Quel carteggio con Primo Levi
Il racconto Sempre più verso Occidente– che dà il titolo al mio primo lavoro di scrittura “in proprio” e non “per conto terzi”, una raccolta di racconti – è preceduto da una breve introduzione in cui si riferisce della breve corrispondenza intercorsa tra me e Primo Levi quando il 21 marzo del 1986 mi decisi a spedirgli appunto quel testo in cui prospettavo un andamento diverso nell’inquietante storia da lui narrata in Vizio di forma, il secondo volume “non-memorialistico” e apparentemente fantascientifico, uscito da Einaudi nel 1971.
L’argomento centrale di Verso occidente, e quindi anche della mia successiva incursione in quella trama, è – per essere molto sintetici, essendoci molto altro in quelle pagine – il suicidio, il diritto umano più smaccatamente non ancora riconosciuto dalle Carte che regolano la convivenza degli individui sul pianeta da essi immeritatamente avuto in eredità.
A soli 3 giorni di distanza, senza metter tempo in mezzo, con una sollecitudine indicativa della sua umanità, della sua umiltà, del suo radicato senso morale, il 24 marzo 1986 Primo Levi prese carta e penna e mi rispose, dopo aver chiaramente letto con attenzione quanto gli avevo inviato.
Alla lettera che mi scrisse anch’io mi sentii in dovere di rispondere e solo molti anni dopo ho appreso che l’ora della posta – quella in tarda mattinata in cui la portinaia consegnava a tutti gli inquilini del palazzo di corso Re Umberto 75 a Torino plichi, buste, cartoline e quant’altro – era diventata per lui un momento di ansia ed angoscia, probabilmente perché gli metteva inesorabilmente di fronte quanto dalle sue parole si cercassero delle risposte, quanto fosse diventato un punto di riferimento, quanto difficile fosse sottrarsi al compito che volutamente o meno sentiva essergli stato affidato.
Copia di quel carteggio da qualche anno è a disposizione del Centro internazionale di studi Primo Levi.
In quella lettera Primo Levi mi ribadiva il concetto anche altrove espresso, in particolare in quel brano intitolato Perché si scrive?contenuto ne L’altrui mestiere, laddove indica fra le ragioni che spingono a prendere la penna in mano o a mettersi alla tastiera anche quella di
«liberarsi da un’angoscia. Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé».
Non solo. Confessava di aver scritto Verso occidentein un momento di depressione – ne dà testimonianza l’articolo su “l’Unità” scritto da Andrea Liberatori all’indomani della morte dello scrittore torinese, nel quale affermava che «senza speranza … non si può vivere» – temendo appunto di aver in quel momento sparso al vento le proprie angosce.
Ad ogni modo mi pare giunto il momento di rendere di dominio pubblico quello scambio privato di opinioni. Chi vuole ora qui, così come al Centro internazionale Primo Levi, può leggere della nostra corrispondenza avvenuta un anno prima che decidesse di togliersi la vita e dare ragione ai lemming e agli Arunde, i quali
«erano privi di convinzioni metafisiche: soli fra tutti i loro vicini, non avevano chiese né sacerdoti né stregoni, e non attendevano soccorso dal cielo né dalla terra né dai luoghi inferi. Non credevano in premi né in punizioni. La loro terra non era povera, disponevano di leggi giuste, di un’amministrazione umana e spedita; non conoscevano la fame né la discordia, possedevano una cultura popolare ricca ed originale, e si rallegravano spesso in feste e banchetti. […]attribuivano poco valore alla sopravvivenza individuale, e nessuno a quella nazionale. Ognuno di loro veniva educato, fin dall’infanzia, a stimare la vita esclusivamente in termini di piacere e dolore, valutandosi nel conto, naturalmente, anche i piaceri e i dolori provocati nel prossimo dal comportamento di ognuno. Quando, a giudizio di ogni singolo, il bilancio tendeva a diventare stabilmente negativo, quando cioè il cittadino riteneva di patire e produrre più dolori che gioie, veniva invitato ad un’aperta discussione davanti al concilio degli anziani, e se il suo giudizio trovava conferma, la conclusione veniva incoraggiata ed agevolata».
A cento anni dalla sua nascita, vorrei anche così – oltre che organizzando la Tre giorni a lui dedicata in programma al Rifugio Gualdo di Monte Morello – rendere omaggio a quello che considero uno dei più straordinari scrittori e una guida morale a cui guardare anche nei momenti cupi e di smarrimento.