Attualità dell’idea di Apocalisse
Questo il testo della relazione Attualità dell’idea di Apocalisse che ho presentato ieri all’incontro su “Apocalissi ieri e oggi” nell’ambito del ciclo Incontri alla fine del mondo organizzato dal Museo Pecci di Prato ed al quale hanno partecipato il professor Marco Ciardi dell’Università di Bologna, che ha parlato di Apocalissi e ricerche d’altri mondi. Atlantide e non solo, e il professor Andrea Mecacci, dell’Università di Bologna, con un intervento su Estetiche dell’apocalisse:
Attualità dell’idea di Apocalisse
La mostra che inaugura il Pecci è dedicata alla “fine del mondo”.
E oggi noi ne trattiamo servendoci di un improprio sinonimo: “apocalisse”.
Apocalisse in greco vuol dire “Rivelazione”.
Il fosco testo giovanneo ha il senso della catastrofe incombente ma ne ha anche uno salvifico, soteriologico.
In ogni caso, e questo è basilare, attiene al futuro. È una profezia.
L’espressione “Fine del mondo” può essere interpretata come:
• annullamento definitivo della vita sul pianeta Terra;
• confine del mondo, colonna d’Ercole;
• scopo del mondo e di chi lo popola.
E mondo lo possiamo leggere appunto come pianeta Terra, ma anche:
• la mia terra;
• la mia civiltà;
• il mio clan;
• la mia classe sociale;
• io.
Spinto dal mio indimenticabile maestro Paolo Rossi Monti, ho studiato la letteratura apocalittica, in particolare quella a cavallo fra fine ‘800, quando viene meno l’idea di progresso, e la fine della II guerra mondiale, quando si deve prendere atto di 2 atomiche e del tentativo di annientare – a causa di infiniti pregiudizi e, come tutti i pregiudizi, idioti – una delle “tribù” che popolavano il Medio Oriente: i semiti.
Ebbene molta di questa letteratura apocalittica confonde proprio quei livelli di mondo, usa misure inadeguate alla comprensione dell’intera realtà.
Suppone stia finendo “l’Occidente” – lo fa Osvald Spengler, ma anche Thomas Mann, Freud e lo stesso Einstein – o addirittura solo “la Cacania”, l’impero austroungarico – Joseph Roth, Arthur Schnitzler, Karl Kraus, Robert Musil – e chiama quelle enclavi “mondo”.
Lo splendido romanzo di Guido Morselli Dissipatio H.G. descrive una fine del mondo incompleta: chi scrive infatti è sopravvissuto, il mondo non è interamente finito, uno è rimasto, il “salvato” non “sommerso”, e questo magari è ancor più angosciante di una estinzione totale.
L’ecologismo ha visto correttissimamente i pericoli per il pianeta derivanti dalle emissioni inquinanti o dal disboscamento, ma è disattento agli squilibri sociali e strabico nei confronti dell’universo, per il quale – come scriveva Primo Levi in uno splendido racconto che si intitola Una stella tranquilla, lo trovate in Lilit – il nostro linguaggio è inappropriato: grande o piccolo hanno significati molto diversi da quelli che solitamente adoperiamo.
I testi più antichi di cui ancora conserviamo traccia – qualunque sia la loro provenienza geografica sul pianeta – sono codici o rappresentazioni mitologiche o scritture religiose.
Tolti i primi, le altre due – che tuttavia spesso comprendono i primi indicando come ci si debba comportare e a cosa si vada incontro contravvenendovi – per lo più contengono, in assenza di scienza, spiegazioni su come sia nato il mondo, “cosmogonie”; su come debba finire, “escatologie”; su quale sia il suo scopo e quello di noi che lo popoliamo, “teleologie”.
Escatologie e teleologie non si confrontano né con il passato, né con il presente: solo con il futuro, come la fantascienza, gremita di profezie apocalittiche.
Le opere degli autori a cui facevo riferimento prima descrivono invece un presente, ma un presente talmente disagevole e corrotto che allude all’epifania di un futuro orrendo.
Confondere i piani, o le unità di misura, o i “bacini d’utenza” le entità territoriali, o i tempi – quello individuale, quello storico, quello biologico, quello planetario o astronomico –, gli stessi significati della parola “fine” e della parola “mondo”, comporta la possibilità di confondere la “lucidità” riguardo il “rischio di non esserci” – Heidegger, Sartre – con il “delirio” della distruzione: propria o di chi ci sta attorno… e magari poco simpatico, il potenziale nemico.
Di confondere la “lucidità” con la “paura”, la cui storia – per dirci di non provarla – ha saggiamente descritto Rosellina Balbi, la mia collega che dirigeva le pagine della cultura di “Repubblica”: paura che è il pane della discriminazione e che oggi viene artatamente alimentata da una troppo consistente parte della politica e, quotidianamente, da molti media.
Naturalmente la “paura” più grande è quella della “morte” e anche rispetto a questa – l’unica cosa che davvero accomuna indistintamente tutti gli uomini – è possibile relativizzare, pensare e sentire diversamente, prendere qualche distanza.
Ce lo insegna con maestria Philippe Ariés nella sua Storia della morte in Occidente, spiegandoci che non sempre e non dovunque ci siamo rapportati nello stesso modo dinanzi all’ultimo giorno: nostro, dei nostri cari o della specie.
Che tra la “lucidità” – con cui guardare al fatto che da troppo tempo abbiamo imboccato una strada, se non catastrofica tragica, e se non destinata al nulla ingiusta – e il “delirio” – in preda al quale tremare immaginando prossimo l’avvento dell’evento decisivo – il confine sia labile, labilissimo, lo possiamo ben comprendere facendoci guidare dall’immane lavoro di Ernesto De Martino, il cui archivio si trova proprio a due passi da qui, a Sesto Fiorentino, ed è difficile comprendere perché sia così poco valorizzato.
L’antropologo napoletano – che diceva di aver studiato «all’università di via Trinità Maggiore», a casa di Benedetto Croce – ha dedicato più di 700 pagine alla fine del mondo invitando a distinguere tra “apocalissi culturali” e “apocalissi psicopatologiche”, ma anche a vederne l’intima connessione, gli stretti tratti comuni.
Da quella lettura, suggeritami dal professor Rossi, sono iniziate le mie ricerche in questo campo.
Se pensiamo a quelli che sono stati, e sono, i movimenti millenaristici – rispetto ai quali, per non cadere nei luoghi comuni, basilare è la lettura di Millennio di Augusto Placanica, nonché delle opere di Duby e Pirenne –, alla carica spesso “moralizzatrice” – “talebana” diremmo oggi – con cui si sono connotati, dovremmo saper distinguere tra i valori che in qualche maniera portavano e la furia o l’odio di cui si sono nutriti e si nutrono.
Discorso analogo vale per le ideologie quasi indistintamente approdate (come spesso anche le religioni) al dogmatismo e di lì al totalitarismo, al fanatismo o a forme di intolleranza.
Ma quasi sempre partendo dalla proposta di un mondo migliore di quello che si ha dinanzi agli occhi, da una critica del presente.
E vale anche per l’attuale “ideologia delle non ideologie” che, con inappropriata sintesi giornalistica, chiamo il “pensiero unico”, “liquido” e “digitale” di cui stiamo facendo ingorda indigestione.
Un ruolo determinante nella deprecatio temporis – il disagio nel presente – lo ricopre l’utopia: un capitolo del mio libro sull’idea di fine del mondo è dedicato ad essa, perché il pensiero utopico si intreccia saldamente a quello apocalittico: il professor Ciardi sicuramente ne parlerà con più competenza di me.
Qui, però, vorrei ricordare che proprio 500 anni fa, nel 1516, Tommaso Moro dava alle stampe il volume dal cui titolo trae origine questa parola.
La quale, tuttavia, affonda non solo nell’Atlantide di Platone, ma, anche prima, in ogni testo che abbia immaginato, prevalentemente nel futuro, un luogo diverso o un “non luogo”, un “non tempo”, un “non hic et nunc”.
Noi siamo tenuti a sapere che di “fini del mondo”, nella storia del mondo, ne sono state annunciate a non finire e che ogni volta che una non si è realizzata, ne è stata annunciata un’altra.
Oltre allo sterminato numero profetizzato prima del 12-12-12 – un meteorite ci avrebbe distrutti tutti come si diceva avessero previsto i Maya – una miriade ne sono comparse dopo.
Nel 2015, per esempio, una seguitissima chiesa ha fantasticato che la decisione della ditta Epicenter di Stoccolma di impiantare ai propri dipendenti un microchip sottopelle “sulla mano destra” per eliminare chiavi, codici di sicurezza e badge, stesse traducendo in realtà quanto l’apostolo Giovanni aveva preannunciato nel libro biblico, riferendosi 7 volte al Marchio della Bestia “sulla mano destra” e sulla fronte di… «tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi»,… in modo tale che…
«nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è 666».
Di lì a poco, quindi, l’apocalisse.
Sempre nel 2015 il “Corriere della Sera” pubblica un articolo intitolato Che fare se il mondo (non) finisce e descrive come, sparsi in qua e in là per gli States, i seguaci della eBible Fellowship, abbiano invano atteso la fine dall’alba del 7 ottobre a quella del giorno seguente, data che il loro predicatore dava come certa.
Solo poche settimane fa c’è stata un’eclissi di luna e anche questa è finita sui giornali come un segno rivelatore, per qualcuno, della fine del mondo.
Proprio il 12-12-12 il “Daily News Science” pubblicava un pezzo che smentiva la strampalata profezia Maya ma ipotizzava i 7 – si noti 7 – scenari «terrificanti, ma anche più scientificamente plausibili» tra qualche miliardo di anni:
1) il Sole evolve da nana gialla a gigante rossa, si gonfia, ingloba Mercurio, Venere e Terra, risparmiando Marte: «Tutto quello di cui un astronomo extraterrestre potrebbe accorgersi – si legge nell’articolo – è un aumento insignificante (0,01%) degli elementi pesanti (ferro, silicio) nell’atmosfera solare: le ceneri del fu pianeta azzurro».
2) Tra 6-800 milioni di anni il riscaldamento dell’atmosfera aumenterà l’erosione a tal punto da distruggere il ciclo biologico con cui viene riciclata l’anidride carbonica tra suolo e atmosfera.
L’anidride carbonica crollerà a livelli talmente bassi da rendere impossibile la fotosintesi: senza piante, la vita animale morirà.
Oceani evaporati, una sauna caldissima, soffocante come su Venere, solo pochi batteri sopravvissuti in qualche remoto angolo ai due poli, prima di arrostire anch’essi in 2-3 miliardi di anni.
Niente a che fare, tuttavia, con il riscaldamento globale a breve termine, che è opera nostra.
3) Il Deep Impact, l’asteroide che colpisce la terra. In quest’ambito si lavora sul calcolo delle probabilità che, come tali, sono possibili ed impossibili.
Le ipotesi – ma nell’ordine dello 0,000 delle probabilità – mandano al 2036, quando Apophis potrebbe colpire la Terra, senza distruggerla, eppure provocando un’esplosione da 500 megaton.
Oppure al 2040 o al 2880 quando due “sassi”, del diametro di 1 chilometro e mezzo circa, potrebbero schiantarsi quaggiù.
In ogni caso, la statistica dice che quasi sicuramente un asteroide più grosso di un chilometro dovrebbe colpirci entro i prossimi 500 mila anni.
E tra 1,4 milioni di anni la piccola stella Gliese-710 si avvicinerà al Sole fino a solo un anno luce: abbastanza da disturbare la nube di Oort – la culla di comete ai confini remoti del sistema solare – facendone schizzare migliaia verso il Sole e verso di noi.
4) Lo scenario immaginato in Melancholia di Lars von Triers, il… “frontale” con un altro pianeta del Sistema solare attratto dalla forza di gravità dei suoi coinquilini.
C’è un 1% di probabilità, secondo i calcoli di due astronomi francesi che l’orbita di Mercurio diventi instabile e sempre più eccentrica entro i prossimi 3 miliardi di anni, innescando una reazione a catena che farebbe uscire dalle loro orbite Marte o Venere finendo per farli scontrare con la Terra, riducendola in briciole o, nel migliore dei casi, in una palla di magma rovente.
5) Mille volte quanto avvenne a Pompei nel 79 d.C. con l’eruzione del Vesuvio che la seppellì sotto una coltre di magma e cenere, alta fra i 5 e i 7 metri.
Ma questa volta negli Usa, dove Yogi e Bubu giocano nel parco di Yellowstone: 57 mila chilometri cubi di rocce roventi del mantello terrestre che ora bucolicamente alimentano geyser e sorgenti termali.
Ma sono pronti a esplodere, come già in passato, con una potenza anche centinaia di volte superiore a quella del Krakatoa.
70 mila anni fa, l’esplosione del supervulcano Toba si pensa abbia ucciso il 60% della popolazione umana, “ri-voluzionando” l’“e-voluzione”.
È successo, può succedere ancora.
6) Ogni 600 milioni di anni in media – l’ultima volta, portando a un’estinzione di massa, risalirebbe a 450 milioni di anni fa, ne restano d’attesa 150 milioni – una stella morente può produrre in pochi secondi più energia di tutta quella prodotta dal Sole in 10 miliardi di anni, sotto forma di uno stretto fascio di radiazioni gamma che, se diretto verso di noi a meno di 5 mila anni luce, “sterilizzerebbe” il lato della Terra esposto a quella stella.
Distruggerebbe lo strato di ozono permettendo ai raggi ultravioletti del Sole di creare altri disastri; farebbe reagire azoto e ossigeno dell’atmosfera, formando una nube opaca e tossica e rendendo le piogge estremamente acide.
7) Il famoso bosone di Higgs – teorizzato nel 1964, accertato al Cern di Ginevra con l’acceleratore LHC per la prima volta nel 2012 e ribattezzato con l’affascinante, ma discusso nome di “particella di dio” o “particella maledetta – permea l’universo conferendo massa alle particelle elementari e garantendo la consistenza del modello standard della nostra fisica.
Alcune teorie traggono dalla sua esistenza l’inquietante conclusione che viviamo in “precario equilibrio” sul “vuoto” – come una bottiglia in bilico su un tavolo, ferma finché nessuno l’urta – e pertanto se troppa energia si concentrasse in un punto solo, le leggi fisiche cadrebbero in uno stato “più stabile”, propagando il vuoto come una bolla che si espande alla velocità della luce, ed annientando completamente ogni cosa inglobata in essa.
Ipotesi improbabile ma non impossibile.
Ecco, a questa apocalittica bestia dalle 7 teste, come quella raffigurata nell’affresco di Giusto de Menabuoi nel Battistero di Padova nel XIV secolo, – forse ce ne parla il professor Mecacci a proposito dell’estetica dell’Apocalisse – se ne potrebbero aggiungere ovviamente altre:
• l’inquinamento atmosferico e il surriscaldamento del clima;
• il ritorno alla minaccia nucleare che ha paralizzato il mondo tra il 1945 e il 1989 con la caduta del Muro di Berlino;
• Chernobyl, Seveso, Bhopal o l’esplosione di qualche giorno fa in un impianto industriale della Basf in Germania;
• l’escalation terroristica: aeronautica negli usi di Al Quaeda; dinamitarda in quelli dell’Isis; batteriologica – col gas nervino Sarin prodotto dai tedeschi nel 1938 alla IG Farben, dove Primo Levi fu costretto a lavorare – in quello della setta religiosa dell’Aum Scinrikio (Shinrikyo) alla metropolitana di Tokyo nel 1995;
• “the big one”, un terremoto di dimensioni inimmaginabili e non limitato a San Francisco, niente in confronto al pur tragico avvertito ieri;
• ebola, l’aviaria, varianti sul tema della peste che ha flagellato per secoli l’Europa o della “Spagnola”, la febbre che decimò la popolazione nel 1914;
• volendo, visto che ora ricorderemo i 50 anni dell’alluvione di Firenze, un diluvio universale, presente nei miti di ben 64 popoli: da Deucalione e Pirra nella mitologia greca ai capitoli 7 e 8 della Genesi nella Bibbia, con Noè di cui narra anche il Corano; e poi nell’epopea di Gilgamesh, in quella scritta in accascio di Athrasis, e ancora nel Bhagavatapurana indiano, nella mitologia norrena che di diluvi ne ha due, fra i nativi d’America come nella mitologia Hopi come in quella dei Maya, in Polinesia, in Australia, Nuova Zelanda, anche in Cina.
E – mi sia consentito – si potrebbe aggiungere quella derivante dall’ulteriore esclusione dalla possibilità di lavorare e garantirsi di che mangiare, a una fetta crescente di umanità e la conseguente, o derivata, concentrazione delle risorse nelle mani di pochi: siamo alla metà nelle mani dell’1% della popolazione e l’altra metà nelle mani del restante 99%.
Una vera democrazia!: se non così,” quanto”? E se non ora, quando?
Questi sono gli scenari attuali dell’apocalisse.
Rispetto alla quale termino con due citazioni, una all’inizio e l’altra alla fine del mio libro.
La prima la si deve a Leopardi, al suo Dialogo di un folletto e uno gnomo contenuto nelle Operette morali.
Dice il folletto:
«Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta».
Gli contesta lo gnomo:
«Oh, cotesto è caso da gazzette – ciò di cui, scusate, mi sono occupato nella maggior parte della mia vita –. È caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino».
«Sciocco – ribatte il folletto –, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?»
Ecco, verrà la morte e avrà i nostri occhi, ma, siamo pur certi, non ce lo manderà a dire in anticipo, neanche con un lancio dell’Ansa.
L’altra citazione dice:
«Ci sono due modi di lavare i piatti. Il primo è lavare i piatti per avere piatti puliti, il secondo è lavare i piatti per lavare i piatti. [...]
Se mentre laviamo i piatti pensiamo solo alla tazza di tè che ci aspetta e ci affrettiamo a toglierli di mezzo come se fossero una seccatura, non stiamo “lavando i piatti per lavare i piatti”.
Direi di più, in quel momento non siamo vivi. [...]
Se non sappiamo lavare i piatti, è probabile che non riusciremo nemmeno a bere la nostra tazza di tè.
Mentre beviamo il tè, non faremo che pensare ad altre cose, accorgendoci a stento della tazza che teniamo fra le mani.
Così ci facciamo risucchiare dal futuro, incapaci di vivere veramente un solo minuto della nostra vita».
Ecco, non farsi risucchiare nel futuro come costringono a fare le profezie apocalittiche, ma anche le mirabilanti promesse politiche.
Stare “qui ed ora”, vivi, vegeti e vigili, a costruire un futuro migliore, anche stimolati da un po’ di utopia e dal bello, cioè dal piacere.
La citazione è di un monaco vietnamita che si chiama Thich Nhat Hanh. Il Nobel per la pace non gliel’hanno ancora dato ed è molto vecchio “ora”.
Grazie
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