La confusione sotto il cielo
«Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente», diceva Mao Tze Tung e la mia generazione – tacciata di tutti i mali che oggi affliggono la Terra, come se non avesse tentato di far andare le cose in un’altra direzione (che poi sia stata sconfitta ed abbia dovuto capitolare è altra cosa) – ci ha creduto.
Oggi, senza dubbio alcuno, grande è la confusione sotto il cielo. Il rischio che attecchiscano idee nostalgiche di un’epoca foriera per l’Italia solo di guerra, violenza, intimidazioni, esiste ed esiste il rischio che si trasformino da idee in fatti, in realtà. Si tingerebbero forse di sfumature diverse, ma non meno disastrose ed ignobili.
C’è poi il rischio di una deriva falsamente moralizzatrice, fatta solo di spontaneismo e malcontento, una sorta di catarsi rigeneratrice che non promette però niente di costruttivo, solo l’affossamento di quello che c’è. Idee zero, solo la distruzione delle idee.
E c’è il rischio, non meno letale, dell’ipocrisia, del trasformismo, dell’ibrido torbido dove l’apparenza differisce di gran lunga dalla sostanza delle cose. È quanto abbiamo recentemente sperimentato.
Dunque la confusione sotto il cielo è grande. Che vinca la destra estrema, che avanzi il populismo, che si faccia il pastrocchio. È eccellente la situazione? Affatto. E tuttavia bisogna trovare il modo perché lo diventi. Bisogna immaginare scenari diversi. Forse non oggi, forse non domani, e neanche dopo domani. Ma a un certo punto sì. Altrimenti tanto vale mandare tutto al diavolo, pagandone tutte le conseguenze.
L’Italia ha bisogno di democrazia. Di democrazia vera. Non ingegneristica, non formale, non solo apparente. Ha bisogno di maggior equità sociale, di una diversa distribuzione della ricchezza, di spezzare i privilegi, di ridar fiducia ai giovani.
E la democrazia ha bisogno di partiti che la facciano funzionare, non di comitati elettorali che la esautorino. Di partiti che funzionino per tutto il tempo della legislatura, non solo nei 45 giorni prima dell’apertura delle urne. Di partiti dove si possa decidere chi rappresenta chi e dove si possa cacciare chi non rappresenta più. Di luoghi dove si possa discutere davvero, e lì prendere delle decisioni, non solo lasciare uno sterile post. Di persone che pensino prima di scrivere o parlare, e che prima di pensare studino, leggano, sappiano. E che quando scrivono o parlano sappiano farlo. Non di persone che siano belle e fotogeniche. Di persone che non parlino ma sappiano dove mettere le mani, abbiano delle competenze in materia. E solo un partito può mettere insieme rappresentati, rappresentanti, competenze, doti, qualità. I cartelli elettorali non hanno questa capacità.
Se questo partito non c’è prima delle elezioni o è ancora troppo immaturo, è indispensabile che nasca il giorno dopo le elezioni, quando i comitati elettorali si sciolgono. Può anche essere un partito di minoranza, che perciò sta all’opposizione, ma che in quanto opposizione alimenta la democrazia. Anzi, la ricostituisce. La ri-costituzionalizza. Le restituisce il senso della legalità che si è perso, il senso dello Stato che si è perso, il senso della comunità che si è perso. Che, sull’altare di questi valori – la legalità, lo Stato, la comunità – rinuncia a tutte quelle abitudini che, pur di stare al governo, mettono in discussione la legalità, lo Stato, la comunità.
Il consenso è difficile da conquistare. Ed ancor di più da conservare. E l’alternativa ad esso è solo una velata forma di totalitarismo. Quello a cui ci siamo abituati negli ultimi vent’anni almeno.
Grande è la confusione sotto il cielo. Potrebbe anche essere una situazione eccellente. Che è nelle mani di ciascuno. Della mia generazione e di quelle venute dopo.
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