Se un giorno avessi incontrato Calvino
Qualche giorno fa, il 19 settembre, era il trentunesimo anniversario della morte di Italo Calvino e Maddalena Dalla Torre – che premurosamente e con costanza mi inonda di suggestioni e stimoli all’ascolto, alla lettura e alla visione – mi ha mandato il link a un’intervista pubblicata su Rai News l’anno prima, in occasione del trentennale.
Un’intervista fatta nel 1979 quando uscì Se una notte d’inverno un viaggiatore, un romanzo splendido ma se da un lato facile o, per così dire ammiccante, o addirittura furbesco, dall’altro complesso, azzeccatissimo, verrebbe da dire perfetto. Lo rileggerei volentieri per coglierne tutte le sfumature che ci sono in quella scatola cinese.
Romanzo del quale ho il ricordo che ci furono vere e proprie polemiche su di esso nella stampa alla sua uscita. Sì, insomma fece discutere, e il riverbero di quella discussione arrivò nella colta famiglia della mia ex moglie che anche quell’estate mi aveva invitato un po’ di tempo nella casa presa in affitto a Chiave, una bellissima e appartata frazione di Cortina.
Ma il “memento” sulla morte di Calvino mi ha fatto venire in mente immediatamente altre due cose e qualche riflessione intorno ad esse. Non so se quello stesso anno, il 1979 o giù di lì, andai a trovare mia madre che insieme a Gioia Ciotti Jorio stava passando le vacanze alle Rocchette, un angolo di Castiglione della Pescaia, proprio dove Italo Calvino aveva il suo “buen retiro” e proprio dove, a soli 62 anni, nel 1985 appunto, gli venne l’ictus e iniziò l’agonia di tredici giorni che lo portò alla morte.
Per l’ennesima volta mia madre mi propose di andare a trovarlo, di farmelo conoscere. Mia madre, nel bene e nel male, è una donna pratica. Intendo dire che nella sua vita ha badato alla sostanza delle cose, ha fatto e instillato nei suoi figli una sorta di calvinista mania al fare, al non star con le mani in mano, a – come dice lei – «non grattarsi i ciglin» (credo si scriva così in piemontese e i “ciglin” credo siano le grandi labbra della vagina).
Quel suo “fare” lei lo sintetizza nell’aver allevato da sola due figli, essendo stata lasciata, più o meno quarantenne, da mio padre, dicendo il vero o una parte di esso; nell’aver partecipato poco più che bambina – in un misto di incoscienza, gioco e convinzione – alla Resistenza, portando armi e cibo ai partigiani che suo fratello guidava in Val di Lanzo, superando i posti di blocco fascisti o tedeschi col regalo di qualche sorriso, l’aria ingenua di chi sta solo andando a fare una scampagnata in bicicletta, qualche centimetro di gonna sollevata, più che altro da sua sorella più grande, ma non più sopra delle ginocchia, per distrarre maschi a cui basta niente per sognare anche se indossano una divisa che incute paura e fa pensare da sola alla morte; nell’aver preso il titolo di scuola media inferiore allattando me – di qui si dice un po’ di sapere innato –, quando già lavorava, dopo che a “l’Unità”, a un carrozzone parastatale esecrabile per la sua pachidermica burocrazia e per lo svogliato e pigreggiante comportamento dei suoi impiegati, ma all’inizio pionieristico, coraggioso, quasi temerario desiderio di garantire un futuro ai lavoratori, tutelarne la vecchiaia, insomma esperimento concreto di socialismo in terra o di applicazione del welfare state: l’Inps, l’Istituto nazionale di – virgoletto – “previdenza” sociale, sfasciato inventando, se non ricordo male negli anni Settanta, la cassa integrazione con cui i governi democristiani e una comprensibile ingenuità dei sindacati hanno permesso all’industria italiana, Fiat in primis, di scaricare sullo Stato e i denari di tutti i diminuiti introiti provocati dalla crisi del petrolio, dall’insipienza imprenditoriale e da truffaldine primordiali speculazioni azionarie, lasciando inalterati i profitti e distogliendo dal meccanismo che avrebbe dovuto garantire i risparmi accantonati per l’alternarsi delle generazioni sul posto di lavoro, le risorse indispensabili per la tutela dei lavoratori in esubero, per i quali si sarebbe dovuto invece istituire un apposito fondo, prelevando sì da chi rimaneva in organico con un contratto in mano, ma soprattutto dagli utili con cui si continuava invece a comprare ville e yacht. E sintetizza quel suo fare mia madre, soprattutto nell’essersi nel tempo “costruita” (sta per “comprata”) tre case, malgrado uno stipendio non da favola, niente alimenti dall’ex coniuge, avendo comunque garantito gli studi ai suoi due figli, che non hanno tuttavia tardato a rendersi indipendenti.
Ma quel suo essere una donna pratica consisteva anche, per così dire, nel “cogliere l’attimo” o “approfittar della situazione” o “sfruttare l’occasione”, e insomma il suo invito a farmi incontrare Italo Calvino – che lei aveva conosciuto a “l’Unità” come mio padre, il quale poi lo ha frequentato anche dopo, lavorando da Einaudi, tant’è che possiedo, e ne porto testimonianza, come avevo già fatto nel post Dediche nelle illustrazioni a questo scritto, tre libri suoi dedicati uno, I racconti del 1958 appunto a mia madre, Il barone rampante del 1957 a lei e a mio padre e l’ultimo, Fiabe italiane del 1956, a me e a mio fratello Davide – sottintendeva l’ipotesi o l’auspicio che ne potessi trarre un beneficio pratico, non l’arricchimento personale o intellettuale, ma una eventuale raccomandazione, il viatico.
L’ostinazione recalcitrante del mio rifiuto – pari a quella opposta dinanzi alla possibilità di entrare in contatto con uno dei pilastri di “Repubblica”, il caporedattore centrale Gianni Rocca, anch’egli piemontese e “praticante” nella fucina de “l’Unità” di Torino, per far prendere un altro corso alla mia avviata carriera giornalistica nel quotidiano del Pci, ed implicitamente scindere nel marchio a fuoco che ancor ora porto sulla pelle le parole giornalista e comunista – motivata dal fatto che mai e poi mai mi sarei piegato a fare qualcosa in virtù di un avvantaggiamento, di una spinta, di una agevolazione, ma solo per merito, per riconoscimento, per convinzione, fu tale che non misi piede in quel giardino dove si svolge l’intervista a Calvino su Se una notte d’inverno un viaggiatore, a un passo da un’altra splendida abitazione, se non ricordo male quasi tutta in vetro dove stava trascorrendo le vacanze la sorella dell’attrice Olimpia Carlisi, Cristina, con cui già invece ero in confidenza, che invece accettai di andare a trovare.
Come un mulo inchiodato sul sentiero di montagna, deciso a non procedere neanche sotto i colpi del nerbo di bue, o più esattamente forse come un lupo inferocito che mostra i denti e ringhia furioso, al pari del rifiuto opposto a mia madre di andare a conoscere Italo Calvino e di fare una telefonata a Gianni Rocca, mi ribellai a quella compagna della Fgci un po’ più grande di me con un incarico nazionale sulle spalle che, sapendo della mia passione per il mestiere che poi sono riuscito a fare, mi chiese se volessi che spendesse una parola a mio favore per farmi entrare non ricordo più se a “l’Unità” o a “Rinascita”. Fui quasi maleducato nel declinare l’invito, e più che altro ricordo lo stupore, l’amarezza e la delusione dinanzi al fatto che si fosse potuto anche solo ipotizzare un tale scivolo, la scorciatoia.
Ero rimasto marchiato da quell’insegnante omosessuale di musica, amico di mio padre, che, incurante del mio forse ancora troppo timido rigetto, al primo anno di ginnasio, si sentì, suppongo interessatamente, in diritto di andare in prossimità degli scrutini dalla mia professoressa d’italiano, greco e latino a perorare la mia causa, chiedendo indulgenza per una svogliatezza e un’indolenza inequivocabilmente manifestate nel corso di tutto l’anno scolastico, le quali credo avessero a che fare con il disorientamento possibile in un adolescente che ancora compulsivamente disegnava automobili e motociclette, volendo da grande eguagliare Pininfarina ma ancor più Bertone; guardava inquieto le prime ragazze; faceva gli ultimi vani tentativi di aver un fisico scultoreo che gli consentisse, come ad altri suoi coetanei, di combattere e vincere in una partita di pallanuoto o a un doppio di tennis o scendendo elegante su una pista di sci.
Ma tutto questo per chiedermi cosa sarebbe successo se avessi invece accettato di entrare nel giardino delle Rocchette dove Italo Calvino leggeva, scriveva, scriveva e leggeva e preparava le ultime splendide cose che ci ha lasciato prima di andarsene, credo poco dopo aver messo a punto le Lezioni americane, davvero “sei semplici proposte per il prossimo millennio”, quel 19 settembre del 1985.
Giorno in cui, stando al mio diario nulla compare in quella data, mentre dall’archivio dei miei articoli vengono fuori, ovviamente il giorno dopo, quando i giornali riportarono notizia della sua morte, tre insignificanti pezzi intitolati “Pitti Filati” punta alla qualità, Colpisce ancora il maniaco piromane: è la 47° auto e I Comuni aiuteranno la magistratura.
Anche il giorno dopo l’ictus che colpì il padre di Marcovaldo, del Visconte dimezzato e del Barone rampante – quanto ho sognato ed appreso da quest’ultimo! – il 7 settembre cioè, nelle pagine di cronaca toscana dell’”Unità” compaiono i primi tre articoli della mia antesignana inchiesta sugli immigrati a Firenze che, a partire dal 19 febbraio scorso, con un post intitolato Flussi, rivoli, vita, ho qui riproposto. Pagine ancora bianche nel mio diario.
L’articolo in prima pagina su “l’Unità” lo firma invece il mio collega di redazione Antonio D’Orrico, a cui erano affidate allora le pagine degli spettacoli toscani, e fu lui – finito poi nel quarto volume dei Meridiani Mondadori dedicati al giornalismo italiano per un pezzo su Va dove ti porta il cuore della Tamaro – a seguire l’intera vicenda fino al decesso di Calvino, quando uscirono anche un pezzo dell’ineguagliabile Wladimiro Settimelli e uno scritto di Jorge Luis Borges, proprio nel giorno in cui un terremoto sconvolse il Messico.
Ecco, sì, quest’“attimo non colto”, questo “non esserci stato” nel momento in cui si sarebbe dovuti essere vicini al grande narratore italiano, e magari, laicamente, pregare perché ce la facesse, perché potesse ancora scrivere per noi come scriveva, un po’ di amaro me lo lasciano in bocca. I giornalisti sono fatti così, ci tengono ad essere al momento giusto nel posto giusto, anche se siamo dinanzi ad una tragedia. Sarà una debolezza, ma è così.
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