Piccole fini del mondo

Scrivi dunque le cose che hai visto,
quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito.
Giovanni, Apocalisse, 19

La fine dei mondi, anziché quella del mondo. È la tesi di fondo che – scartabellando per anni la cosiddetta letteratura apocalittica, costituita di basilari testi filosofici e di altrettanto imperdibili libri di narrativa – ho sostenuto in un saggio senza fine che – al posto di quella sul pensiero morfologico in Goethe, Spengler e Wittgenstein – avrebbe dovuto essere in origine la mia tesi di laurea, poi divenuto, sacrificandone numerose parti, il libro Apocalisse il giorno dopo. La fine del mondo fra deliri e lucidità, pubblicato dalla Baskerville di Bologna nel 2012 all’alba della fatidica data nella quale saremmo stati spazzati via tutti da un asteroide la cui orbita avrebbe centrato in pieno il pianeta.

Sostengo infatti in quel libro che della catastrofe definitiva se ne preannuncia l’avvento da ben più di 2000 anni, da quando Giovanni, cioè, vergò l’Apocalisse – il primo volume mandato in stampa da Gutenberg –, ovvero la sua “rivelazione”, facendo impallidire quanto meno i credenti dinanzi all’ipotesi del marasma capace di cancellare la specie.

È infatti un’idea, se non antica quanto il mondo, antica quanto l’umanità che la popola o, almeno, risalente al momento in cui, per trovare una ragione a cosa ci si stia a fare noi qui nell’universo, si è tentato di darsi delle spiegazioni narrando, in forma mitologica e non ancora con il sussidio di strumenti scientifici, come sia nato il cosmo, le cosmogonie, quale sia il suo scopo, le teleologie, e quale il suo destino una volta giunti alla fine, le escatologie.

Un’idea preconizzata infinite volte e infinite volte disattesa, e tuttavia, malgrado la salvifica ma cocente delusione, puntualmente riproposta come prossima ventura, ineluttabile, terrifica.

Le epidemie, le carestie, i terremoti e le alluvioni, le guerre e i prolungati periodi di indigenza hanno alimentato questi spettri e il più delle volte indotto a far confusione credendo che le sciagure in procinto di abbattersi su di sé, dovessero essere condivise da ogni simile e che anziché dinanzi alla morte ci si trovasse dinanzi allo sterminio.

Ciò sta a dimostrare che di fini del mondo ce ne sono state numerose e al tempo stesso nessuna. Perché è tramontato l’impero asburgico, sotto il quale l’ansia della catastrofe è stata particolarmente vivida, così come è pietosamente morto il signor Tal dei Tali, la Spagnola ha falcidiato mezza Europa, i dinosauri si sono estinti e sorte analoga è toccata ad altre specie assai meno lontane nel tempo; ma la Terra continua a girare intorno al Sole e il suo suolo vien calpestato quotidianamente da un numero di abitanti impensabile solo 200 anni fa.

Dunque “fini del mondo”, o “fine dei mondi”, ma non “fine del mondo”.

L’argomento è al centro della mostra che domenica prossima, il 16 ottobre, inaugura la riapertura del ristrutturato Museo Pecci di Prato ed intorno al quale sono stati scritti vari articoli, anche con tagli comprensivi di altri modi di considerarlo, nel sito del Museo, il cui indice ho proposto qui il 13 settembre scorso.

Ipotizzando dunque che, non essendoci stata ancora la apocalisse, di apocalissi ce ne siano invece state molte, e tralasciando per un attimo i morti nei Lager, lo sterminio dei nativi dell’America e degli Indios, o anche solo le vittime dell’ultimo drammatico incidente di grandi dimensioni avvenuto su un’autostrada o dell’ultimo fenomeno meteorologico avverso, per descrivere i quali i media spesso ricorrono alla parola che in greco significa “rivelazione” e noi abbiamo cangiato in “scangeo”, possiamo immaginare anche altri scenari di “fine del mondo” o di “fini di un mondo”.

Non c’è più il mondo in bianco e nero nel quale sono cresciuti quelli della mia generazione, al punto tale da avere addirittura sogni privi di colori o, più esattamente, caratterizzati da quei due colori, contrastanti e diametralmente opposti, ma anche così ricchi di sfumature da darne vita ad un terzo che si chiama grigio e col quale spesso definiamo l’indefinito, l’incerto, il nebuloso, l’ambiguo.

Non ci sono più le Tribune politiche di Jader Jacobelli nelle quali mediamente si riusciva a comprendere cosa venisse chiesto e cosa risposto, non solo per lo spessore e la professionalità di intervistati e intervistatori, ma anche per un reciproco rispetto, imposto laddove carente dal conduttore, quando la trasmissione mutò il format da interviste di più giornalisti a un solo politico, a confronto fra due politici interrogati anche da più giornalisti. E quello era un mondo che è finito, che lo sia con rimpianto o con soddisfazione.

Non ci sono più tutti quegli oggetti, mestieri, abitudini, usanze – i capelli a banana, il bollitore della siringa in vetro, la maglia di lana, il carbone, il lattaio con l’Ape e le bottiglie chiuse dalla stagnola; la carta moschicida e, aggiungo io, quella carbone; fionda, cerbottana, Meccano e shangai; le Turmac, le Gauloises Papier Mais, le Nazionali Esportazione o le mefitiche Sax, le Navy Cut; il bigliettaio del tram col suo ditale di gomma, una foratrice che certamente nessuno chiamava obliteratrice e il suo immancabile «Avanti c’è posto!» – che Francesco Guccini ha descritto in un libro, poi credo duplicato in un secondo volume, intitolato Dizionario delle cose perdute (Mondadori 2012), preceduto, a onor del vero, da La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita di Philippe Delerm (Frassinelli 1998) in cui, con un evidente debito alla Madeleine proustiana, si mescola l’odore delle mele alla sensazione del coltello in tasca, l’effluvio di emozioni che accompagnava il pacchetto delle paste alla domenica mattina o appunto la particolarissima sollecitazione sensoriale prodotta dalla prima sorsata di birra, la prima in assoluto e la prima ogni qual volta se ne assapora una, e ancora l’andar per more, la cabina telefonica, le espadrillas bagnate, fino al rumore della dinamo.

Quest’ultimo fa tornare alla mente una canzone dei Gufi, intitolata Che bello! dove – ed era un èra fa, divisa chiaramente da un’èra dal tempo lì descritto – si ricordava l’infanzia in cui un cartoncino tra i raggi della bicicletta, qualcuno usava una vecchia carta da gioco, la trasformava, almeno nei sogni, in una motoretta e l’illusione che portar la barba fosse fare l’artista in una mansarda a Parigi.

Finito non è solo il mondo del cartoncino tra i raggi della bicicletta, ma anche quello dei Gufi che lo cantavano, com’è finito il mondo del panico per la guerra nucleare, lasciando il posto a questo mondo intriso del panico quotidiano per una guerra che qui non c’è mai e là sempre. Il primo avrebbe davvero potuto produrre l’apocalisse, sarebbe bastato schiacciare un bottone; questo dissemina “fini del mondo” sui barconi in mezzo al Mediterraneo, nei ristorantini vicino al Bataclan, in quelle risiere della Cina dove si è ancora solo un numero ma cresce anche lì la voglia di ammirare la Gioconda, una volta almeno nella vita.

Intanto pianeti, asteroidi, stelle, carcasse di satelliti ci gironzolano intorno e la tettonica a placche non s’è chetata come neppure il magma che ribolle là sotto. E la metà delle risorse di questo pianeta si è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, l’1% della popolazione. Ciascuno a modo suo si vive la sua fine del mondo ed oggi che è domenica in molti faranno il loro abituale giro al centro commerciale più vicino.

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