In chat a Palo Alto
Se Gregory Bateson, Paul Watzlawick e gli altri studiosi della scuola di Palo Alto avessero potuto servirsi per le loro ricerche delle chat (chiacchierata in inglese) che Facebook, Messenger, WhatsApp e altri social mettono a disposizione, meglio di quanto hanno fatto, scrivendo ad esempio la Pragmatica della comunicazione umana, avrebbero potuto decifrare e rendere palesi a tutti i trabocchetti che anche inconsciamente attiviamo come apriamo bocca, digitiamo su una tastiera o manifestiamo con una smorfia, un sospiro, l’alzata di un ciglio, il posizionamento delle braccia conserte, tre puntini di sospensione.
Lo spreco di energie, la perdita di tempo, lo scemenziario, le contraddizioni, gli arruffamenti, l’ambiguità, gli ossimori, gli avvitamenti – di cui siamo campioni nel nostro relazionarci agli altri, e che caratterizzano i rapporti amorosi, familiari, lavorativi, sociali, politici, interpersonali – emergono tanto più evidenti rileggendo alcune “chiacchiere” fatte spippolando sul telefonino, o i commenti lasciati sulle bacheche di amici e conoscenti, dove addirittura il doppio significato di una parola usata senza preoccuparsi di trovare un sinonimo che non contenga quella possibilità di equivoco, può innescare furibondi fraintendimenti che facilmente sfociano in furibonde risse verbali, nelle quali addirittura ci si altera per la supposta “aria” con cui quelle frasi sarebbero state scritte, come se attraverso lo schermo alfabetico dinanzi al quale si è, fosse in grado di mostrare la mimica facciale o registrasse gli sbuffi di quello che sta all’altro capo della tastiera. E rendono manifesto quanto spesso sia facile proiettare sull’andamento di una conversazione che ha tutt’altro tono lo stato d’animo in cui uno dei due interlocutori si trova, al punto da suscitare una altrettanto alterata condizione dell’umore fino a dar vita ad una scherma dove le sciabole prendono il posto dei fioretti e i fioretti della capacità d’intendersi, della voglia di spiegarsi, del desiderio di trasmettere e dell’altrettanto naturale desiderio di comprendere ed accogliere.
Potrebbe dunque essere salutare per tutti la rilettura a distanza di tempo e scandendo bene le frasi di quanto solitamente si scrive di gran fretta, un battibecco frenetico e repentino, una ridda di botta e risposta praticata senza fiato e senza più la reale voglia di scambiarsi cose da dire.
È proprio la scomparsa delle “cose” ed il residuare del “dire”, anzi il suo prevalere, eccedere, sopraffare che dovrebbero emergere da un tale esercizio, il quale va fatto sempre servendosi della modestia, dell’autocritica, anche di un po’ di ironia e, soprattutto, riattivando – o attivando, qualora fosse stato assente fin dall’inizio – la voglia reale di comprendere chi ci sta dinanzi e non quella di sovrapporre a questa esigenza quella di affermare la propria personalità, i propri bisogni, le proprie mire.
Sia ben inteso: questo non comporta annullare la sensatezza di quanto si pensa di aver affermato per legittimare una logica altra che risulti difettosa alla propria. Può essere che al termine del riesame il verdetto resti immutato. Ma la pratica, e un po’ di pragmatica, di questo ripensamento, anzi di questa rilettura prima e del ripensamento poi, possono contribuire a sprecare meno energie, a non perdere tempo, a evitare di ricorrere allo scemenziario, alle contraddizioni, agli arruffamenti, all’ambiguità, agli ossimori e agli avvitamenti di cui siamo campioni nel nostro relazionarci agli altri, e che caratterizzano i rapporti amorosi, familiari, lavorativi, sociali, politici, interpersonali. Di tutti.