La politica ritrovata. XX. Tracce di rivelazione
XX. Tracce di rivelazione
Abbiamo fatto cenno alle riflessioni di Asor Rosa sull’Apocalissi e il destino dell’Occidente dopo la guerra del Golfo. Ci sono in quel libro argomentazioni che possono essere preziose per chi voglia tentare di dar vita a un nuovo paradigma della politica.
Già nell’introduzione ci mette dinanzi al rischio che corriamo di restare attoniti, paralizzati, inoperativi. Scrive:
Io non dico: non è più possibile operare. Io dico: non è più possibile operare, se alcune condizioni preliminari e profonde, anche pre-politiche, non sono ripensate e ricostruite[1].
Un nuovo paradigma politico è per lui tanto indispensabile da costringerci, nel caso non lo si trovi, all’inazione, all’assistere passivi a uno sconvolgimento di immani proporzioni.
C’è convergenza con il Revelli che scrive: «sarebbe una sconfitta, per tutti»[2].
Asor Rosa, anzi, sostiene che
siamo – tutti – sconfitti in partenza. Il problema è sapere se ci sarà un’altra storia dell’uomo, dopo quelle che già ci sono state, perché quello che vediamo non ce lo garantisce. E perché ci sia un’altra storia dell’uomo, – è la nostra tesi, – bisogna che gli uomini, i singoli uomini, riacquistino il possesso del proprio pensiero. [...] Per far questo occorre saper essere al tempo stesso soli e insieme, sconfitti ma vincitori. L’Occidente può concepire la propria autentica realizzazione solo se è in grado di concepire la propria dissoluzione. Questo è il compito che ci sta davanti: obbligare l’Occidente a vedersi, e dunque aiutarlo a dissolversi[3].
L’Apocalisse, infatti, prima che distruzione totale, è rivelazione. Ma «Solo gli studiosi potrebbero usare fra loro il termine “apocalissi” nel senso originario di “rivelazione”: la maggior parte della gente, quando sente parlare di apocalissi, pensa alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki o ai campi di sterminio nazisti»[4].
Il «senso» impresso da Giovanni su tale termine – spiega Asor Rosa – «ha prevalso su quello precedente»[5].
Ora, è precisamente per l’uso fattone da Giovanni, e per l’accentuazione drammatica messa fin dall’inizio, – quasi in epigrafe, – dall’Apostolo sulla portata e sui “tempi” del messaggio da lui lanciato, – “Apocalypsis Jesu Christi quam | dedit illi Deus palam facere servis suis | quae oportet fieri cito” (Ap. 1.1), – che il senso originario della parola, – “rivelazione” – si è trasmutato in quello di profezia, illuminazione catastrofica o, appunto, “apocalittica”[6].
Tale accentuazione drammatica è dovuta al fatto che Giovanni, all’incirca sessant’anni dopo la morte del Cristo, «è solo, è un sopravvissuto. La sua memoria è l’unica che possa ricordare l’evento. [...] La rivelazione del futuro è dunque, innanzitutto, contemplazione intensissima, straordinariamente concentrata del passato»[7].
L’apostolo «vede» che «la radice ebraica del verbo cristiano si è dissolta, il “popolo eletto” comincia il lungo esilio, che sarebbe finito solo diciannove secoli dopo»[8].
La sua profezia, dunque, «è un ponte lanciato tra passato e futuro sopra il mare tempestoso dell’avvilimento, della frustrazione e della disperazione»[9].
O, come scrive più avanti, spesso la profezia «non è che la proiezione simbolica al futuro di un rimasticamento di elementi della memoria del passato»[10].
E il valore di questa profezia è quello della testimonianza: «Non si vuole mica descrivere attraverso di essa il futuro punto per punto. Si vuole testimoniare soprattutto che la storia ha un senso e che questo senso dipende essenzialmente dal modo con cui “ci disponiamo” ad interpretarlo»[11].
È molto importante anche il fatto che Giovanni, «quando “vede morte”, la “vede” fondamentalmente sotto forma di “guerra” (terremoti e altri cataclismi naturali fanno parte indubbiamente dell’“apocalissi” giovannea, ma la loro funzione è secondaria)»[12].
E noi sappiamo, per quanto Giovanni non pensasse a questo, che la guerra è negazione della politica.
Guerra, morte e distruzione che colpiranno «senza distinzioni di sorta» i giusti e gli ingiusti, i Giobbe e i non-Giobbe, «come accade, appunto, nel caso di un temporale o di un terremoto o del fuoco di una stella, che precipita sulla terra»[13].
Così «L’Apocalissi-rivelazione diviene la rivelazione-catastrofe, perché Giovanni è persuaso che la legge imponga all’umanità un prezzo – altissimo – per “risarcire” la sanguinosa redenzione»[14].
Asor Rosa sostiene che «Fa parte della nostra spiritualità occidentale, – e l’apporto giudaico-cristiano è in questo caso, come si vede, determinante, – concepire gli uomini, – e concepirci, – come creature dell’agonismo, della lotta, della vittoria e, conseguentemente, della punizione e della sconfitta. L’apocalissi interiore vale, quanto a terribilità, quella esterna»[15].
Se ne dovrebbe perciò dedurre che l’uso della forza, e quindi il ricorso alla violenza, e infine, la tendenza all’omicidio o all’eccidio sono dunque connaturati alla nostra condizione, e dovremmo chiederci però, se di uomini o di occidentali. E conseguentemente se sia effettivamente possibile sottrarci a un tale destino, a un qualcosa che «fa parte della nostra spiritualità occidentale».
Asor Rosa ci ricorda che «i massacri son di fronte ai nostri occhi, – e noi non li scorgiamo»[16], perché anche oggi «“nemo dignus inventus est aperire librum nec videre eum”. Il libro, anzi i nostri libri, anche quelli del passato, si sono tutti richiusi. Il processo è andato così avanti, che non abbiamo più “cultura” per leggerlo ed interpretarlo. L’apocalissi ci scorre sotto gli occhi ogni giorno, – e non ce ne avvediamo. Tutto, in fondo, è così semplicemente e sovranamente chiaro, – e tutto è così indecifrabile ed oscuro. Siamo di fronte al caso veramente straordinario di una “rivelazione non rivelata”»[17].
E aggiunge: «[...] siamo entrati in quella fase della storia dell’uomo, in cui tutto è possibile, anche l’Apocalissi. Un’Apocalissi endogena, se non esogena, un’Apocalissi che vien da dentro e s’allarga verso il fuori, a cerchi concentrici sempre più larghi, invece di essere il frutto di un immane potere esterno: con effetti, però, non dissimili»[18].
Naturalmente ciò è indimostrabile, dal momento che la profezia «è quel tipo di discorso umano, che, diversamente da tutti gli altri, non può fondarsi su nessun riscontro obiettivo. Persino il discorso poetico è, da questo punto di vista, più “realistico”»[19].
Eppure «“Dimostrazione”, – cioè, in ultima analisi, “storia”, sia pure vissuta secondo uno schema escatologico, – e “rivelazione”, – cioè, verbo che discende direttamente da Dio, – sono dunque legate da un nesso inscindibile [...]»[20].
Tale indissolubile nesso c’è anche tra «testimonianza» e «martirio», dove il secondo termine è la forma più propria del primo[21]. Ora, la sconfitta della testimonianza e la morte dei testimoni sono, a giudizio di Asor Rosa, la conferma «che esiste un “accordo”, se non proprio un patto, una specie di “sintonia”, una risonanza concorde, fra il Principio del Male e la storia dell’uomo»[22].
Secondo Agostino che – spiega Asor Rosa – fa parte della triade apocalittico-pessimista cristiana a cui appartengono anche Giovanni e Paolo, «bisogna rassegnarsi all’idea che, per un certo periodo, assisteremo all’impero dell’Anticristo sulla Chiesa, e che in sostanza non ci sarà Giudizio universale, ossia Redenzione finale ed eterna dei buoni, se prima, sulla terra, il maligno non avrà dominato»[23].
Ma «il ritmo dello scontro che contrappone i principî del Bene e del Male è ondivago, non segue una linea retta, non ubbidisce ad una logica eticamente giustificabile. Si tratta piuttosto di sommovimenti giganteschi [...], che non escludono rovesciamenti repentini e apparentemente inspiegabili»[24].
E «la “forma” che Giovanni imprime alla lotta fra i due principî del Bene e del Male è precisamente una “forma di guerra”»[25].
Asor Rosa si sofferma anche sul significato che l’ebraismo ricopre per l’Occidente. Esso, dice, «nella sua essenza è puro Oriente»[26]. Ed ha saputo attivamente, vigilmente, praticamente resistere.
a quell’assimilazione, che l’Occidente ha sempre preteso come forma concreta di un vero e proprio atto di subordinazione, – subordinazione culturale, ideologica, comportamentale, – ai modelli di potere dominanti.
L’antisemitismo non è una forma qualsiasi di razzismo, [... è], piuttosto, il terrore, folle, cieco e violento, che la ragione umana prova di fronte alla materia intelligente che osa resisterle: come il desiderio di cancellare il proprio limite, il limite della propria sconfinata volontà di potenza (che è appunto il più tipico e diffuso “delirio dell’Occidente”)[27].
Aggiunge, anzi:
L’ebraismo, infatti, ricordava all’Occidente il suo limite, anzi, più che ricordarglielo, glielo imponeva, glielo metteva continuamente sotto gli occhi[28].
Ma ecco l’ipocrisia occidentale:
Dopo l’Olocausto l’Occidente ha riconosciuto la propria colpa nei confronti dell’ebraismo. Il risarcimento, tuttavia, è consistito essenzialmente, non nel riconoscere e legittimare il valore del limite e il principio di contraddizione portati dall’ebraismo in seno all’Occidente, – perché questo avrebbe davvero significato un’abiura rispetto al principio sciagurato secondo cui l’Occidente non ha rapporti con il mondo, è il mondo, – ma nel riconoscere come legittima l’esistenza di un luogo fisico esterno all’Occidente, nel quale l’ebraismo potesse ricostituirsi in nazione e, quel che è peggio, in Stato. Ciò che l’Occidente, in base a un suo disegno di allora, aveva, fortunatamente per le sorti dell’umanità, separato, l’Occidente, in base ad un suo disegno di oggi, ha riunito. E, come l’Occidente è abituato da sempre a fare, questa operazione è stata condotta in porto non con il proprio sacrificio, – sacrificio o rinuncia di idealità, di pregiudizi, di tradizioni, di territori, – ma con il sacrificio di popolazioni altre, incolpevoli e non consenzienti. La colpa dell’Occidente verso l’ebraismo è stata risarcita, assumendosi il carico di una colpa altrettanto grave verso l’Islam. L’Occidente non può fare atti di giustizia; può soltanto passare da un atto d’ingiustizia all’altro, cercando semplicemente di iniettare il primo nel secondo.
L’aspetto catastrofico di questa vicenda, è che l’ebraismo, per diventare Israele, ha accettato anch’esso e fatta propria, per la prima volta nella sua storia in quanto ebraismo, la grande eredità dell’Occidente[29].
E ancora:
Il fatto che l’Occidente accettasse finalmente l’ebraismo, invece di cercare di sopprimerlo, ha richiesto come contropartita che l’ebraismo accettasse l’Occidente[30].
Ma, conclude Asor Rosa, «L’Occidente intero, senza pensiero ebraico, è più povero e al tempo stesso più rozzamente, banalmente totalitario»[31]. E tuttavia esso, l’Occidente, «occidentalizza il mondo perché la sua tecnologia è superiore a qualsiasi resistenza di ordine culturale»[32].
Asor Rosa prende poi in esame le posizioni di Papa Wojtyla sulla guerra: «hanno indubbiamente rappresentato – scrive – una diversità rispetto allo stolido unanimismo occidentale [...]. Il suo punto di vista tiene conto precisamente del fatto che si sta creando un ordine imperiale mondiale, dopo la caduta definitiva del sistema del socialismo realizzato: e del bisogno di cominciare a correggere il sistema vincente, quello capitalistico, in base a principî, che si riconducano direttamente al verbo cristiano»[33].
Ma si tratta di valutare se il Cristianesimo è dentro o fuori di quell’Occidente finora descritto. La risposta di Asor Rosa è che
È fin troppo facile rispondere che il cristianesimo pulsa nelle vene dell’Occidente, è stato una delle molle espansive fondamentali dell’occidentalizzazione, ha sempre permeato finora, in modo particolare, la costruzione delle grandi strutture imperiali. Governi cristiani o di cultura cristiana siedono sulla testa della maggior parte dei paesi occidentali. Il Presidente degli Usa al momento dell’investitura giura su di una Bibbia.
Piuttosto, si potrebbe dire che Woityla tenta di piegare l’intero Cristianesimo alla sua variante cattolica [...].
Per dirla in breve: poiché a nessuno sfugge che il mondo procede come Unum imperium, unus rex, Woityla, ben lungi da contestare la legittimità e la positività di tale processo, si preoccupa di imprimere su di esso, – non contro, né al di fuori di esso, – il suo sigillo, la sua impronta “eternificatrice”[34].
Il progetto wojtyliano, dunque «è davvero connesso alle dimensioni, ai caratteri, alla storia dell’Europa, ivi compresa, – ed anzi a miglior ragione, proprio in quanto ora vi è compresa, – l’Europa dell’Est, l’Europa ex socialista»[35].
Il suo artefice «mira ad una riforma dell’Occidente»[36].
Oggi, superato il trauma, il cattolicesimo tridentino, nella sua millenaria saggezza, non ha nessuna intenzione di render la pariglia: incorpora quel tanto di liberalismo e di socialismo che ogni persona di buon senso è ormai disposta ad accettare come parte integrante della tradizione occidentale, e lo sublima in una visione non puramente storica e non meramente pragmatica dei processi umani[37].
E aggiunge: «La Chiesa di Roma è una forza dell’Occidente, per la quale, l’ambizione ecumenica si esprime prevalentemente sotto forma di vocazione missionaria. Il resto del mondo è un’entità da convertire, non un agglomerato gigantesco di sofferenze da abbracciare»[38].
E ancora: «Il verbo cristiano-cattolico segue, come già altre volte nella storia, i percorsi tracciati dall’espansione imperiale. L’espansione imperiale gli spiana la strada, il verbo cristiano-cattolico interviene a condannarne e correggerne le distorsioni, gli eccessi, le disumanità. Così facendo legittima e consolida l’espansione imperiale»[39].
La Chiesa di Roma – sostiene Asor Rosa – «non ha fatto il passo che separa la “religione” dalla “com-passione”, ossia la capacità estrema, senza limiti e senza compromessi, di patire con altri, vivere, sopportare, combattere, credere con altri»[40].
Papa Wojtyla ci chiede, come tanti altri profeti secolari, di essere migliori. Il fatto è che, per essere assolutamente buoni, bisogna credere in ciò che è assolutamente giusto, cioè osare di esporsi a quel balcone dell’assoluto, che i venti dell’Occidente hanno inesorabilmente spazzato per tanti secoli, relegando tutti coloro che vi si sono temerariamente affacciati al rango tragico dei martiri o a quello ridicolo dei profeti inascoltati[41].
«Mentre tutto il mondo vuole diventare Occidente – scrive Asor Rosa, avviandosi alle conclusioni –, io mi chiedo come fare per uscirne»[42].
Aggiunge che «tutta la storia dell’Occidente si deposita senza eccezioni sulle spalle di ciascuno di noi»[43]:
Auschwitz e Hiroshima sono entrate a far parte della nostra storia, – della storia, intendo, di ciascuno di noi. Ora le abbiamo fatte anche noi: mentre quando combattevamo per un superamento dall’interno dell’Occidente, potevamo illuderci di pensare che le avessero fatte gli altri, i reprobi, i cattivi, i rappresentanti di un “diverso” e peggiore principio. L’Impero ci dà la sua storia, che comprende tutto questo [...][44].
E poco oltre:
Gli stessi concetti di “civiltà” e di “barbarie”, saranno messi in gioco e continuamente ribaltati [...] si stringeranno fra loro in mostruosi connubi senza nome. Già oggi non siamo più in grado di dire se ci sia più civiltà o più barbarie nella Quinta Strada di New York oppure nelle sterminate favelas di Rio [...] l’esercizio della vita in Occidente poggia sulla rimozione sistematica e di massa delle cause fondamentali che la determinano e la rendono possibile [...][45].
«Questo – scrive ancora Asor Rosa – è ciò che io chiamo il predominio del principio d’indifferenza»[46], e «il massimo d’indifferenza possibile [...], è l’esser morti»[47].
una delle colpe più gravi dell’Occidente e delle sue macchie più nere è di aver iscritto tanto a lungo Auschwitz nell’elenco dei crimini più terribili mai commessi dall’umanità, come ovviamente era giusto, e Hiroshima nell’elenco delle manifestazioni più significative di una democrazia progressista, un tipico prodotto delle “magnifiche sorti e progressive”[48].
L’Occidente – aggiunge –, «nel momento in cui chiude il cerchio della propria storia, rischia di chiudere la propria storia»[49].
Una volta pensavamo, – si pensava, – che l’Apocalissi sarebbe venuta da fuori, che fosse una “cosa di fuori”. Ora sappiamo con certezza che la nostra Apocalissi può venire soltanto da dentro. E l’Apocalissi che viene da dentro, non ha affatto bisogno, da questo punto di vista, di assumere vesti particolarmente terrificanti, anche se la guerra del Golfo ci ha insegnato che anche questo può ancora avvenire. Possiamo piuttosto paragonarla a un deserto, ad una immensa distesa arida, dove venti di gran lunga superiori alle forze di qualsiasi essere umano fanno volare granelli di sabbia praticamente senza peso e senza alcuna capacità di resistenza[50].
Per salvarci possiamo attingere anche agli insegnamenti di quel nichilismo che contraddistingue così nettamente l’Occidente, ed anzi «è l’autentica Apocalissi dell’Occidente»[51]:
L’umanità viene dal nulla e non va in nessun luogo. Questa è la più bella conquista di pensiero del nichilismo occidentale[52].
Dunque, «l’Occidente [...] ha rivelato ciò che altre religioni ed altre esperienze storiche tendono tuttora a nascondere e a nascondersi»[53]:
è specifica e singolare caratteristica dell’uomo l’essersi costituito un ordine, nel cui svolgimento – la Storia – progressivamente sempre più si è riconosciuto. Persino le religioni, che assicurano di venire da fuori del mondo, hanno dovuto fare i conti con questo ordine [... i cui] capisaldi [... sono] le nozioni di giustizia, verità e bene comune[54].
Dunque, «il massimo che si può ottenere [...] è un valido fronteggiamento della violenza e dell’ingiustizia, non certo la loro definitiva soppressione. Ma che questo fronteggiamento si verifichi è già, in nuce, una realizzazione dell’umanità che cerca di sottrarsi al suo destino fatale di guerra»[55].
Ora, «anche l’etica della responsabilità è figlia del nichilismo, poiché è un’applicazione conseguente del nichilismo il superamento di ogni fede (che è qualcosa di più del semplice ateismo: infatti si può benissimo credere nella trascendenza senza credere in Dio, mentre, certo, è più difficile il viceversa). [...] In questo modo intendiamo oggi il motto: “Essere al di là del bene e del male”»[56].
È vero che «L’etica della responsabilità [...] non ha mai cambiato molto [...] nelle cose del mondo, anche se ha esercitato una grande influenza sui comportamenti di quelli che l’hanno praticata»[57].
Così come è vero che essa «resta, ovviamente, un’etica laica»[58].
Per definizione, l’uomo della responsabilità era l’uomo della tolleranza e del pragmatismo, che superava la fede in nome del relativismo di tutte le credenze umane. In qualche modo, esso era il prodotto del trionfo intellettuale borghese giunto alla sua piena maturità (da Erasmo e Weber, per intenderci), e dunque all’estenuazione di tutti i principî di valore in sé e per sé considerati. L’etica della responsabilità conteneva sempre in sé una qualche dose di scetticismo[59].
Dunque, per Asor Rosa, «La credenza nei valori umani della responsabilità (verità, giustizia, bene comune) dev’essere altrettanto assoluta di quella delle fedi più cieche»[60].
Si rende ovviamente conto, Asor Rosa, che c’è «una contraddizione [...] fra il senso del relativo, che contraddistingue una posizione laica, e l’assolutezza incondizionata dei principî, a cui essa è costretta oggi a riferirsi. Ma – spiega – si tratta di una di quelle contraddizioni teoretiche, che possono benissimo essere risolte nella pratica. Si verifica oggi la necessità come di una sospensione del primo termine a favore del secondo. La prevalenza delle pratiche di potere e di dominio esige una risposta totalmente diversa, ma di analoga portata, di, oserei dire, altrettanta durezza. Ci vuole, insomma, una religione più potente delle religioni, una fede più forte delle fedi: un sentire interiore tanto fervido da attirare sulla terra la trascendenza e da spedire i nostri umani pensieri in Paradiso»[61].
La trascendenza, dunque, viene chiamata in causa, – anche se non sembra, – in un senso cui abbiamo già accennato, e cioè come forma dell’operazione mentale umana che produce valori fuori e contro il compromesso universalmente operante fra pensiero e potere, fra politica e “ideali”. Con altre parole si potrebbe dire che la verità e la giustizia non possono più venire da fuori: devono venire da dentro. [...] E una riforma si fa, innanzitutto, in interiore homine. [...] Si può uscire dall’Occidente, solo passando attraverso la propria anima[62].
Asor Rosa sostiene che «il fine della vita umana è essere felici», ma, aggiunge,
non v’è felicità senza vera giustizia, perché la coscienza dell’onesto non si placherà fin quando nel mondo prevarranno la violenza e il potere. In questo modo la questione del singolo si lega a quella di molti. L’indifferenza, infatti, non è solo un principio di potere: è un modo di vita, che s’attacca come un morbo schifoso all’esistenza, anche quotidiana, di tutti. Staccare questa crosta dalla propria anima si può, solo se si capisce che questa malattia è contagiosa, che non si può pretendere di liberarsene, se anche gli altri non se ne liberano[63].
Perciò propone «un’etica della solidarietà» o, come preferisce definirla, «della com-passione»[64].
Partendo dai piani alti dell’edificio [...] si arriva soltanto a condividere il massacro della guerra del Golfo e a caricarsi, per analogia, degli orrori di Auschwitz e insieme di quelli di Hiroshima. [...]
Bisogna ripartire dal basso, dove l’Occidente ha sedimentato le sue repressioni e insieme allineato una dietro l’altra le sue innumerevoli sconfitte. [...] Patire-con, – “sentire”, “vedere”, “soffrire”, “pensare” insieme con qualcuno, – cioè compiere l’operazione esattamente contraria a quella che il sistema quotidianamente c’impone, – la pratica dell’“in-differenza”, – e quindi cogliere e coltivare la “differenza” [...,] condividere questa faticosa operazione con altri [...]
Questo è l’unico modo [...] in cui si possa intendere una ripresa del principio di tolleranza, che, in effetti, fa parte integrante, storicamente, di un’etica della responsabilità. Ma ne respingo oggi ogni versione morbida, passiva, debole, accomodante: si è aperta una lotta feroce, in cui non c’è spazio per l’indulgente comprensione delle ragioni dell’avversario. Essere “illuminati” non significa essere deboli. Certo, se non si è «illuminati», non si può neanche essere tolleranti. Ma essere “illuminati” può anche significare una lucida consapevolezza ed un uso intelligente, virtuoso, all’occorrenza spietato, della forza. Per tolleranza intendo, invece, la capacità di sentire insieme con gli altri: di stare da vivo con i vivi. All’origine, fra “tollerare” e “compatire” c’è una stretta parentela. Si tratta di recuperare il senso di questa profonda affinità originaria.
“Sopportare” non può voler dire in nessun modo “subire”[65].
E conclude: «Il giorno in cui fossimo in grado di ri-umanizzare il Cristo, avremmo cominciato finalmente a estinguere la storia dell’Occidente in quella del mondo, e non viceversa»[66].
[1] Alberto Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, cit., p. viii.
[2] Revelli, p. 137.
[3] Alberto Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, cit., pp. 123-24.
[4] Ivi, p. 21.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem. «Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli diede per rendere palese ai suoi servi ciò che presto deve accadere». Le citazioni latine nel testo sono tratte da Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem, Leipzig, Deutsche Bibelgesellschaft, 19832, 2. voll.
[7] Ivi, p. 15.
[8] Ivi, p. 16.
[9] Ivi, pp. 16-17.
[10] Ivi, p. 45.
[11] Ivi, p. 17. Il corsivo è mio.
[12] Ivi, p. 27.
[13] Ivi, p. 30.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 31.
[16] Ivi, p. 32.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 39.
[19] Ivi, p. 40.
[20] Ibidem.
[21] Cfr. ivi, p. 46.
[22] Ivi, 45.
[23] Ivi, 55.
[24] Ivi, pp. 56-57.
[25] Ivi, p. 57.
[26] Ivi, p. 67.
[27] Ivi, p. 68.
[28] Ivi, pp. 68-69.
[29] Ivi, pp. 69-70.
[30] Ivi, p. 71.
[31] Ivi, p. 72.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, pp. 82-83.
[34] Ivi, pp. 84-85.
[35] Ivi, p. 86.
[36] Ivi, p. 87.
[37] Ibidem.
[38] Ivi, p. 88.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] Ivi, p. 89.
[42] Ivi, p. 98.
[43] Ibidem.
[44] Ibidem.
[45] Ivi, pp. 99-100.
[46] Ivi, p. 100.
[47] Ivi, p. 102.
[48] Ivi, p. 101.
[49] Ivi, p. 102.
[50] Ivi, p. 103.
[51] Ivi, p. 116.
[52] Ivi, p. 114.
[53] Ibidem.
[54] Ivi, pp. 115-116.
[55] Ivi, p. 116.
[56] Ivi, p. 118.
[57] Ivi, p. 117.
[58] Ivi, p. 118.
[59] Ivi, p. 119.
[60] Ibidem.
[61] Ivi, pp. 119-120.
[62] Ivi, p. 120.
[63] Ivi, p. 121.
[64] Ibidem.
[65] Ivi, pp. 122-123.
[66] Ivi, p. 125.
Fine
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