«Io, la regina delle api»

Questo l’articolo che avevo riscritto per il settimanale “Confidenze”, con il quale ho brevemente collaborato alcuni anni fa quando a dirigerlo c’era Patrizia Avoledo, dopo che Lei, la regine delle api mi è stato giustamente bocciato chiedendomi di riscriverlo come sono scritte le altre storie pubblicate da quel periodico: in prima persona. Ma anche questo non è stato pubblicato: perché, dice, hanno già abbastanza collaboratori.

Elisabetta Francescato

L’unica donna in Europa che caccia vespe per salvare vite umane

Storia di Elisabetta Francescato raccolta da Daniele Pugliese

Avevo paura di tutto. Mia madre raccontava che a pochi mesi, appena iniziavo a sgattaiolare, quando mi portavano sulla sabbia, così instabile e mobile, mi mettevo a piangere come un ossesso e non smettevo più finché non mi riprendevano in braccio e mi facevano tornare su una superficie solida e ferma.

Ma anche lì continuavano le mie paure. Mio fratello, un po’ più grande, saltabeccava come un folletto, incurante dei graffi e dei bernoccoli che le sue gioiose scorribande inevitabilmente gli procuravano, mentre io, intimorita e diffidente, non ne volevo sapere. Appena ho iniziato a reggermi sulle gambe e a muovere i primi passi, giravo con un cuscino stretto tra le braccia, per proteggermi se fossi caduta. Vattelapesca perché, ero così.

Sono nata a Livorno e i miei genitori mi portavano in vacanza dagli zii in una casa all’Elba, ed uno di loro amava e curava con passione i fiori. Spesso mi chiamava per annaffiarli ed io lo facevo volentieri, ma tenendomi ben lontana, quando spruzzavo sui bombi che ronzavano in cerca di polline. Per non dire delle scolopendre: prima di andare a dormire tutta la famiglia inscenava una vera e propria caccia per appurare che non ce ne fossero in casa, ma malgrado quella “disinfestazione” io tenevo il lenzuolo ben tirato fin sopra la testa convinta che, se anche ne fosse rimasta qualcuna, così non mi sarebbe venuta addosso. E mi guardavo bene dal tenere in mano il criceto che ci avevano regalato!

Chi l’avrebbe mai detto, allora, che poi avrei passato la vita a rovistare nelle fessure degli alberi, ad arrampicarmi sui tetti, a frugare nelle crepe dei muri, ad aprire alveari a caccia di vespe ed api, incurante, malgrado tutte le protezioni e il timore che dentro rimane, delle loro micidiali punture fatte solo per difendersi, non per nutrirsi come fanno le zanzare.

Sì, perché è così, con un mestiere “pericoloso” che tanti uomini rudi e spavaldi si guarderebbero bene di fare, che mi procuro di che vivere. Nel 2002, infatti, ho messo su una ditta, l’unica in Europa, che estrae il veleno degli imenotteri per poi fornirlo alle aziende – ce ne sono 5 o 6 in Europa, ed una sola in Italia, a Firenze dove vivo anch’io – che lo trasformano in un vaccino indispensabile per salvare la vita di quelle persone il cui sistema immunitario, se vengono punte da questi insetti, scatena una reazione allergica… come dire?… spropositata, eccessiva. Una reazione che può provocare edemi cutanei estesi, superiori anche ai 10 cm e capaci di perdurare per più di 24 ore. I sintomi di queste reazioni generalizzate sono il prurito tipico di un’orticaria, improvvisi gonfiori della pelle e dei tessuti che si chiamano angioedemi, dolori viscerali, difficoltà respiratorie simili a quelle dell’asma, paralisi della glottide con conseguente mancanza di ossigeno che può portare a perdita della conoscenza, e addirittura, per fortuna molto raramente, la morte.

È una faccenda seria che, secondo i dati epidemiologici, interessa quasi 2 milioni di italiani. Una percentuale forse irrisoria, perché la maggior parte della popolazione se viene punta da questi insetti se la cava fortunatamente con un ponfo, un gonfiore, un arrossamento in sede locale che svanisce in tempi ragionevoli ed è solo motivo di fastidio e un po’ di dolore, sopportabile come altri.

Ma il 3% degli adulti e l’1% dei bambini se la vedono brutta se una vespa indispettita o un’ape spaventata sfoderano le loro armi non per uccidere, ma per dissuadere chi le infastidisce e le minaccia, per procurare nel presunto aggressore un dolore tale che faccia da deterrente a proseguire l’assalto o l’intrusione, a mettere a repentaglio la comunità, a minacciare la propria sopravvivenza. In altre parole a pensarci su due volte prima di riprovarci.

Per queste persone esposte a reazioni allergiche, addirittura a un decesso per choc anafilattico – per fortuna solo lo 0,19% all’anno di quanti sono stati punti –, il rischio che la pericolosa sintomatologia allergica possa manifestarsi nuovamente in seguito riguarda il 50-60% dei casi gravi ma non letali.

Per loro il vaccino è fondamentale, e devono essere seguiti in un centro specializzato, come quello dell’ospedale Torregalli a Firenze. Lì, per 5 anni ad intervalli di 4-6 settimane l’una dall’altra, vaccinano più di 600 persone ogni mese con dosi inizialmente crescenti e poi stabili di veleno, accogliendo in media 6 nuovi pazienti allergici ogni settimana.

Io, timorosissima fin da piccola, mi sono ficcata in quest’impresa prima di tutto perché un duro ma bravissimo professore al liceo scientifico Leonardo da Vinci di Firenze, il professor Zingoni, mi ha letteralmente stregato spingendomi all’amore per le scienze naturali. «Non biologia, scienze naturali! – mi tuonò all’ultimo anno – Avrai una veduta più ampia delle cose».

In effetti l’etologia, lo studio del comportamento degli animali, e poi l’entomologia, il ramo della zoologia che si occupa degli insetti, ma più in generale l’attenzione all’ambiente, hanno finito per appassionarmi e addirittura farmi venire la voglia di diventare una ricercatrice in questo settore.

All’Università c’era un altro professore che è stato davvero un grande. Lo prendevano in giro per il suo nome e cognome, Leo Pardi, ma godeva di una stima illimitata. Ho imparato tanto da lui. Il docente con cui poi decido di laurearmi, il professor Turillazzi, mi fa fare una tesi sulle vespe. Su delle vespe che vivono in Malesia in colonie semplici, una decina di insetti a nido, e dal cui comportamento si potrebbero avere importanti risposte a quesiti lasciati irrisolti da Darwin sul sottile confine che c’è fra l’influenza della genetica e dell’ambiente nell’evoluzione degli insetti sociali.

È più facile, e anche meno costoso per una studentessa, osservare questi insetti allevati in una stanza climatizzata dove si simula l’ambiente tropicale che andare a scrutare le marmotte in cima a una montagna quando escono dalle loro tane. Prima mi avevano proposto uno studio sugli embiotteri, insetti simili alle formiche che puoi osservare solo al buio, con il tenue chiarore di una luce rossa. Una noia mortale, non fanno praticamente niente. Quando poi è uscito un libro su di loro mi hanno detto: «Vedi, se li studiavi tu gli embiotteri…».

Ma la vita va così, e così va presa. Io ero tutta presa dalle vespe. Dopo essermi laureata, inizio a cercare borse di studio, sperando, invero con poca convinzione, di rimanere nell’Università e andare in giro per il mondo come una specie di Indiana Jones. Però che altro potevo fare se non tentare? Intanto mi do da fare per racimolare qualche soldo e all’antico museo di scienze naturali di Firenze, la Specola, mi mettono a catalogare animali imbalsamati o conservati sotto spirito e formalina. Questo al mattino, mentre al pomeriggio continuo a studiare le vespe.

Un giorno arriva l’opportunità. Ci sono dei finanziamenti per andare in Camerun. Prima vado in Belgio a un congresso a conoscere l’entomologo francese che in Camerun studia quegli insetti che vivono lì. Alla fine parto. Me ne sto 4 mesi in quel posto sperduto, dove tutto va come deve andare, non come tu pensi che debba andare. Se il frigorifero si rompe, bisogna accettare che sia rotto, quasi che sia la sua anima o il destino a imporlo. Te ne devi fare una ragione. Però cordialità, ospitalità e dedizione non mancano. E se come me hai gli occhi verdi, i riccioli biondi, sei alta, bianca, sorridente ma al momento opportuno inflessibile, forse donna, è come avere una carta in più. È lì che le vespe mi hanno pinzato per la prima volta. Andavo a cercarle senza tregua e al limite dell’incoscienza in posti sperduti, dove però sapevo che le avrei trovate. Un giorno scioccamente mi sono tolta la maschera prima di aver finito tutte le operazioni necessarie alla raccolta e… pum, un bel ponfo in pieno volto. Mi hanno riempito di antistaminici, ma il mio sistema immunitario ha detto chiaro e tondo di non essere di quelli che scatenano la reazione allergica più seria.

In Malesia poi ci sono potuta andare quando avevo partorito da poco Niccolò. Mio marito e mia madre mi spinsero a farlo non preoccupandomi del piccolo: ci avrebbero pensato loro in quei mesi. E caspita come l’hanno fatto! Quando tornai, dopo un viaggio allucinante e le valigie piene di vespai che se alla dogana mi avessero fermato con della cocaina mi avrebbero fatto meno storie, lui era già sulle sue gambe di là dalla porta a vetri. Ha esitato un attimo prima di avvicinarsi e abbracciare “la sconosciuta”, ma poi… mamma, mamma, mamma.

Ora è già sulla strada di emulare Massimo Bottura, il grande chef, e a New York ho dovuto portarlo a cena in un ristorante blasonato che rabbrividisci quando ti portano il conto, ma, a parte che il cibo era ottimo, ero lì con mio figlio.

Al di là della stima conquistata sul campo, quando si stava prospettando un’altra spedizione in Malesia, compresi che all’Università avrei vissuto solo di promesse, in buona fede, ma troppo precarie, troppo legate alla disponibilità o meno di finanziamenti e alle dinamiche accademiche.

Siccome il mio professore insieme a un bravissimo immunologo stavano studiando come come procurarsi il veleno di insetti autoctoni per perfezionare i vaccini per chi è allergico, fui aiutata a entrare in contatto con l’azienda fiorentina che li produce, e quando compresi che il liquido iniettato dagli imenotteri veniva importato solo dagli Stati Uniti, per altro mescolando quello di 5 specie che non ci sono in Europa e quindi sono meno efficaci per scongiurare la ricomparsa dei sintomi in chi è stato punto, mi dissi: «Perché non provarci io?»

È così che è nata Entomon. Dà da mangiare a 5 persone fra soci e dipendenti, ha un fatturato che si aggira sui 200 mila euro, produce ogni anno circa 5 mila milligrammi liofilizzati di veleno immolando alla causa più di 100 mila insetti residenti in quasi 3 mila nidi, oltre alle api appositamente allevate nei nostri alveari, senza cioè infierire sull’ambiente.

La grande paura che ho dovuto vincere per partire non è stata quella degli insetti ma quella di bilanci, fidejussioni, contabilità di costi e ricavi, ripartizione degli utili, norme per la sicurezza sul lavoro, insomma tutto quanto serve a tenere in piedi un’azienda.

Un amico mi ha detto: in fatto di vespe, altro che vispa Teresa: vispa Elisabetta. Ma sarà vero?

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