Lei, la regina delle api

Elisabetta Francescato al lavoro

Questo l’articolo che avevo scritto per il settimanale “Confidenze”, con il quale ho brevemente collaborato alcuni anni fa quando a dirigerlo c’era Patrizia Avoledo, articolo che giustamente mi è stato bocciato chiedendomi di riscriverlo come sono scritte le altre storie pubblicate da quel periodico: in prima persona.

Storia di Elisabetta Francescato, l’unica donna in Europa che caccia vespe per salvare vite umane

Aveva paura di tutto. La madre racconta che quando aveva pochi mesi e iniziava appena a sgattaiolare, appena la portavano sulla sabbia, così instabile e mobile, iniziava a piangere come un ossesso e non smetteva più finché non la riprendevano in braccio e la facevano tornare su una superficie solida e ferma.

Ma anche lì continuavano le sue paure. Suo fratello, di poco più grande, saltabeccava come un folletto, incurante dei graffi e dei bernoccoli che quelle sue gioiose scorribande inevitabilmente gli procuravano, mentre lei, intimorita e diffidente, non ne voleva sapere.

Perciò, quasi sempre, non appena iniziato a reggersi sulle gambe e a muovere i primi passi, girava con un cuscino stretto tra le braccia, con il quale proteggersi nel caso, in vero assai raro, fosse caduta, evitando di procurarsi dolori gratuiti e supplementari.

Vattelapesca perché, Elisabetta era così, fin da quando è venuta al mondo a Livorno, città di mare e soprattutto portuale, città quindi di uomini rudi, incuranti dei pericoli e soprattutto pieni di un’ironia spietata, che si manifesta con battute sboccate e al vetriolo, quasi sempre al limite dell’ingiuria.
E con quella paura dentro è cresciuta, trasformandola nel passaggio da bambina ad adolescente in forme diverse e adeguate alle nuove situazioni, ma sempre sostanzialmente mirate a scongiurare pericoli e situazioni rischiose.

Poi ha finito per imbarcarsi in un lavoro che farebbe tremare i polsi a tanti, anche a energumeni nerboruti e un po’ smargiassi. Lei – così minuta, femminile, occhioni verdi circondati da una cascata di riccioli e un sorriso garbato ma capace di guizzare, che tuttavia non cela un grande dolore che porta in petto – va a mettere le mani dove la gente scappa anche solo a vedere cosa lei sta cercando.

Sì, certo, un po’ come quando teneva il cuscino tra le braccia da bambina, indossa una tuta che quasi assomiglia a uno scafandro, occhialoni protettivi, guanti che non li fori neanche se ti accanisci con una punta, insomma tutto quello che è necessario per proteggersi ed evitare un’inezia che però può essere mortale: la puntura di un’ape o di una vespa.

Il mestiere di Elisabetta è quello dell’entomologa, una specie di Indiana Jones che anziché cercare tesori nascosti sotto a una piramide o in un tempio, si mette a caccia di imenotteri: un ordine di insetti che comprende oltre 120.000 specie diffuse in tutto il mondo, di piccole, medie e grandi dimensioni, terrestri, alati o atteri, tra i quali sono comprese le api (Apis mellifera), le vespe comuni (Vespula spp e Polistes spp) e i calabroni (Vespa crabro e Vespa orientalis).

La puntura di alcuni di questi animali può provocare edemi cutanei estesi, superiori anche ai 10 cm e capaci di perdurare per più di 24 ore, reazioni generalizzate i cui sintomi sono il prurito tipico di un’orticaria, improvvisi gonfiori della pelle e dei tessuti che si chiamano angioedemi, dolori viscerali, difficoltà respiratorie simili a quelle dell’asma, paralisi della glottide con conseguente mancanza di ossigeno che può portare a perdita della conoscenza, e addirittura, per fortuna molto raramente, la morte.

Incurante di tali pericoli Elisabetta e i suoi collaboratori vivono proprio andando a cercare questi animali i quali, a differenza delle zanzare che pungono per nutrirsi, lo fanno solo per rendere inoffensivo, e non uccidere, chi li minaccia o aggredisce la colonia – il vespaio o l’alveare – dove vivono, alimentandosi di nettare, polline o altri insetti.

E si espongono a questo rischio, come a quello di inerpicarsi su una scala per raggiungere il tetto, sotto le cui tegole le vespe hanno fatto il loro ingegneristico nido, proprio per dare la possibilità a chi dalla puntura di un insetto potrebbe gravemente ammalarsi o addirittura morire, di salvarsi o stare meglio, condurre una vita meno dannata da ritorni di quei fastidiosi sintomi.

La puntura di questi insetti, fortunatamente, non è causa di reazioni allergiche significative – sistemiche dicono i medici – per tutti. C’è chi se la cava con un ponfo, un gonfiore, un arrossamento in sede locale che svanisce in tempi ragionevoli ed è solo motivo di fastidio e un po’ di dolore, sopportabile come altri.

Si stima, in base a studi epidemiologici, che il 3% degli adulti e l’1% dei bambini siano esposti a reazioni allergiche provocate da questi animali, i quali hanno appunto questo metodo di dissuasione verso chi li infastidisce o gli mette paura, mirato a procurare nel presunto aggressore un dolore tale che faccia da deterrente a proseguire l’assalto o l’intrusione, a mettere a repentaglio la comunità, a minacciare la propria sopravvivenza. In altre parole a pensarci su due volte prima di riprovarci.

Elisabetta spiega – sfoderando tutte le capacità di semplificazione del linguaggio che impiega anche quando fa corsi di formazione su come difendersi da questi strani esseri che volano e non aver la paura che lei provava da bambina – che solo chi ha un sistema immunitario predisposto a reagire in maniera così “violenta” e sconvolgente al veleno inoculato dal pungiglione degli imenotteri, scatenando pruriti insopportabili, gonfiori paurosi, sensazioni di svenimento, senso di soffocamento o ancor di peggio, è esposto a pericoli che altri, la maggior parte, non corrono.

Sono infatti solo quasi 2 milioni di italiani sul totale della popolazione a vedersela brutta se una vespa indispettita o un’ape spaventata sfoderano le loro armi e colpiscono nel segno. Una percentuale irrisoria, e tuttavia, se si trattasse anche solo di un unico individuo, la scienza si è sentita in dovere di trovare un rimedio per scongiurare quelle condizioni patologiche, quelle vere e proprie situazioni di malattia, e soprattutto il raro ma non impossibile decesso per choc anafilattico.

Ed Elisabetta, timorosissima da bambina, a un certo punto della sua vita, poco dopo aver finito l’università e passato qualche anno da ricercatrice all’Università studiando proprio chi sono, come sono fatti e come si comportano quegli insetti, ha deciso di sfidare i suoi timori, le sue resistenze, la sua insicurezza inventandosi un mestiere che serve a predisporre il rimedio da utilizzare in caso di puntura per chi ha un Dna “tarato” e almeno ipersensibile.

Il vaccino che si impiega in questi casi lo producono in Europa solo 5 o 6 aziende, una sola delle quali si trova in Italia, a Firenze: la Anallergo. Ma senza il veleno degli insetti quelle imprese farmaceutiche sarebbero come una fabbrica di pneumatici che non ha gomma o di pomarola che non dispone di pomodori.

È in quella nicchia che Elisabetta, con un altro socio, si è inserita, mettendo su una minuscola azienda a conduzione artigiana, cinque teste in tutto fra imprenditori anch’essi pronti a sporcarsi le mani sul campo e dipendenti con vario tipo di contratto in mano, alcuni più stabili, altri meno.

Nel 2002 ha messo su la Entomon (www.entomon.it), l’unica azienda europea in grado fornire a chi produce vaccini veleno di imenotteri. Raccolto asportando intere colonie dai luoghi dove vivono le vespe, dentro cavità di alberi e muri, sotto le tegole spioventi delle case coloniche, in particolare quelle che hanno cavalli, mucche od altri animali ed hanno una determinata esposizione al sole o si trovano in ambienti idonei a costituire l’habitat naturale di questi insetti; e coltivando alcuni alveari propri, destinati unicamente a questo scopo scientifico, niente miele, propoli, pappa reale, cera ed altri tesori regalati da questi animali dalla complessa ed evolutissima vita sociale.

Oltre a vincere l’antica paura, Elisabetta – liceo scientifico prima, Scienze naturali poi – si è pure dovuta imparare, e confessa contro il proprio istinto naturale, i segreti della conduzione di un’impresa: bilanci, fidejussioni, contabilità dei costi e dei ricavi, ripartizione degli utili, norme per la sicurezza sul lavoro.

Mansioni a cui rinuncerebbe volentieri, preferendo di gran lunga la perlustrazione del territorio in cerca del luogo dove, con maggior probabilità, gli insetti hanno costruito il proprio nido diventando un fastidio per chi vive in quel casolare, in quel borgo, in quella villa. Ed anche l’intabarrarsi con quelle divise da astronauta indispensabili ad evitare le punture durante la raccolta delle colonie ma dentro le quali si suda come in pieno agosto, anche perché è proprio questo uno dei mesi più indicati a far la raccolta per avere il prodotto migliore.

Sì, deve sapere anche cose come queste Elisabetta, l’ora migliore in cui avvicinarsi al nido per essere certi che gli insetti siano tutti dentro e ridurre al minino la loro ribellione verso l’intruso, la stagione della riproduzione e quella in cui le regine vanno in letargo, svernando in un posto tranquillo per poi fondare da sole in primavera una nuova colonia.

L’impresa che ha tirato su, raggiungendo un fatturato che si aggira sui 200 mila euro all’anno, non è solo l’unica in Europa in grado di fornire ai produttori di vaccini il prezioso veleno, ma è anche la sola a fornire un prodotto “nostrale”, estratto proprio dagli animali che popolano questo continente, diversi da quelli simili che vivono in America o in Asia.

Col veleno dei quali si può comunque preparare un antidoto capace di mitridatizzare chi è costretto a girare con l’auto-iniettore di adrenalina, ovvero sia il primo rimedio salvavita in caso di reazione allergica se si è immunologicamente predisposti, ma non esattamente quello più efficace per contrastare gli effetti della puntura di quello specifico insetto.

I “wasp-busters”, gli “accalappia-vespe” della ditta di Elisabetta, selezionano infatti animali “autoctoni”, delle specie Polistes dominulus, Vespula germanica/vulgaris e Vespa crabro, secondo la classificazione introdotta da Linneo, ed è l’unica a farlo in Europa, mentre spesso si impiega il veleno di imenotteri che stanno negli Usa e qui non pungono perché non esistono in natura.

Il veleno da loro raccolto è dunque quello più idoneo a preparare un antidoto specificamente efficace, perché, per così dire, è “a chilometro zero”.

Non solo: è estratto in forma pura, senza utilizzare la sacca del veleno dell’insetto, ma succhiando attraverso il pungiglione, come un vino che deriva solo dal succo d’uva e non anche dalle vinacce.

Di quella bomba che se inghiottita così magari manda all’altro mondo ma in dosi pressoché omeopatiche può salvare una vita, stando al microscopio ed utilizzando strumenti che sembrano quelli di un micro-chirurgo, Elisabetta e gli altri ne estraggono circa 5 mila milligrammi liofilizzati all’anno immolando ogni anno alla causa più di 100 mila insetti residenti in quasi 3 mila nidi, oltre alle api appositamente allevate in proprio a questo scopo, senza cioè infierire sull’ambiente.

Nel caso delle vespe, infatti, l’alternativa alla rimozione del nido e di tutti gli insetti che ci abitano dentro è una bella spruzzata di pesticidi che fanno secchi lì gli animali e qualcosa di tossico spargono per l’aria.

Ed essendo la loro presenza piuttosto fastidiosa sotto una pergola dove si sta a cenare d’estate o accanto alla finestra della camera da letto nella casa in campagna, è inevitabile che per liberarsene ci si rivolga ai disinfestatori.

Con alcuni dei quali Elisabetta – che quando viene chiamata direttamente non chiede alcun compenso guadagnando sulla raccolta del veleno, non sullo sterminio degli insetti – ha instaurato un pacifico e vicendevolmente vantaggioso patto: loro si fanno pagare per la prestazione richiesta ma anziché andare con le loro bombolette piene di gas o di liquidi da irrorare, arriva lei con quello che si potrebbe paragonare ad un retino per prendere le farfalle ed una borsa frigo nella quale mantenere subito al freddo gli insetti che da quel momento in poi, fin quando non vengono consegnati in provetta alle ditte produttrici del vaccino, rigorosamente restano dentro alla catena del freddo.

I biologi della Entomon di Elisabetta, prima di imbottigliare e liofilizzare il veleno in provetta, lo sottopongono a una complessa serie di analisi per garantirne purezza, efficacia, reale potenzialità e soprattutto il fatto che non sia inquinato da pesticidi, cosa che viene preventivamente appurata anche prima dell’asportazione del vespaio.

Un lavoro forse antipatico per qualche animalista, ma certo rispettoso dell’ambiente e soprattutto indispensabile per la medicina.

Fra quei quasi 2 milioni di italiani esposti infatti ai rischi delle reazioni allergiche provocate dagli imenotteri, solo lo 0,19% all’anno di quanti sono stati punti è, secondo l’Istat, deceduto in seguito a choc anafilattico, ma nel 50-60% dei casi gravi però non letali la pericolosa sintomatologia allergica può manifestarsi nuovamente in seguito.

Per loro il vaccino è fondamentale, e devono essere seguiti in un centro specializzato, come quello dell’ospedale Torregalli a Firenze, dove la task force dell’Azienda sanitaria Toscana centro accoglie in media 6 pazienti allergici ogni settimana vaccinando ogni mese con dosi inizialmente crescenti e poi stabili di veleno per 5 anni ad intervalli di 4-6 settimane l’una dall’altra, più di 600 persone.

La vaccinazione o l’immunoterapia specifica che consente di mitridatizzare contro vespe e api le persone allergiche è in grado di prevenire l’anafilassi in oltre il 90% e le reazioni mortali nel 100% dei pazienti trattati, evitando loro ricadute e la ricomparsa dei sintomi allergici, con un sensibile miglioramento della propria qualità della vita e scongiurando il pericolo, per quanto raro, di morte.

Insomma, una bella sfida vinta contro la paura, propria e degli altri, quella di Elisabetta che ha un figlio giovanissimo, ma già sulla strada di emulare Massimo Bottura, con la speranza che prima o poi non inserisca nel menù api e vespe raccolte dalla madre.

In ogni caso, se qualcuno in fatto di vespe vi parlasse di vispa Teresa, non credetegli: si chiama vispa Elisabetta.

Daniele Pugliese

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