Della piazza e dintorni

Piazza Maggiore a Bologna

Per quanto la mia anima sia insoppribilmente comunista, son di quelli che pensano che quasi sempre “la piazza” abbia torto, o comunque non sia sufficientemente in grado di aver ragione. Ho in mente quei boati un po’ tarantolati che spesso hanno finito con l’incendiar qualcuno o farne penzolare qualcun altro e simili. Non da meno penso che sia sana cosa, invece, “scendere in piazza” – assai più che “scendere in campo”, mediazione calcistica trasferita alla politica – perché vi deve pur essere un posto dove si possa manifestare, esprimere, dar corpo al proprio malcontento, alla disapprovazione, al rifiuto, e se non si vien ascoltati altrove è lì che ci si può dar appuntamento. La piazza, in senso urbanistico-architettonico, a quel che ne so, ha a lungo ricoperto il significato di luogo d’incontro e per questa via, poi, di mercato, di luogo ove avvenga uno scambio, sia pure di merci e denaro, ma che magari possono essere anche idee o conoscenze.

Associata a questo luogo c’è un’altra espressione che è quella di “mettersi in piazza”, vale a dire mostrarsi. Frase che mi suona male se prende la piega dell’esibirsi, assai meno se imbocca quella del rendersi manifesti per quel che si è e non per quel che si vorrebbe dare a credere. Sia chiaro non penso a una confessione apostolica o a una seduta psicanalitica nell’aula n. 8 di Lettere dove un tempo si svolgevan le assemblee del movimento studentesco. Più semplicemente un dirsi serenamente, un non temere il giudizio, un calar le carte sul tavolo senza neanche intraprendere la partita.

Il giocatore dirà: è dov’è, allora, il divertimento? Ma per quanto sia stato a suo tempo edotto sull’homo ludens e convenga che una buona dose di riso e allegria siano quanto meno indispensabili e salvifichi, stento a credere che la vita, l’esistenza umana, possa ridursi a quattro risate. Ho a suo tempo tessuto il panegirico – e son disposto a ribadirlo immediatamente – del di-vertimento, della legittima possibilità cioè di volgere talvolta altrove la propria attenzione, proprio per poterla solitamente tener vispa e desta verso dov’è rivolta e s’è deciso di tenerla fissata, ma di qui a confondermi con chi non farebbe altro che rallegrarsi, sconquassarsi, sganasciarsi, solleticarsi, ce ne corre.

Son certo che – come sosteneva Brecht – una risata ci seppellirà, ma bisogna attendere quel momento, senza accelerarlo artatamente, altrimenti la morte non la riconosceremo, quel giorno. E dunque, seriamente, anzi, addirittura con un po’ di cupezza, col volto corrugato, l’espressione pensosa – ammesso che dietro vi alberghi qualche connessione fra sinapsi –, la fronte un po’ arricciata, affermo che si possa serenamente esporsi per quel che si è o, almeno, si ritien d’essere, o comunque lasciarsi un po’ andare, senza tema di giudizio, senza timor di plauso o diniego. Liberi, sereni. Finanche cupi e ridanciani. Finalmente se stessi, dinanzi ai quali gli altri possano mostrarsi per quel che sono, tutto compreso, e se domanda ed offerta s’incontrano, ben venga scambio, altrimenti, pazienza! a ciascuno il suo.

Dunque non starò dietro a coloro che tirano in ballo Narciso, Eco (“la”, non Umberto, ammesso lo sappiano), l’esibizionismo, la presunzione, l’arrivismo, la compiacenza, gli indomabili bisogni di gratificazione o riconoscimento. Che si dica, che si dica. Solo così è possibile ascoltare. Ah, udite, udite!

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