Numeri che parlano da soli

Non sono un esperto di economia e non maneggio bene la matematica, ma qualche pensiero riesco ad articolarlo vedendo dei numeri che parlano da soli.

Apprendo da un bell’articolo di Alessandro Gilioli pubblicato su “l’Espresso” nel dicembre dello scorso anno ­– Il reddito è il minimo, ma non basta – che una ricerca svolta qualche anno fa da Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne dell’università di Oxford ha messo in evidenza come «oggi le tre maggiori società della Silicon Valley capitalizzano in Borsa 1.090 miliardi di dollari con 137 mila dipendenti, mentre 25 anni fa le tre maggiori aziende manifatturiere americane capitalizzavano in tutto 36 miliardi di dollari impiegando 1,2 milioni di lavoratori».

Microsoft o Facebook non sono Chrisler o Black & Decker, ma “immaginiamo” per un attimo che quelle due cifre messe a confronto – 1.090 miliardi di dollari e 36 miliardi di dollari – siano la torta di ricchezza accantonata dai capitalisti americani a distanza di 25 anni, il 1992 e il 2017, siano essi anche spostati di qualche tempo.

La ricchezza di allora era il 3,3% di quella di oggi, il che sta a dire che c’è stata un’impennata del 3.027% nelle tasche dei nababbi. E questo è il surplus tolti gli stipendi devoluti ai propri dipendenti.

Se volessimo “immaginare” che nel 1992 i padroni delle ferriere avessero fatto i loro conti decidendo che ai loro dipendenti avrebbero concesso il 10% di quanto si aspettavano di avere come profitto – vale a dire 3,6 miliardi dei 36 che abbiamo detto hanno capitalizzato, per un fatturato quindi di 39,6 miliardi al netto degli altri costi vivi (materie prime, ammortamenti, ecc.) – nelle tasche di ciascuno di quei 1.200.000 lavoratori sarebbero andati 3.000 dollari.

Per quanto il costo del lavoro possa essere aumentato in questi 25 anni, supponiamo che sia triplicato e che oggi nella busta paga di un dipendente della Microsoft ci siano dunque 9.000 dollari, il cui potere d’acquisto dubito sia cresciuto.

Se così fosse oggi i padroni dell’informatica concederebbero ai loro 137 mila dipendenti  1.233.000.000 dollari, vale a dire lo 0,11% di quanto mettono in saccoccia, contro il 10% di quanto abbiamo ipotizzato i loro “padri” del manifatturiero mettessero a bilancio per i salari. Se avessero avuto ancora tra i piedi tutti i lavoratori di prima – 1,2 milioni si è detto – avrebbero dovuto cacciar fuori altri 9.567.000.000 dollari in stipendi: un risparmio di più dell’88%.

Se supponessimo che ancor oggi a chi rende possibili quelle mirabili performance – col sudore della propria fronte, sia speso facendo lavorare i muscoli o le meningi – destinassero il 10% di quanto capitalizzato, nelle tasche di 137 mila lavoratori andrebbero 109 miliardi, ovvero 795 mila dollari e spiccioli, a fronte dei 9.000 che abbiamo ipotizzato triplicando le buste paga in questo venticinquennio.

Messe a confronto le due cifre – il miliardo e 233 milioni di dollari equivalente allo 0,11% dell’accumulato contro i 109 miliardi “immaginati” rispettando il parametro iniziale del 10% – c’è stato un risparmio del 98,87%, essendo quella cifra l’1,13% dell’altra.

Supponiamo ad ogni modo che con 9.000 dollari all’anno in busta paga si campi decorosamente, diciamo si abbia di che vivere. Il che, lo sappiamo, è fittizio, ha senso nell’Occidente opulento. Ma prendiamolo come punto di riferimento.

Con i 1.090 miliardi di dollari messi in saccoccia dalla Banda Bassotti del 2017 si potrebbe dare un dignitoso stipendio – 9.000 dollari abbiamo detto – a più di 121 milioni di persone.

Invece no: solo yacht, ville, azioni e bond.

Si tenga presente: la decimazione è stata dell’876% in meno di lavoratori: dal milione e 200 mila del 1992 ai 137 mila del 2017: 1 milione e 63 mila persone sul lastrico, a sbattezzarsi pur di raccimolare qualche briciola. E ci sarebbe da mangiare non solo per loro, ma per altri 119.937.000.

Se quei 121 milioni di persone, poi, in uno slancio di generosità, riducessero del 30% i loro bisogni ed anziché campare con 9.000 dollari all’anno si accontentassero di 6.300 dollari, le persone che potrebbero contare a fine mese su una somma sufficiente a soddisfare i propri bisogni primari salirebbero a quasi 173 milioni.

Per completare il quadro è opportuno riportare quanto rivela il rapporto diffuso nel gennaio scorso, alla vigilia del World Economic Forum di Davos in Svizzera, dalla ong britannica Oxfam.

È cosa nota che tuttavia sembra non irritare nessuno, non suscitare alcuna indignazione; non trova sui social pari spazio a quello destinato alle sorti dei gattini o alle violenze sulle piante; e, soprattutto, non rivela quanto fragile sia la cosiddetta democrazia, di conseguenza innescando un moto sociale e politico teso a ristabilire ciò per cui intere generazioni, dai tempi di Robespierre almeno, si sono battute anche a costo della vita.

Il fatto è, stando a quel rapporto, che su questo pianeta 8 individui – in ordine Bill Gates, Amancio Ortega, Warren Buffet, Carlos Slim, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Larry Ellison, Michael Bloomberg, secondo la rivista “Forbes” – detengono la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone.

Essi possiedono da soli 426 miliardi di dollari, il 39%, circa 2 quinti, di quanto capitalizzano in Borsa dalle tre maggiori società della Silicon Valley, la megagalattica cifra di 1.090 miliardi di dollari da cui abbiamo preso le mosse.

Ora, questi 426 miliardi di dollari corrispondono a quanto detiene la metà più povera del pianeta, ossia appunto 3,6 miliardi di persone.

Ma ancor più significativo, stando sempre a quel rapporto, è che dal 2015 l’1% più ricco dell’umanità possiede più del restante 99%. E quando si va a votare, chissà perché, nessuno dice io sto nel partito del 99%. No: il 99% vota per l’1%. Strana democrazia.

Nel biennio 2015/2016 i profitti di 10 tra le più grandi multinazionali hanno superato quanto raccolto dalle casse di 180 Paesi del pianeta: 10 multinazionali, 180 Paesi. Ripeto: 10 multinazionali, 180 Paesi.

«Sette persone su dieci – scrive Luisiana Gaita nell’articolo del “Fatto quotidiano” da cui abbiamo tratto questi dati – vivono in luoghi dove la disuguaglianza è cresciuta negli ultimi 30 anni: tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno, mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto. Oggi un amministratore delegato delle 100 società più capitalizzate dell’indice azionario Ftse “guadagna in un anno tanto quanto 10mila lavoratori delle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh” spiega il rapporto Oxfam».

In Italia la situazione non è da meno: stando ai dati del 2016, l’1% più facoltoso della popolazione ha nelle mani il 25% della ricchezza nazionale netta. I primi 7 miliardari italiani posseggono una ricchezza superiore a quella del 30% più povero del paese. «L’1% più ricco del Belpaese – scrive ancora Luisiana Gaita – può contare su oltre 30 volte le risorse del 30% più povero e 415 volte quella del 20% più povero della popolazione. Per quanto riguarda il reddito tra il 1988 e il 2011, il 10% più facoltoso ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani».

La politica – che, sotto forma di Stato, ovvero sia di organismi dal popolo eletti, da quando Thomas Hobbes, Smith e Ricardo, per non citare facinorosi rivoluzionari, hanno indicato le regole del vivere insieme – sembra disinteressarsi dell’argomento, non reputa lecito porre regole, di tanto in tanto tampona con qualche assegno di conforto. Cosa sia la morale proprio pare ignorarlo. E ad ogni tornata elettorale… silenzio, nessuno che abbia qualcosa da dire: né in chi si candida, né in chi gli da il proprio voto. No meglio infervorarsi sul numero dei deputati e i loro vitalizi, assai più risolutivo.

Con questo cortocircuito nessuno pare volersi misurare. E se nel frattempo si tagliano servizi sanitari, scuole, centri di ricerca, musei o biblioteche, poco importa.

La soluzione di sparpagliare quei 1.090 miliardi di dollari dando un dignitoso stipendio a più di 121 milioni di persone e di ridurre ulteriormente la disparità tagliando i salari del 30% a favore di 173 milioni di persone prive di alimenti, andrebbe perseguita non pensando a vitalizi o assegni di disoccupazione. A ciascuno il suo compito, fatica equamente suddivisa. Certo, più tempo libero per tutti ed un grazie infinito alle macchine che hanno consentito di produrre più ricchezza con minor impegno lavorativo.

Le differenze di classe, volendole mantenere, si potrebbero vedere proprio lì: nella capacità di saper usare al meglio il proprio tempo libero. Starebbe probabilmente lì «la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra» che Alessandro Gilioli prende in prestito dal Faussone de La chiave a stella, di Primo Levi, per il quale, appunto, essa consisteva nel lavoro.

Lavorare bene, poco, tutti, soddisfatti del poco che c’è da fare facendolo bene, al meglio, senza l’ansia dello stipendio a fine mese. E poi potersi dedicare a leggere un bel libro o, magari, facendo l’amore. Altre ragionevoli «approssimazioni concrete alla felicità sulla terra»

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