Alea iacta est, il dado è tratto
«Alea iacta est». Secondo Svetonio la frase l’avrebbe pronunciata, nella notte del 10 gennaio del 49 a.C. Giulio Cesare varcando il fiume Rubicone e prendendo quindi una decisione senza possibilità di appello.
Vien tradotta con «Il dado è tratto» e sta a significare che la decisione è stata presa e qualunque siano le conseguenze vanno messe nel conto e non si torna indietro.
Il dado l’ho lanciato anch’io. Il 15 agosto scorso, in un articolo dal titolo Un libro per i miei lettori, ho annunciato la pubblicazione qui nel blog delle 30 interviste a personaggi celebri della cultura e della scienza raccolte in un volume intitolato Appropriazione indebita, rendendo così giustizia al fatto che il «valore aggiunto» di quell’assemblaggio di materiale giornalistico – destinato, come sosteneva il grande direttore del “Corriere della Sera” Luigi Albertini, a «vivere un giorno solo», ed ora resuscitato per più di «un giorno solo» – era dovuto «tutto agli intervistati, all’esperienza che si portavano dietro, alle competenze che avevano coltivato».
La decisione di pubblicarle, spiegavo, derivava dal sollecito di vari amici che le avevano lette sostenendo avessero quel «valore aggiunto» – l’utile? Il profitto? La rendita? Come dicono gli uomini d’affari o gli economisti? Ma il valore non è anche altro? – e meritassero di stare tutte insieme, a disposizione di chi fosse interessato a leggerle, in un oggetto fatto di pagine di carta, caratteri stampati, rilegatura, copertina.
E derivava dalla constatazione che – per un verso con le belle piccole case editrici (la Baskerville e Portaparole), con le quali ho avuto l’onore e il piacere di pubblicare i miei libri, e per l’altro con le grandi (Einaudi, Adelphi, Sellerio e molte altre ancora) a cui mi sono per ora invano rivolto – ho difficoltà a mettere nero su bianco, dandogli lo spessore di una costola, quanto giace nei miei cassetti e, a giudizio dei pochi che ci hanno messo il naso, dovrebbe invece stare negli scaffali di una libreria, qualcuno anzi anche in vetrina o nella pila riservata a Fabio Volo e a Bruno Vespa all’ingresso di quei negozi che vendono libri.
Ma, di più, nel comunicato stampa diffuso da Ali Comunicazione per dar conto di quei 30 appuntamenti nel mio blog con Eugenio Garin, Francis Haskell, Giuliano Toraldo di Francia, René Thom e gli altri, mi sono sbilanciato affermando l’esistenza del progetto di trasformare quella raccolta di interviste «in un e-book».
Le promesse vanno mantenute, ne va della propria credibilità. Una delle poche cose a cui tengo. E, pochi o tanti che siano i lettori di questo blog, con loro almeno ho pensato di dover onorare l’impegno preso.
E perché allora, mi ha suggerito un caro amico al quale ho rivelato i dubbi e le preoccupazioni derivanti da quella parola data e dai disagi delle mie relazioni con le case editrici, non aprire una casa editrice che inizi a rendere disponibili a chi è da tempo interessato alle parole e ai pensieri miei, i sei o sette titoli già pronti a fianco dei quali compare il mio nome, e gli altri in gestazione?
E perché non affiancarli con libri di altri che gravitino intorno ai temi di cui solitamente tratto, abbiano affinità con le forme espressive di cui mi avvalgo, siano a mio giudizio meritevoli di essere diffusi in forma di libro e non abbiano ancora trovato questa opportunità, siano stati dimenticati e invece abbiano ancora qualcosa da dire?
In altre parole, perché non dar vita ad una casa editrice? E perché non costruire intorno ad essa un cenacolo, una associazione, un sodalizio, un’aggregazione, una comunità che, partendo proprio dalla pubblicazione dei miei scritti, non dia vita anche ad altre iniziative alimentate da esperienze, saperi, passioni, competenze, convinzioni di chi a quell’organismo aderisce o si sente vicino?
«Wozu Dichter?», perché i poeti? «… e perché i poeti nel tempo della povertà?», si chiedeva Hölderlin nell’elegia Pane e vino, ripreso da Martin Heidegger in uno dei saggi del suo Holzwege, i sentieri interrotti.
Gli faceva eco Theodor W. Adorno che nel 1949 affermava: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie».
Fatte le debite proporzioni, e tenendo ben salda l’incommensurabilità dei contesti, perché avventurarsi nel mondo dell’editoria dopo che la fusione Mondadori-Rizzoli e l’acquisto del gruppo L’Espresso derivato dall’esperienza di Adriano Olivetti da parte di un fondo di investimento americano guidato da Sergio Marchionne rivelano il rischio del venir meno di un presupposto fondamentale di quella che finora abbiamo chiamato democrazia: la libertà di stampa e di pensiero a favore di un’unica mente capace di uniformare i valori, o i disvalori della società?
No, sia chiaro, qui si parte solo dall’ipotesi di pubblicazione di un e-book contenente interviste fatte in tempi che non ci sono più, niente a che vedere con questi scenari catastrofici nei quali sguazziamo. Ipotesi che si è trasformata nella possibilità di offrire quei 30 dialoghi ed altre cose che ho scritto nel corso degli anni sotto forma di saggio, testo narrativo, materiale giornalistico, zibaldone, verso, infinitesimale pensiero, o, appunto, “altro” di “altri” che usi analoghe chiavi di violino.
«Alea iacta est», il dado è tratto. Sto per dar vita a una casa editrice che proprio nel “dado” – o meglio, che anche nel “dado” – affonda la sua ragione di essere e di intrecciarsi con altre esperienze compatibili e solidali.
Per cui tarderò un po’ la pubblicazione dell’e-book di Appropriazione indebita, la cui ultima intervista, quella a Willy Pasini, è appena comparsa nel blog, giusto il tempo di tessere la tela di qualcosa di più impegnativo.
«Una sfida, vero?» chiede Anna a Walter nel racconto di Primo Levi da cui trae spunto il mio primo libro, Sempre più verso Occidente.
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