Idee politiche, in vista delle elezioni

Fra una decina di giorni si vota e nessuno è venuto a chiedermi di votare per lui. A nessuno interessa, dunque, il mio voto e, come avviene per me, presumo avvenga per chiunque altro. Ne desumo perciò che ai 42 partiti che si presentano alle elezioni dopo una nauseabonda, pluridecennale, ingegneristica diatriba sulla governabilità, i premi di maggioranza e i pregi del bipolarismo, non interessi il voto di tutti quelli che vanno a votare.

Danno probabilmente per scontato che quanto si ascolta in televisione nei telegiornali e nelle trasmissioni tritapensiero sia sufficiente a costruire il consenso e che il volto dei loro leader sorridenti impresso sui manifesti affissi per strada riveli tutto delle loro reali intenzioni e perciò induca a sceglierli.

Se nessuno ha suonato al campanello di casa mia oggi che si tratta di trovare il numero di voti sufficiente ad essere eletti nei due rami del parlamento e, di conseguenza, a tentare di entrare nelle stanze dalle quali nei prossimi cinque anni si dovrebbe gestire il potere, è facile immaginare che nessuno verrà a suonare al mio campanello il giorno che si dovrà decidere se entrare in guerra o meno, se dare potere illimitato al principe, se ridurre la pensione di cui campo, se escludermi dalle cure mediche di cui ho necessità, se cacciare il mio amico di colore a cui compro spesso i fazzoletti di carta sperando che serva a garantirgli di che mangiare.

Così ridotta la politica non ha nemmeno diritto di chiamarsi con questo nome che è cura della polis ed attenzione alla comunità, mediazione dei conflitti sociali ed esercizio responsabile del governo della cosa pubblica.

Ho letto alcuni interessanti e scoraggianti articoli intorno ai quali farebbero bene a riflettere quanti si sbracciano, con una energia degna di chi fa uso di cocaina, per restare o entrare sulla scena di questo circo Barnum della politica impolitica. Ma che ancor più farebbero bene a leggere quanti, come me, si sentono scontenti di come stanno andando le cose e temono per se stessi e per gli altri che il futuro prossimo possa essere peggiore di com’è il presente e di come sono stati gli anni addietro. A leggere, a rifletterci sopra, a trarne delle conclusioni ed in base ad esse ad agire, ad organizzarsi, a darsi da fare, a rinunciare ad un pezzo del proprio tempo per dedicarlo ad una attività che sia comune e condivisa, compartecipata, mirata all’interesse comune oltre che al proprio o meglio a quello in quanto anche proprio, conditio sine qua non nemmeno il proprio è possibile. A non attendere che sia qualcun altro a proporlo o ad innescarlo, tanto meno che lo faccia qualcuno dall’alto, ma tentare in proprio, autonomamente, quasi per istinto, come probabilmente è avvenuto 50 anni fa in quell’appena celebrato 1968 su cui sono stati scritti milioni di sciocchezze.

Fu 7 anni prima di quell’ondata che, insediandosi alla Casa Bianca il 20 gennaio 1961, John Fitzgerald Kennedy pronunciò quel celebre monito a cui merita ancora ispirarsi: «Ask not what your country can do for you; ask what you can do for your country», non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese.

Di questo c’è bisogno oggi: di una spinta generosa ed appassionata, di una rivolta contro quell’indifferenza che Antonio Gramsci stigmatizzava in un articolo del 26 agosto 1916 nella rubrica “Sotto la Mole” de “l’Avanti!”, intitolato L’indifferenza, di cui ne dà conto Gian Luca Corradi nel libro sull’attività giornalistica del fondatore de “l’Unità” pubblicato da TESSERE: «Ciò che succede, il male che si abbatte su di tutti, il possibile bene che un atto di valore generale può generare, non è tutto dovuto all’iniziativa dei pochi che fanno, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa dei cittadini abdica alla sua volontà, e lascia fare, e lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada può tagliare, e lascia salire al potere degli uomini che poi solo un ammutinamento può rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia è appunto l’apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo».

Fu quella stessa indifferenza che fece chiudere gli occhi a tutti quelli che vedevano carri bestiame stipati di essere umani diretti in campi di annientamento rendendo possibile lo sterminio di 6 milioni di ebrei e di altri 11 milioni di persone.

Dinanzi a ciò che appare come destino o fatalità – aggiungeva Gramsci – o come «un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo, chi indifferente», l’ignavo «si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe che apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli è irresponsabile. E alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno, o pochi, si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere di uomo, se avessi cercato di far valere la mia voce, il mio parere, la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno, o pochi, si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro appoggio morale e materiale a quei gruppi politici ed economici che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. Costoro invece preferiscono parlare di fallimenti di idee, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Continuano nella loro indifferenza, nel loro scetticismo. Domani ricominceranno nella loro vita di assenteismo da ogni responsabilità diretta o indiretta».

Concludeva l’uomo che ha pagato col carcere, e la vita, il suo esser partigiano e non piegarsi all’indifferenza: «bisogna perciò educare questa sensibilità nuova, bisogna farla finita con i piagnistei inconcludenti degli eterni innocenti. Bisogna domandar conto a ognuno del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. Bisogna che la catena sociale non pesi solo su pochi, ma che ogni cosa che succede non sembri dovuta al caso, alla fatalità, ma sia intelligente opera degli uomini. E perciò è necessario che spariscano gli indifferenti, gli scettici, quelli che usufruiscono del poco bene che l’attività di pochi procura, e non vogliono prendersi la responsabilità del molto male che la loro assenza dalla lotta lascia preparare e succedere».

E veniamo dunque agli articoli che meriterebbe leggere per farsi un’idea di cosa è indispensabile fare acciocché si esca da questo pantano in cui ci si è infognati. Proprio di pantano parla Pietro Spataro in un editoriale pubblicato da “Strisciarossa” – quel che ne rimane del collettivo che animò “l’Unità” a fianco di esperienze analoghe com’è proprio TESSERE o “Succedeoggi” o altre testate ideate da ex colleghi di quel giornale – intitolato Le destre vincono senza l’argine della sinistra. Lì Spataro accusa la sinistra di non aver saputo contrapporre, al «mix di individualismo proprietario, egoismo sociale e leaderismo sfrenato», «un’altra narrazione, un’altra idea di società», di aver perso «la battaglia per l’egemonia».

Idee farlocche, prese in prestito da altri, o peggio ancora scimmiottate senza avere il Dna del venditore di tappeti o del banditore di professione, se non addirittura l’assenza completa di idee, il vuoto di fantasia, la mancanza di progettualità, il difetto di ciò che distingue fin da principio la migliore delle api dal peggiore degli architetti: «il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera», com’ebbe a scrivere Karl Marx nel primo libro de Il Capitale. Ovvero quanto gli permette di realizzare «il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare e al quale deve subordinare la sua volontà».

Conclude giustamente il suo ragionamento il direttore di “Strisciarossa” – sperando che tanto il suo quanto il mio non siano l’ennesimo pietoso piagnucolio mirato a rifarsi un’innocenza ormai tardiva – che «comunque vadano le elezioni, si tratterà di ricominciare. Ma per ricominciare bisogna essere consapevoli – e lo devono essere tutti gli attori del centrosinistra dell’ultimo ventennio – del disastro che non si è contrastato abbastanza e che in alcuni casi si è contribuito a creare. Perché per ricostruire bisogna sapere dove e quali pietre scegliere, come e dove portarle e in che modo sistemarle una accanto all’altra, una sopra l’altra. Bisogna sapere che la nuova casa da tirare su non può essere uguale a quella della destra, ma nemmeno a quella della sinistra nella quale abbiamo abitato finora. Serve un progetto diverso. No, non basta più una semplice ristrutturazione: l’edificio è ormai pericolante».

Del tragico vuoto pneumatico a cui si è accennato, dà conto Stefano Monti in un articolo intitolato Il paradosso della nostra politica: sempre più statica mentre le nostre vite sono guidate dall’innovazione, pubblicato su “Linkiesta” il 19 febbraio scorso.

Monti giustamente parte dalla constatazione che le elezioni di marzo saranno «la prima volta che gli italiani avranno la possibilità di esprimersi dopo anni di governi tecnici». È bene ricordare che l’attuale presidente del consiglio, Paolo Gentiloni, è il quarto – prima di lui Monti, Letta, Renzi – nominato dal Capo dello Stato senza che sia stato indicato come candidato premier dalla compagine politica che lo sostiene, la quale alle ultime politiche, piaccia o non piaccia, aveva insignito Pier Luigi Bersani di tale compito. Ed è altrettanto opportuno rilevare quanto stolta e perniciosa sia la pervicacia nell’affidarsi, nell’era in cui appunto si va disdicevolmente a votare, anziché per un simbolo, i programmi che esso propone e le idee di cui si fa portatore, per una faccia, per un “homo novus” che in quanto “novus” rischia di portare con sé tutto il bagaglio della propria inesperienza, senza che perciò si debba sottostare all’inossidabilità di talune prime donne.

Saranno «la prima volta che gli italiani avranno la possibilità di esprimersi dopo anni di governi tecnici» e tuttavia avranno luogo senza che gli schieramenti partitici abbiano impiegato tutto il tempo concesso loro in dotazione «per prepararsi nuovamente alla “lotta per il consenso”» e «per consolidare visioni di medio periodo».

Tutti i partiti, scrive Monti, «si sono ripresentati agli elettori con le medesime proposte parcellizzate con cui si erano proposti qualche anno fa. I temi sono sempre i soliti: immigrazione, pressione fiscale, aumento dell’occupazione, riduzione del debito pubblico».

Ed aggiunge: «Nessuna delle proposte sembra tuttavia essere sviluppata a partire da una visione del Paese, inteso nella sua interezza; […] ciò che manca è proprio una proposta complessa e complessiva. Sembra che i nostri dirigenti abbiano completamente disimparato il significato di Governo. Governare significa indicare una strada e percorrerla. Significa sì, conoscere gli strumenti, ma significa altrettanto conoscere la rotta e la destinazione. Oggi la politica manca di questa visione».

Gli fa eco, sempre su “Linkiesta” Francesco Cancellato che lo stesso giorno ha pubblicato un articolo intitolato Giochiamo ai fascisti e agli antifascisti perché non ci è rimasto nient’altro. Ed è questo il vero problema.

Cancellato sostiene che il ricorso «a feticci e psicosi del passato», in sostanza alle argomentazioni che suscitano il timore per il rischio del riaffacciarsi di atteggiamenti e pratiche fasciste da un lato e per il pericolo rosso dall’altro, la riproposizione di un’emergenza legata alla vulnerabilità dell’ordinamento democratico quale lo conosciamo, il ricorso nuovamente alla teoria degli “opposti estremismi” impiegata negli anni di piombo del terrorismo in Italia, mascheri il vuoto politico-culturale imperante e sia «l’unico modo per polarizzare un po’ l’elettorato, per dare dei riferimenti identitari in assenza di proposte politiche».

Ed è proprio qui il cuore della riflessione di Cancellato: «A monte di tutto – scrive –, il problema è proprio qua. Che non c’è nessuna elaborazione culturale, nessuna comunità politica, dietro nessuna delle liste che si presentano al voto, né dietro a ciascun programma elettorale, buono o cattivo, realizzabile o meno che sia. Nessuno che sia stato in grado di dare voce alla questione generazionale, o a chi ha perso il lavoro per colpa di un algoritmo, o alla desertificazione economica di alcune aree del Paese – una a caso? Macerata. Così come nessuno, al pari, è stato in grado di indicare un orizzonte cui tendere – l’Europa politica, un nuovo modello economico fondato sulla conoscenza – e un mezzo per arrivarci, dalla scuola alla nuova manifattura, dalla sanità all’economia verde. Ciò che manca è causa di ciò che rimane, inevitabilmente. E se tutto ciò che rimane è una pantomima del ’45 e del ’68, vuol dire che manca davvero tutto. Comunque vada il 4 marzo, è da qui che bisogna ripartire».

L’ultima sua frase è pressoché identica a quella impiegata da Spataro: «comunque vadano le elezioni, si tratterà di ricominciare». E da qualche parte, effettivamente, è proprio dopo quella data –  qualunque sia lo scenario che si prospetta all’indomani di quelle che Monti ha giustamente definito la prima tornata elettorale nella quale «gli italiani avranno la possibilità di esprimersi dopo anni di governi tecnici» – che bisognerà ripartire, che si tratterà di ricominciare.

Uno scenario possibile lo illustra, nuovamente su “Strisciarossa”, uno dei direttori che, a fronte di un seggio in Parlamento, hanno contribuito ad affossare per la prima volta “l’Unità”, Peppino Caldarola, chiaro fin dal titolo – E se si tornasse all’opposizione? – a non prendere neanche in considerazione che sinistra e centro sinistra ce la possano fare a strappare una maggioranza.

L’idea tuttavia non è affatto peregrina, perché se è vero, come ha sapientemente spiegato molti secoli fa Nicolò Machiavelli, che è scontato battersi per vincere e fare di tutto perché ciò avvenga, altrettanto vero è che barattare le proprie convinzioni, il proprio codice genetico, ciò per cui si decide di mettersi insieme e provarci, pur di stare al vertice del comando, ed a qualunque costo ed anche succubi di qualsivoglia ricatto, non solo è ignobile, ha vita breve e alla lunga dilania chi sottostà a un simile giogo e le stesse regole del gioco, col risultato che la moglie è ubriaca, la botte vuota e in discussione la stessa vendemmia dell’anno a venire.

Fra caldeggiarla prima d’aver venduto cara la pelle dell’orso – come fa Caldarola che ha fatto anche il portaborse del peggior governatore che non solo la Toscana, ma l’intera Italia abbia mai avuto – e rassegnarvisi ad urne chiuse o averne perorato i pregi ben prima dell’inizio della campagna elettorale, ce ne corre e non rivela le sincere intenzioni di chi lo fa, tanto che il proposito è talmente pallido da tingersi dei colori del New Deal rooseveltiano anziché di quelli della rivoluzione leninista – sia mai! Non avessero a spaventarsi le masse – e sembra mirare solo al rapido ritorno alle urne, si liberasse mai un posto fra le candidature della nuova tornata, una volta presa la sberla. «Una opposizione fatta come si faceva un tempo», perora Caldarola senza spendere una parola su cosa c’era un tempo che rendesse possibile quel far opposizione.

E tuttavia la sua idea ha del sensato per una formazione che davvero volesse, della propria condizione minoritaria e quindi oppositrice, far la forza del proprio protestare, votare contro, smascherare i reali intenti dell’avversario.

È condizione bolscevica quella di portar tale peso, tanta fatica e poco arrosto, come ha fatto il Pci per trent’anni della sua storia, niente fetta di torta da spartire, solo lavoro di gomito, tanta passione, ideali che ti guidano, la convinzione che ci si guarda allo specchio al mattino convinti d’aver fatto il proprio dovere.

Ingredienti basilari di una formazione che intendesse riempire non della prima cosa che capita a tiro quel vuoto abissale nel quale si è immersi, altro che quattro slogan messi in croce all’ultimo minuto consultando l’ennesimo esperto di marketing a cui si garantirà in futuro un posto nel consiglio d’amministrazione della Rai.

Di questa penuria, di questa desolazione, di questo deserto dà idea l’articolo già citato di Stefano Monti.

Premette che la creazione dell’Unione Europea ha prodotto «un incremento esponenziale (sic) della burocrazia», condizionando in tal senso lo stesso universo della politica che proprio di questo tema ha a lungo dibattuto, senza mai riuscire a porvi rimedio, pur avendo la facoltà di legiferare anche su ciò.

Ma, procedendo, mette alla berlina «la mancanza di idee», non «la mancanza di conoscenza tecnica», di quei voluminosi e certamente costosi report commissionati ad altisonanti “High-Level Task Force”, sostituti moderni e bocconiani di quelli che un tempo erano gli intellettuali ed ora sono stati ribattezzati “think tank”, affaccendati sudditi assurti al ruolo di ufficiali di complemento a patto che, a differenza degli intellettuali di un tempo, non pensino e pertanto non rompano le scatole, giacché nel pensare quel rischio è connesso per natura.

Risme e risme di carta accatastata lì negli scaffali senza che vi ci si metta dentro il naso o accorgendosi che, una volta messo lì il naso, non vi si è trovato niente di più e niente di meglio di quello che si è imparato in un libro di scuola o in un classico del pensiero o della letteratura.

La disamina è impietosa, i dati ci sono, precisa Monti, ma quello che ci si sarebbe atteso da organismi di così alto profilo «per migliorare le condizioni di vita dei cittadini europei», non c’è, solo ovvietà e in un linguaggio, viene da aggiungere, che fa rabbrividire. Sono proprio le idee a mancare, l’analisi e le soluzioni praticabili.

Nulla di grave – allarga le braccia Monti – «un’altra goccia di ovvietà in un mare di affermazioni scontate e lapalissiane, ma se non cambiamo la rotta, se non iniziamo a pretendere […] un lavoro in grado di influenzare davvero la nostra politica, il ruolo della nostra classe dirigente si fermerà semplicemente a ripetere le cose sulle quali si aspettano converga il consenso dei cittadini, in una spirale al ribasso della qualità della nostra politica e del nostro Paese».

Quello che sfugge, in questo scenario – prosegue Monti –, «è che il consenso va creato, non ricercato». Non si può perdere, come ha sostenuto Spataro, «la battaglia per l’egemonia»; soprattutto non si deve perdere la voglia e la convinzione di cimentarsi con quella battaglia. Ma allora quello che si propone dev’essere meglio, ma davvero meglio di quello che propongono gli avversari.

Monti la spiega molto bene guardando al mercato: «se le aziende finissero con il riproporre al mercato soltanto le cose che già piacciono vivremmo in un mondo di prodotti fotocopia, dove l’unica cosa che conta è il prezzo che dovrà essere sempre più basso».

Ad aver successo, invece, «sono quei prodotti che innovano e migliorano la vita delle persone. Apple è cresciuta grazie ad un’innovazione, IBM, Alibaba, Amazon, Google, ma anche settori diversi da quello tecnologico come la Bic, le graffette per reggere i documenti, l’azienda che per prima ha prodotto la nuova linguetta di chiusura sicura per tutte le bevande».

Ma la politica, incurante, opera in quel modo, guardando al prezzo sempre più basso, fottendosene dell’innovazione. Ed anche di me che dovrò andare a votare il 4 marzo senza che qualcuno sia venuto a suonare al mio campanello. Oh, sì, non sto a chiedermi cosa potrà fare la politica per me: ho appena suonato io al mio campanello ed anche a quello di qualche vicino. Siamo già una decina. E il nostro voto non sarà per voi.

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