Lo psicanalista nella favelas

Eduardo Mandelbaum

Questo il mio articolo pubblicato sul “Sole 24 Ore Sanità” di questa settimana:

Intervista allo psicanalista argentino Eduardo Mandelbaum fondatore dei “Gruppi multifamiliari”

Ascolto, rispetto, affetto: la psicanalisi si fa «integrativa»

Intervista allo psicanalista argentino Eduardo Mandelbaum fondatore dei “Gruppi multifamiliari”Ascolto, rispetto, affetto: la psicanalisi si fa «integrativa»Il suo “lettino di Freud” non è la celebre chaise longue disegnata nel 1928 da Le Corbusier. È un centinaio di seggiole nel salone del Municipio di San Isidro, uno dei “quartieri” bene di Buenos Aires, la capitale dell’Argentina che conta, con i sobborghi, quasi 14 milioni di abitanti, ed ha, all’ennesima potenza, tutte le contraddizioni sociali di una metropoli.

Sulle seggiole di quella imponente casa coloniale, ma anche in altri luoghi nelle misere “villas” della città, un centinaio di persone si mettono sedute e a turno, ordinatamente, chi vuole prende la parola e parla delle difficoltà e delle sofferenze proprie o di un proprio familiare. Del loro disagio psichico o del malessere sociale.

Il professor Eduardo Mandelbaum è uno psicanalista di formazione freudiana, allievo dei principali maestri della psicoanalisi in Argentina, come Pichon Riviere, Bleger e Langer.

Più di 45 anni fa ha iniziato a lavorare in un ospedale psichiatrico, il Jose Borda, come quelli che c’erano in Italia prima che Basaglia li scardinasse. Per un po’, addirittura, durante la dittatura di Videla, con un direttore del manicomio che girava tra i reparti con un pastore tedesco inferocito per mettere in chiaro che lì non si curava ma si doveva star bravi.

Poi, insieme a Garcia Badaracco, ha cominciato a mettere insieme famiglie al cui interno c’è un membro almeno con problemi di salute mentale e, in quella che altrimenti potrebbe sembrare una bolgia dantesca, a placare ansie, a riportare sorrisi sui volti, a ridar voglia di vivere, a sentire meno male appena ci si alza al mattino.

Insomma a curare come fanno gli psicoterapeuti che nel loro studio ricevono un paziente per volta, o quelli che trattano un nucleo familiare modificando le relazioni “storte” venute a crearsi in quel microcosmo, o in un gruppo di alcolisti anonimi che condividono cosa li ha spinti a bere fino a perdersi. Estendendo l’intervento dalla “malattia mentale” a qualsiasi tipo di malessere personale, familiare o sociale derivato per lo più, lui sostiene, dalla solitudine nella società.

Quelli di Mandelbaum – il cui segreto è racchiuso nelle parole ascolto, rispetto e affetto – si chiamano “Gruppi multifamiliari dal punto di vista della psicoanalisi integrativa”, sono sbarcati all’incirca nel 2000 anche in Italia dando vita, recentemente all’Associazione italiana gruppi multifamiliari, la AIGM (aigm.firenze@gmail.com) con sede a Firenze che riunisce un gruppo di professionisti specializzati in questa disciplina.

Nei giorni scorsi il professore argentino ha tenuto una serie di seminari per formare, con le specifiche competenze indispensabili a questo tipo di lavoro, le équipe che sostengono e coordinano i Gruppi multifamiliari – psicoterapeuti, psichiatri, psicologi, ma anche assistenti sociali, pedagogisti, educatori, logopedisti e addirittura avvocati – insegnando loro un approccio alla salute mentale e al disagio sociale che prende le mosse dalla teoria psicoanalitica, ma arricchita o, come Mandelbaum dice, “integrata” da quello che sistemici, comportamentalisti, Gestaltisti e le neuroscienze – per dire solo dei più noti – hanno regalato alla possibilità di aiutare chi soffre ed ha bisogno, da solo non ce la fa.

Agli “allievi”, più che salire in cattedra ed illustrare i basamenti della sua teoria chiamata “Psicoanalisi integrativa”, Mandelbaum, appassionato ma sorridente e sempre pronto ad ascoltare prima di dire, racconta di una donna arrivata al Centro da una favelas che, mescolata agli altri del gruppo, con anche un omicidio nel proprio passato, chiede aiuto perché, essendo suo figlio stato minacciato da una banda di spacciatori, lei sente nuovamente forte l’istinto di ammazzare, e lei di uccidere di nuovo proprio non ne vuole sapere.

Racconta dell’assassina pentita che tutti chiamano “Pepita la pistolera” e dell’emozione che lei suscita nelle circa 20 famiglie riunite in quella stanza, chi a lamentarsi dei continui litigi con il marito, chi a tentar di capire come far finalmente crescere il proprio figlio ormai non più adolescente, chi a confessare come la propria libido assomigli ad un burattinaio che lo fa danzare furiosamente muovendo degli stupidi fili.

E di come la solidarietà, o lo sdegno, l’incredulità o la compassione, le più disparate reazioni a quella storia agghiacciante siano riuscite ad innescare in “Pepita la pistolera” un cambiamento, una pacificazione interiore, un modo diverso di misurarsi con il problema della protezione del figlio e, addirittura, ad avviare un processo che “sganci” il figlio dalle grinfie dei narcos, lo conduca sulla strada della liberazione da una sostanza o cento sostanze che finiscono per trasformare le giornate in un nulla sempre identico a se stesso.

Oppure racconta dell’altra donna che, anch’essa con un figlio annegato nella droga, ma, di più, a capo di un piccolo esercito che anche con la forza gestisce lo spaccio in una zona della città fatta di baracche, prova qualcosa di insopprimibile verso la nuora, un odio viscerale fatto di insulti o silenzi spettrali.

Non riesce a liberarsi di questa avversione e la sofferenza cresce di giorno in giorno. Finché Mandelbaum stesso, in una sorta di psicodramma, dinanzi a quelli lì riuniti, le propone di giocare impersonando lui la moglie del figlio e lasciando a lei la parte di se stessa.

Il teatrino va avanti per un po’ con gli spettatori che ordinatamente si mescolano alla recita, ne prendono parte esprimendo plauso o disapprovazione, biasimo o sostegno, finché un giorno la donna torna al Gruppo multifamiliare e riferisce di aver casualmente incontrato la compagna del figlio: hanno esitato entrambe un istante davanti a scatolette di tonno e fustini dei detersivi, poi si sono sorrise, hanno finito per abbracciarsi con qualche lacrima agli occhi e alla fine quella che un tempo era solo la “puttanella” giunta dal cielo per portargli via il figlio, rassicurante ha detto: «Tranquilla, sta lavorando».
Non intendeva ha un etto di eroina purissima da gettare sul mercato, ma sta imboccando un’altra strada della quale, io moglie e tu madre, potremo solo essere orgogliose.

In quegli incontri i traumi infantili appartenenti al passato della dottrina classica freudiana si mescolano al battibecco relazionale sovrapposto al dialogo familiare che invece fa parte del presente, cioè gli approcci terapeutici si adattano alla realtà. E i mutamenti nei singoli diventano mutamenti collettivi, capaci di espandersi anche, come un’onda creata dal sasso gettato nello stagno, ad una collettività, come quella del quartiere di San Isidro o di una delle favelas di Buenos Aires.

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One Response to “Lo psicanalista nella favelas”

  1. cristina scrive:

    Bravo Daniele, grazie mille, sempre attento e puntuale… questo solo l’inizio vero????
    Abbraccio a presto

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