Erode e la musica

I genitori del piccolo continuavano a muoversi – solo apparentemente felici, scambiandosi sorrisetti, gesti di cortesia, segni d’intimità, messaggi di appartenenza, senso di superiorità – quando il concerto della violoncellista nell’affollato e ristretto elitario spazio aperto a tutti non era ancora cominciato.

Ma anche dopo che un garbato annuncio al microfono aveva chiesto a tutti di spegnere i cellulari e far silenzio, ché altrimenti, nell’improprio ambiente all’uopo concesso, si sarebbe persa la bella, ma pur flebile voce della musicista – un dono di natura nell’ugola, evidentemente coltivato con lo studio della musica e di come il respiro debba accompagnare quella straordinaria predisposizione – accompagnata dalle note del prezioso strumento ad archi, trattenuto fra gambe e braccia e sollecitato dall’archetto o più spesso solo pizzicato.

La melodia cominciava a diffondersi ed il gruppetto di adulti – ingombrate tutte le sedie disponibili di cappotti, sciarpe, carabattole senza sedervicisi, anzi accalcandosi negli unici interstizi dai quali era possibile udire qualche accordo e vedere come l’artista eseguisse i suoi brani – continuava imperterrito il proprio teatrino domestico, come se si trovasse comodamente ritrovato nel salotto di casa, fingendo di parlar piano ed enfatizzando con gesti, teatralità e bisbigli percettibili ed affatto silenziosi, quella specie di rispettosa assenza di conversazione, quella compiaciuta presenza ad un evento mondano, quell’indifferenza al ritmo, alla melodia, alla presenza di altri nella sala.

Il bimbo – invero del gruppo il meno scocciatore, benché il suo gironzare e l’esile voce distraessero dalla partitura, dagli accordi, dall’esecuzione e dal canto – si trastullava con i suoi balocchi o con quel che il posto concedeva come tale, ma cercando continuamente di richiamare l’attenzione dei grandi che non lo perdevano d’occhio, gioendo dell’inventiva e della motilità del fanciullo, mentre il fratellino assai più piccolo dormiva incurante in un passeggino piazzato proprio a ridosso dell’unico varco verso l’improvvisato “palco” dell’artista, a dire il vero una semplice sedia in un angolo della sala centrale stipata di persone.

Le assecondanti premure genitoriali, bilanciavano l’essere espresse sottovoce con l’esasperazione delle mosse, con la frequenza degli scatti, con l’opposto dell’immobilità, ed i passi, il fruscio degli indumenti, i sussurri e i mormorii, nella ristrettezza dei locali e nell’assenza di un’intera orchestra che sovrastasse il timbro e il tono di quel melenso microcosmo.

A guardarle da fuori apparivano esse assai più ludiche dei giochi del bambino, serioso e quasi imbronciato, semmai, nel suo scoprire il mondo, ma anch’egli incurante di quanto gli avveniva intorno né più né meno dei suoi genitori che quel disinteresse e quella mancanza di rispetto dovevano pur avergli insegnato, non avendo però essi la medesima età in cui anche il capriccio è concesso, o la bizza o molto altro ancora.

Anzi, non apparivano, erano, e quell’esteriorità risultava intrinseca, sostanziale, radicata. E insistente, dio quanto insistente! Insistente e superficiale, irrispettosa, priva di comprensione, sì, diciamolo, decerebrata, come di chi ha staccato la spina.

Al punto da indispettire, mentre qualche brandello di musica classica e di brani più recenti rivisitati per le esigenze del violoncello giungevano dalla sala attigua, occultata da questo muro di ridanciani inebetiti dalle prodezze della propria prole e gioiosi delle sue scoperte ahimé affatto attinenti il pentagramma, il ritmo o la melodia.

Anche gli animi più propensi alla conciliazione e desiderosi solo d’assorbire quanto la musica può regalare possono in tali occasioni stonare e talvolta lo fanno di proposito, lasciando sia la mente, non l’istinto, non ancora sopita dalle vibrazioni delle corde, anzi impossibilitata a farlo, a dettar cos’è opportuno in quel contesto.

Perciò può succedere che, ricordando quanto appreso in gioventù, alla bocca giunga un sospiro, stretto fra i denti ma percettibile, quantunque non pronunciato in direzione del pargolo, ma volutamente a un’altezza tale che i genitori possano comprenderlo: «Se continui, bel bambino, ti strappo le braccine».

Quale mostro può aggirarsi impunito in una sala di musica, un siffatto pericolo per l’infanzia, denigrabile figura giacché non c’è cosa peggiore che rifarsela con i bambini!

E, si sa, son fragili e vulnerabili, una parola può scioccarli per la vita intera e roder la loro esistenza procurando ad essi traumi insuperabili, veri e propri tormenti, deformazioni del carattere e dell’equilibrio.

Eccolo l’abominevole individuo, e il putiferio ovviamente si scatenò sovrastando le note, dinanzi alle quali, compìto, Erode, finalmente poté chiedere silenzio. E dopo qualche istante l’ebbe, sì che la musica cominciò a risuonare.

Solo il bambino, imperterrito e del tutto ignaro di quanto fosse accaduto, continuò indisturbato a giocare: in tedesco spiele, in inglese play, come suonare.

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