Gli innominabili

Degli anonimi ho già avuto occasione di scrivere in questo blog (vedi 16 marzo 2010 e  17 aprile 2010). Ora vorrei invece parlare di un’altra categoria altrettanto sfuggente: gli innominabili. È noto a tutti che la descrizione più dettagliata di tale carattere ce l’ha data Alessandro Manzoni, tratteggiando un personaggio perfetto.

In entrambi i casi, è evidente, trattasi di persone che non potrebbero essere assoldate dal recentemente scomparso Josè Saramago per il suo bel romanzo Tutti i nomi, rispetto al quale Pasquale Mennonna, da lettore accanito, dice io abbia qualche debito di riconoscenza, che – per carità – son pronto a onorare.

Non voglio qui parlare d’un personaggio realmente esistente ribattezzato con siffatto nome o con le ultime cifre del suo numero di telefono per non pronunciarne le generalità anagrafiche, quelle ascritte nell’apposito registro al momento della nascita, in virtù di una presunta e ovviamente falsa superstizione, secondo la quale dirlo equivale a scatenarsi addosso una qualche maledizione la cui provenienza è incerta ma comunque sovrastante le nostre teste. Condivido il razionalismo di Piergiorgio Odifreddi e non credo a tali baggianate, ancorché pensi che dal summenzionato individuo meriti tenersi quanto più alla larga, ma per evitare le pessime caratteristiche che lo identificano quasi più d’un appellativo di battesimo o d’un cognome afferente una gènia.

Vorrei accennare invece a chi vorrebbe ritrarsi nell’ombra dopo esser stato alla luce ed averla soffusa, o meglio, di chi ritrattosi nell’ombra, pretende che anche gli altri eclissino il sole per impedirne la traccia visiva sul suolo terrestre, se vi si è frapposto un ostacolo. Non va così il mondo, il quale si desta tutte le mattine rischiarato da un altro pianeta che compie un semicerchio in cielo, finché stanco, al tramonto, non si ritrae ad Occidente, lasciando spazio alle tenebre, alle stelle da cui hanno tratto origine i nostri desideri, e a quel piccolo satellite assai femminile e umorale che risplende di luce non sua.

Abbiamo inventato gli interruttori coi quali la luce si può accendere e spegnere, ma di qui a ritenerci creatori del mondo e padroni anche della luce naturale oltre che di quella elettrica, ce ne corre. Pensarlo è un bel delirio, ed è chi li ha che se li deve far passare, non c’è santo che tenga.

Io credo che ognuno di noi abbia diritto, o perlomeno gli possa essere inevitabile, di crear nel proprio immaginario miti, tabù, idoli. Si possono avere anche avendo la consapevolezza che di questo si tratta, riconoscendoli come tali e non come apparizioni che, solo perché risultano reali, tali sono. Sono fantasmi o proiezioni della nostra mente e così vanno accolti, senza nulla togliervi ma nemmeno aggiungervi. In questo lavorio mentale è possibile e consentito anche porsi dei limiti che impediscano di proferire una parola, un nome, un luogo, un odore, un ricordo. Son costrizioni alle quali ci si sottopone liberamente e perciò non risultano tali. Talvolta meritorie e rispettabilissime, ma stanno in interiore homine.

Esportarle nel mondo equivale ad inquinarlo, a cospargerlo d’una cappa che non c’è, d’un pulviscolo inesistente, di riverberi spettrali. E, ciò nonostante, anche questo ci regala la vita. Non resta che accoglierla.

Per finire: è uno dei dieci comandamenti che dice agli uomini di «non nominare il nome di dio», precisando di «non nominarlo invano». In alcune religioni è proprio la prima parte quella più valida: è impronunciabile, irrafigurabile, né si può invocarlo. Sono convinto che gli uomini abbiano inventato le divinità e la religione, non viceversa, e questo spiega il motivo psicologico di chi, avendo a disposizione il linguaggio e la parola, tenta in qualche maniera di vincolarle o porle delle restrizioni. Il troppo di significato può essere una delle peggiori malattie dell’anima, così come, dall’altra, il troppo poco, l’assenza. Ci inventiamo i nostri giochi, e quando non siamo più capaci di giocarli, li voliamo dal tavolo, come fossero loro i responsabili della nostra noia e della nostra incapacità. In realtà le cose non vanno così.

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