che si fanno dell’efficienza un culto e diventano, al limite, degli automatismi o, addirittura, tendono a sostituire la vita con dei robot (le “api di vetro”), dall’altra delle aristocrazie culturali ancora capaci di vita contemplativa».

Ora possiamo soffermarci sulle distopie, perché è in quella forma che si manifesta una cospicua mole di tematiche apocalittiche sia nell’Otto che nel Novecento.

Si è notato che già in parte nei Viaggi di Gulliver c’è un paese lontano dove le cose vanno male, peggio che nella realtà in cui opera Swift. A fianco dell’utopia, insomma, c’è la distopia, la quale, spiega Verra, indica «tutte quelle opere che in qualche modo appaiono di carattere analogo, ma di segno opposto alle utopie tradizionali, poiché descrivono come negativa la loro realizzazione».

Verra cita come esempi di distopia ottocentesca Erewhon di Samuel Butler del 1872 e L’isola del dottor Moreau (The island of Dr. Moreau) scritto da Herbert George Wells nel 1896, per precisare che il genere letterario si afferma più che altro nel Novecento: Noi (My), scritto fra il 1920 e il 1923 da Evghenij Ivànovic Zamjatin, La fattoria degli animali (Animal farm), ma più ancora 1984 di George Orwell (pseudonimo di E.A. Blair), rispettivamente del 1945 e del 1949, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury del 1953, Uomini come dèi (Men like Gods) di Herbert George Wells del 1923. E ancora Il congresso di futurologia (Kongres Futurologiczny) di Stanislaw Lem del 1971, R.U.R. Rossum’s Universal Robots di Karel Capek del 1921, I racconti (Collected short stories) di E.M. Forster del 1947.

Servendosi della tecnica narrativa tipica delle costruzioni utopiche – ovvero sia di memorie, racconti, resoconti dal futuro, situazioni immaginarie – e presentando caratteri analoghi a quelli delle costruzioni utopiche – una descrizione precisa e dettagliata di ciò che avviene in quel luogo fantastico per mostrarne l’ordinamento alternativo ai sistemi esistenti nella realtà – la distopia mira a mostrare «come il perfezionismo, la preoccupazione di realizzare l’ottimale, abbia comportato la soppressione di quello che veramente interessa e costituisce l’uomo».

Come tutta la letteratura utopistica, alcune di queste opere descrivono «una realtà sociale isolata [...] dove tutto è perfettamente regolato in modo da costringere gli uomini a essere felici».

Una delle utopie negative più importanti del primo Novecento è Il nuovo mondo (Brave new world) di Aldous Huxley pubblicato nel 1932 che si apre con queste parole di Nikolaj Berdjaev, un autore che presto ritroveremo:

Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? [...] Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d’evitare le utopie e di ritornare a una società meno utopistica, meno “perfetta” e più libera24.

Spesso nella letteratura controutopistica è «l’amore a costituire l’elemento dirompente che mette in crisi la conformità al sistema».

Vi è inoltre «l’accentuazione della funzione antiutopica della cultura, considerata come uno strumento anticonformistico e liberatorio rispetto alla chiusura del sistema compiuto, perfetto e totale».

Tant’è che in molte controutopie è il libro il bersaglio della repressione utopica. E ancora: molti temi tipici della controutopia emergono e si affermano «all’interno stesso delle costruzioni utopiche o, se si preferisce, come molte tematiche utopiche, portate all’estremo, si [rovesciano] in prospettive minacciose e contrastanti con la speranza utopica stessa».

Ci sono poi una serie di opere che «tradiscono in forma utopica e fantascientifica la preoccupazione profonda per i possibili esiti negativi delle modifiche delle caratteristiche biologiche e genetiche della specie, su cui pure tanta utopia fa affidamento».

È ovviamente un attacco alla scienza, alle sue conquiste più azzardate, alle sue frontiere più estreme. E, trattandosi di un attacco alla scienza, non può che essere anche un attacco alle applicazioni della scienza, prima fra tutte la tecnica e la sua realizzazione concreta: la macchina. Tema caratteristico della controutopia, scrive Verra, «è quello del rapporto tra l’uomo e la macchina, visto però nella versione opposta a quella trionfalistica per cui la macchina rappresenta un semplice prolungamento delle capacità dell’uomo di dominare la natura. Al contrario, si tratta di una prospettiva più cauta o perfino negativa».

Al proposito Verra cita il capitolo Il libro delle macchine di Erewhon, dove Butler descrive «il potenziale rovesciamento del rapporto tra uomo e macchina, per cui sarà la macchina a ridurre l’uomo a proprio schiavo e a strumento del proprio sviluppo, provocandone per giunta un irrimediabile indebolimento».

Analizzando il libro di Zamjatin, Verra nota:

…il vero problema è se sia mai possibile pensare a una rivoluzione che sia veramente l’”ultima”, che realizzi un equilibrio sociale perfetto, o se, al contrario, l’”entropia psicologica”, l’acquiescenza così raggiunta e propugnata non siano invece qualcosa di terribilmente dannoso e paralizzante.

Nel caso di Zamjatin, scrive Verra, l’obiettivo è un regime politico totalitario, in quello di Huxley «lo sviluppo inesorabile della civiltà industriale e delle sue esigenze organizzative».

Genetica, ipnopedia (una psicologia persuasiva trasmessa durante il sonno), droga (il soma) sono gli strumenti con cui è stata costruita una comunità perfettamente regolata e felice. Nella Fattoria degli animali, Orwell attacca invece il totalitarismo – di stampo sovietico – «mostrando come la rivoluzione compiuta in nome dell’uguaglianza possa trasformarsi in una nuova e feroce tirannide» e si spinge più avanti, con 1984, descrivendo i metodi usati da un sistema totalitario: la mistificazione propagandistica, la strumentalizzazione del linguaggio.

Nelle controutopie Verra non vede solo un elemento di apocalittico abbandono. Scrive che non rappresentano soltanto «una reazione di sconforto al cadere di illusioni progressiste o di sconcerto di fronte ai paurosi aspetti del totalitarismo, ma una dimensione critica interna al pensiero utopico, un ammonimento a non perdere mai il doveroso distacco rispetto agli strumenti politici o tecnologici elaborati per realizzare il progetto alternativo ottimale e a non lasciarsi travolgere dalle loro potenzialità non sempre incondizionatamente positive».

Il quadro dei temi adottati dalla letteratura utopica o distopica è ora completo, ma merita spendere qualche parola su quella saggistica che si è misurata con la critica o l’elogio della costruzione utopica.

Karl Mannheim, per esempio, in Ideologia e utopia25 pubblicato nel 1929, contrappone l’ideologia espressa dai gruppi dominanti fino a nascondere lo stato reale della società per conservarla com’è, all’utopia espressa dai gruppi subordinati per trasformarla.

L’accento sulle “possibilità” contenute nell’utopia lo mette anche Ernst Bloch, in varie opere che coprono tutto l’arco del suo pensiero26. Egli ritiene che utopia e speranza siano condizioni della scienza perché consentono alla coscienza di cogliere il Vor-Schein (il pre-apparire, il pre-lucere, ma anche il significato) di una realtà. Non ci sarebbe scienza se non ci fosse il carattere “anticipatore” dell’uomo27. L’utopia non è una delle tante possibilità del pensiero umano, ma la sua dimensione caratteristica, che consente il collegamento tra futuro e passato.

Il carattere rivoluzionario dell’utopia viene sottolineato anche da Walter Benjamin28, per il quale l’utopia è un concetto che appartiene alla «polemica complessiva contro le concezioni storicistiche del tempo [...] la storia non deve essere una serie di eventi che scorre in modo continuo e omogeneo, ma un processo interrotto da “catastrofi”, punteggiato da attimi dirompenti».

L’associazione dell’utopia alla catastrofe è riscontrabile anche in Theodor W. Adorno29, per il quale l’utopia ha essenzialmente una funzione di critica storica e sociale. L’arte, per Adorno, ha sempre un’intenzionalità utopica che – scrive Verra – in quanto «”contromovimento” rispetto alla società esistente non può mai pretendere o illudersi di tradursi in un’immagine positiva e descrittiva della società a venire. Al contrario, la nuova arte riesce a esprimere l’inesprimibile solo attraverso la sua assoluta negatività, solo attraverso l’immagine dello sfacelo, della rovina. A formare tale immagine concorrono tutte le stimmate del repellente e dell’orrido. Ma è soltanto così [...] che l’arte può [...] essere coscienza critica di un’epoca dove la possibilità dell’utopia (che la terra [...] sia già adesso, qui, immediatamente, un paradiso) si unisce con la possibilità della catastrofe totale».

Ernst Cassirer – partendo dal carattere intrinsecamente “simbolico” dell’intelletto umano, dal fatto cioè che la conoscenza ha necessità di valersi di simboli e di distinguere tra cose reali e possibili – giunge ad attribuire all’utopia corrispondenza con il pensiero etico, il quale non può mai accondiscendere ad accettare semplicemente il dato. «La grande missione dell’Utopia – scrive Cassirer – è di dar adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescienza all’attuale stato di cose. È il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell’uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare il suo universo»30.

Se per Cassirer l’utopia ha una direzione riformatrice, per Karl Popper31 essa invece è inevitabilmente condannata a tradursi in esasperazioni totalitarie, a sacrificare incessantemente il presente al futuro, a porsi fini assoluti ai quali subordinare ogni azione ricorrendo alla violenza. Per Popper, scrive Verra, «l’utopia per il suo carattere di progetto statico e totale genera al tempo stesso frustrazione e violenza e ha quindi un esito totalitario».

Abbiamo accennato al rapporto che l’utopia ha con il pensiero mitico e religioso, con le età dell’oro, i periodi della felicità e dell’innocenza, le Gerusalemme celesti. A differenza del mito,

l’utopia non prospetta un ritorno a uno stato originario, cronologicamente o psicologicamente anteriore a quello storico, quanto piuttosto descrive o progetta un mondo storico alternativo rispetto a quello esistente. Anche se spesso l’utopia esalta una maggiore semplicità di vita e di costumi e un atteggiamento non di dominio, ma di conciliazione con la natura, questo stato di felicità non appare come originario o gratuito, ma come frutto di un sapiente ordinamento che l’uomo ha saputo darsi e mantenere, a differenza di quanto è avvenuto nella realtà storica a noi conosciuta.

Queste considerazioni di Verra ci riportano ai nessi tra utopia ed escatologia, e quindi alla relazione della prima con l’idea di fine del mondo.

Per Verra è indispensabile cogliere la differenza tra l’una e l’altra: l’escatologia ipotizza un’iniziativa divina, l’utopia invece l’affida alla volontà dell’uomo, al punto tale che può essere definita con Martin Buber «l’immagine ottimale della società in cui non operano altri fattori all’infuori della volontà umana»32.

Di più: è proprio con l’attenuarsi delle speranze escatologiche che storicamente sono fiorite le utopie, mentre solo dopo la Rivoluzione francese «molta utopia politica ha ereditato e incarnato, secolarizzandola, la carica escatologica del cristianesimo».

Nel trattare similitudini e divergenze fra utopia ed escatologia, Verra ricorda Critique and justification of utopia di Paul Tillich, il quale sostiene che l’esasperazione delle differenze fra l’una e l’altra finisce per snaturarle entrambe. Già da queste righe di Verra è possibile comprendere perché dalla delusione per gli insuccessi delle utopie nel XX secolo siano sorte tanti presagi catastrofici:

L’utopia infatti è indispensabile per intendere tanto il principio quanto il fine della storia, poiché esprime l’essenza e il telos dell’uomo e ne anticipa le possibilità non ancora realizzate, come dimostrano le grandi utopie, da quella ebraica a quella marxista. Tuttavia il rischio dell’utopia è quello di chiudersi in se stessa dimenticando e negando la finitezza dell’uomo, quegli aspetti cioè per cui l’uomo è estraniato a se stesso; questa è l’”impotenza” dell’utopia che dà poi luogo a forme di estrema delusione per l’impossibilità di realizzarla o, peggio, a forme di terrorismo come pretesa di realizzarla a ogni costo. L’utopia deve essere quindi corretta e integrata costantemente da un momento di trascendenza, deve avere una dimensione verticale, oltre che orizzontale, e questo a vantaggio non solo dell’utopia, ma della stessa trascendenza, che altrimenti si risolve in un misticismo conservatore e indifferente rispetto alla storia. Queste, per Tillich, [... sono] la dolorosa testimonianza del dramma politico dell’Europa del nostro secolo o, quanto meno, dei suoi primi decenni; la caduta della fiducia ottocentesca nel progresso lineare e illimitato ha portato molte coscienze religiose a chiudersi in se stesse rifiutando ogni intervento nella vita politica e sociale come compromettente la purezza del messaggio e, viceversa, ha portato grandi movimenti rivoluzionari a respingere in modo totalitario e terroristico ogni dimensione trascendente e religiosa, considerandola come un potenziale indebolimento del processo rivoluzionario stesso.

All’inizio di questo volume abbiamo associato, perché prima l’ha fatto la storia, l’idea di fine del mondo – l’apocalisse intesa in questo senso – all’idea di Millennio e quindi ora possiamo procedere a congiungere questo e il millenarismo all’utopia e all’utopismo.

Il discrimine tra il primo e il secondo, scrive Placanica «è sottile, ma esiste […]: ogni Millennio è un’utopia, convinzione che la Fine sta per giungere e che essa ci porterà un mondo nuovo mai visto (ù topos, nessun luogo); così come ogni utopia è Millennio, giacché la società geometricamente immaginata non potrà aversi che in un futuro ordinato dal Destino»33.

Ma qui cominciano le differenze.

… i sostenitori dell’utopia sono ben convinti della dimensione “utopica” e puramente ideale della “città” immaginaria costruita da loro […]; mentre i movimenti millenaristici sono convintissimi assertori dell’avvento vicino dell’éschaton […] e con fiducia, ne indicano i segni premonitori. E, ancora, il campo di riflessione e di operatività dell’utopista raramente va al di là del singolo pensatore, di qualche seguace e di pochissimi sodali; laddove il millenarista trascina folle […]. Al di là della fede, l’utopismo ha bisogno di pensiero […]; il millenarismo ha bisogno di azione, e di una fede che si lasci dietro il pensiero. […] l’utopia […] non ha avuto bisogno di religioni organizzate in sistema [… il millenarismo], invece, ha avuto essenziale bisogno di un radicamento nella tradizione religiosa […].

L’utopia aveva bisogno «di libro e di lucerna», il Millennio «della parola, della testimonianza visibile della fede vivente, magari del sacrificio […] l’utopista non profetava […] e a profetare, invece, era l’apostolo del millenarismo […] gli utopisti o sono stati più innocui […] oppure hanno seminato un dissenso che solo lentamente si è evoluto […] quale soluzione alternativa al mondo imperante; laddove la lotta del potere contro Millennio e millenaristi è stata immediata e quasi sempre dura […] fermo restando che in entrambe le tensioni il fine da realizzare era la felicità vera di uomini veri, l’utopia era […] un “ordine” da costruirsi, al posto del “caos” [… al] popolarismo millenaristico […] premeva la distruzione dell’edificio politico presente».

Il primo – nota infine Placanica – era immerso nella pars costruens, il secondo nella pars destruens. «… l’utopismo ha potuto fare a meno della catastrofe […] al contrario i grandi eventi collettivi […] sono stati per la mitografia millenaristica lo spunto e il segno di un imminente tracollo della società e della storia».

Nell’utopia c’è la solida costruzione della città reale, se pure immaginata; nell’ipotesi millenaristica c’è la prefigurazione di qualcosa di bello e santo, ma assolutamente vago

A noi preme tuttavia sottolineare che la fine del mondo è un «non-luogo». O meglio… è un topos, ovviamente, e di questo ci stiamo occupando. Se consistesse nell’estinzione del genere umano ma non nella distruzione del pianeta che lo ospita, anche in tal caso resterebbe un “qui”, uno spazio, un luogo. Non lo è in quanto non è “ora”, nel tempo, ma solo prevista o immaginata. Perciò è utopia. Non di meno, o non per ciò, non merita attenzione. Pur avendo la consapevolezza della sua natura completamente immaginaria.

1 VALERIO VERRA, Utopia, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Treccani, 1983, da cui, salvo diversa indicazione sono tratte le citazioni di questo capitolo.
2 Due sono le opere di FRIEDRICH ENGELS che contengono tale critica: l’Anti Dühring del 1878 (rivisto nel 1886 e 1894), tr. it. Anti Dühring di G. De Caria, Roma, Editori Riuniti, 1950, ora in KARL MARX – FRIEDRICH ENGELS, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1974, vol. xxv, a c. di F. Codino e Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft, Zurich, 1883, tr. it L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza del 1883, a c. di Giuseppe Prestipino, Roma, Editori Riuniti, 1971.
3 LOUIS S. MERCIER, L’an 2440. Rêve s’il en fut jamais, 1771.
4 HERBERT GEORGES WELLS, The time machine, 1895, tr. it. La macchina del tempo di Piccy Carabelli, in La macchina del tempo e altre avventure di fantascienza, a c. di Fernando Ferrara, Milano, Mursia, 1966-1980.
5 HERBERT GEORGES WELLS, Men like Gods, 1923, tr. it. Uomini come dèi, Milano, Mursia, 2005.
6 Tra l’infinita varietà di utopie e fantascienze costruite sui viaggi nel tempo e sulla coincidenza di epoche diverse, Verra ricorda URSULA K. LE GUIN, The dispossessed. An ambiguous utopia, New York, 1974, tr. it. I reietti dell’altro pianeta di R. Valla, Milano, Nord, 2007, nel quale uno scienziato mette a punto la “cronosofia”, la scienza del nesso funzionale tra tempo e ragione, conciliando l’aspetto lineare e ciclico del tempo, superando il contrasto tra la comunità opulenta e capitalistica fiorita su un pianeta e quella austera e comunistica fiorita su un altro, e fondando infine una nuova etica capace di realizzare le potenzialità dell’uomo.
7 W. OLAF STAPLEDON, Last and first men, 1930 tr. it. Infinito di A. Ghirardelli, Milano, Mondadori, 1990 e The star maker, 1937, tr. it. Il costruttore di stelle, di Paola Campioli, Milano, Longanesi, 1975.
8 GEORGE BERNARD SHAW, Back to Methuselah, 1921, tr. it. Torniamo a Matusalemme, di Castelli e Diambra, Milano, Mondadori, 1925.
9 FRANK E. MANUEL (a c. di), Utopias and utopian thought, Boston, 1966.
10 G. S. HALL, The fall of Atlantis, 1920; H. MÜNSTERBERG, Tomorrow: letters to a friend in Germany, 1916; W. MC DOUGALL, The island of Eugenia, 1921; J. B. WATSON, The behaviorist’s utopia, 1929. Si veda al riguardo J. G. MORAWSKI, Assessing psycology’s moral heritage through our neglected utopias, in «American psychologist», 1982, XXXVII, 10, pp. 1082-1095.
11 BURRHUS FREDERICK SKINNER , Walden two, New York, 1948, tr. it. Walden due: utopia per una nuova società di E. Mainardi Peron, Firenze, La Nuova Italia, 1975.
12 R. TROUSSON, Voyage aux Pays de Nulle Part, Bruxelles, 19792; NORTHROP FRYE, Anatomy of criticism, Princeton, 1957, tr. it. Anatomia della critica di Paola Rosa-Clot e Sandro Stratta, Torino, Einaudi, 1969; R. C. ELLIOTT, The shape of utopia. Studies in a literary genre, Chicago, 1970 e Die Gestalt Utopias, in R. VILLGRADTER e FR. KREY (a c. di), Der Utopische Roman, Darmstadt, 1973; B. VICKERS, Die satirische Struktur von Swifts “Gullivers Reisen” und Mores “Utopia”, in R. VILLGRADTER e FR. KREY (a c. di), Der Utopische Roman, cit.; M. SCHWONKE, Vom Staatroman zur Science Fiction, 1957; M. SCHAEFER, Science fiction als Ideologiekritik? Utopische Spuren in der amerikanischen Science Fiction Literatur 1940-1955, Stuttgart, 1957; JEAN BAUDRILLARD, Simulacres et science-fiction, 1978, tr. it. Simulacri e fantascienza, in L. RUSSO (a c. di), La fantascienza e la critica, Milano, Feltrinelli, 1980; D. SUVIN, Poetik der Science Fiction, 1979.
Trousson definisce utopica un’opera letteraria quando un racconto descrive una comunità socialmente organizzata sia come ideale da realizzare o come previsione di un inferno, escludendo perciò i trattati politici, le robinsonate (nelle quali non c’è comunità), i racconti dell’età dell’oro o dell’arcadia. Frye, Elliott e Vickers sottolineano invece la specifica funzione critica del genere utopico rispetto all’esistente, avvicinandolo anche alla satira. Schwonke sostiene che la fantascienza è l’approdo a cui l’utopia giunge dal romanzo politico modificando l’ambientazione dallo spazio (l’isola) al tempo. Schaefer obietta invece che la fantascienza ha implicazioni ideologiche e pertanto non può essere intesa come caduta dell’utopia. Per Baudrillard l’iperrealtà attuale vanifica tanto l’utopia quanto la fantascienza. Per Suvin infine la fantascienza ha inghiottito l’utopia.
13 ROBERT MUSIL, Der Mann ohne Eigenschaften, Hamburg, 1952, tr. it. L’uomo senza qualità di Anita Rho, Torino, Einaudi, 1962. Si veda anche H. WIEGMANN, Utopie als Kategorie der Aesthetik, Stuttgart, 1980.
14 ALEXANDR V. CAJANOV, Patesestvie moego brata Alekseja v stranu krest’janskoj utopii, Moskva, 1920, tr. it. Viaggio di mio fratello Aleksej nel paese dell’utopia contadina di M. Boffito e V. Dridso, Torino, Einaudi, 1979.
15 THEODOR H. HERZL, Alteneuland, 1902.
16 MARTIN BUBER, Pfade in Utopia, Heidelberg, 1950, tr. it. Sentieri in utopia di Donatella Di Cesare, Milano, Marietti, 2009.
17 NICOLAJ CERNISCEVSKIJ, tr. it. Che fare?, 1863, pubblicato nel 1905, di F. Verdinois, Milano, Garzanti, 2004.
18 RENÉ DUMONT, L’Utopie ou la mort, Paris, 1973, tr. it. L’utopia o la morte, Bari, Laterza, 1974.
19 ERNEST CALLENBACH, Ecotopia. The novel of your future, Berkeley, 1975, tr. it. Ecotopia. Il romanzo del nostro futuro, Milano, Mazzotta, 1979.
20 ANATOLE FRANCE, Sur la pierre blanche, Paris, 1905, tr. it. Sopra la pietra bianca di Gustavo A. Marolla, Milano, Barion, 1925, e L’île des pingouins, Paris, 1908, tr. it. L’isola dei pinguini di Massimo Caputo, Milano, Sonzogno, 1922.
21 JACK LONDON, The iron heel, New York, 1907, tr. it. Il tallone di ferro di Aldo Palumbo, Roma, Editori Riuniti, 1961.
22 HERMANN HESSE, Das Glasperlenspiel, Zürich, 1943, tr. it. Il giuoco delle perle di vetro di Ervino Pocar, Milano, Adelphi, 1955.
23 ERNST JÜNGER, Auf den Marmorklippen, Hamburg, 1939, tr. it. Sulle scogliere di marmo di A. Pellegrini, Milano, Guanda, 2002; Heliopolis, Tübingen, 1949, tr. it. Heliopolis di M. Guarducci, Milano, Guanda, 2006; Gläserne Bienen, Stuttgart, 1977, tr. it. Le api di vetro di H. Furst, Milano, Guanda 1993; Eumeswil, Stuttgart, 1977, tr. it. Eumeswil di M. T. Mandalari, Milano, Guanda, 2001.
24 ALDOUS HUXLEY, Brave New World, New York, Doran & Co., 1932, tr. it. Il mondo nuovo di L. Gigli e L. Bianciardi, in ALDOUS HUXLEY, Il mondo nuovo – Ritorno al mondo nuovo, Milano Mondadori, 1984.
25 KARL MANNHEIM, Ideologie und Utopie, Bonn, 1929, tr. it. Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 1957.
26 ERNST BLOCH, Geist der Utopie, München, 1918, poi n.e. Berlin, 1923, tr. it. Spirito dell’utopia di V. Bertolino e F. Coppellotti. Firenze, Sansoni, 1980; Das Prinzip Hoffnung, 1938-1947, poi n.e. Frankfurth am Main, 1959, 2 voll.; Aesthetik des Vor-Scheins, Frankfurth am Main, 1974, 2 voll.; Abschied von der Utopie?, Frankfurth am Main, 1980.
27 Sulla scorta di queste riflessioni Bloch «rivolge una critica piuttosto aspra alla psicanalisi e alla psicologia del profondo e al loro privilegiamento del sogno notturno rispetto a quello diurno». VALERIO VERRA, Utopia, cit..
28 WALTER BENJAMIN, Paris die Hauptstadt des XIX Jahrhunderts, e Geschichtsphilosophische, in Illuminationen, Frankfurt am Main, 1955, tr. it. Angelus Novus. Saggi e frammenti, a c. di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1982.
29 THEODOR WIESENGRUND ADORNO, Aesthetische Theorie, Frankfurt am Main, 1970, tr. it. Teoria estetica, a c. di F. Desideri e G. Matteucci, Torino, Einaudi, 1978 e il colloquio telefonico Etwas fehlt… Über die Widersprüche der utopischen Sehnsucht, in R. TRAUB e H. WIESER, Gespräche mit E. Bloch, Frankfurt am Main, 1978.
30 ERNST CASSIRER, Essay on man, New Haven, 1944, tr. it. Saggio sull’uomo, Roma, Armando editore, 2004.
31 KARL POPPER, Utopia and violence, 1947, in Conjectures and refutations, London, 1963, tr. it. Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972.
32 MARTIN BUBER, Pfade in Utopia, Heidelberg, 1950, tr. it. Sentieri in Utopia, Milano, edizioni Comunità, 1967.
33 AUGUSTO PLACANICA, Millennio, cit., da cui sono tratte anche le successive citazioni.

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