La politica ritrovata. XVIII. La politica degli impolitici
XVIII. La politica degli impolitici
Se, in tempi di accreditato revisionismo e di opportunistici pudori “politically correct” il riferimento a Lukács e a Lenin dovesse risultare esageratamente blasfemo, si possono trovare altrove riflessioni – di cui abbiamo già dato conto – che inducono a considerazioni similari.
Scriveva Primo Levi nel racconto Vanadio compreso nella raccolta Il sistema periodico:
Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada: perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi[1].
Noi possiamo, come suggerisce Revelli, istituire «un legame tra i contendenti [...] e la volontà di preservarlo [...] o di ripristinarlo se spezzato»[2], secondo lo schema dell’antico ryb ebraico, ma avendo cura di considerare ciò che Levi sosteneva in quella testimonianza dal dopo-lager:
Mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli, ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici. Nel caso contrario del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo[3].
In quel racconto Levi introduce, anche se solo di sfuggita, il tema della “coscienza” riferendo del “keine Ahnung”, il “non rendersi conto” dietro cui si trincera l’amico-nemico tedesco. E, in maniera assai più evidente, il tema della responsabilità. Della responsabilità non solo di chi commette un’azione, ma anche di chi non fa nulla per impedirla. O, come dice lui, della risposta dovuta dagli inermi, dagli onesti, da ogni uomo. Della politica, quindi, anche di chi non fa politica.
Ciò detto è assai possibile che oggi tale responsabilità – tale scelta politica – consista nell’opzione pacifista, non violenta ed inerme. Nella devoluzione di forza, nell’impegno riconciliativo o ricostitutivo, nel «trattamento “amicale” o “famigliare” dei torti», nella costruzione «di un legame tra i contendenti», della «volontà di preservarlo [...] o di ripristinarlo se spezzato», nel ripristino del ryb ebraico e nella proliferazione di organismi simili alla Commissione per la verità e la riconciliazione istituita in Sudafrica nel 1995.
Benvenuto dunque l’abbandono della potenza, della forza, della violenza, della guerra, della morte (inferta o procurata). Benvenuta anche la revisione della lingua; lo spostamento d’accento dalla morte alla vita, l’immedesimazione nel creativo della maternità e, più in generale, nel punto di vista femminile. Benvenuto il confronto vitale con l’“altro”, la maggior corporeità dei rapporti, l’abbattimento dei confini tra dentro e fuori. Senza tuttavia mai dimenticare le regole dell’economia, la reale collocazione degli individui, le scoperte fatte dalla filosofia prima e dalla psicanalisi poi in merito alle forze profonde che muovono l’uomo.
Non si può invece assolutamente essere d’accordo – o meglio, non lo si può essere fino alla conclusione prevedibile di tale pensiero, fino alla traduzione di tale pensiero in un’azione che corrisponderebbe con l’inazione – con quel che sostiene Hannah Arendt. È vero, com’essa scriveva, che ormai, «è in gioco non soltanto la libertà, ma la vita, la sopravvivenza dell’umanità e forse di ogni vita organica sulla terra». Ma questo non è sufficiente a mettere in discussione tutta la politica, a mettere «in dubbio che nelle circostanze attuali la politica sia compatibile con la conservazione della vita»[4].
L’alternativa alla politica, infatti, è la guerra, e questa sì è incompatibile con la conservazione della vita. Invece la conservazione della vita è essa stessa politica, è stare in mezzo agli altri, vivere con essi, trovare una soluzione che non sia quella di eliminarci a vicenda.
Questa è politica, ancorché non la politica di chi spinge la politica alla guerra, di chi usa la politica come strumento di governo della guerra.
Eppure sono proprio gli uomini ad aver devoluto a un tale Leviatano tutta la propria forza, ad averlo armato pesantemente, fino al punto di poter scatenare, senza neanche il consenso dei parlamenti, il conflitto atomico totale.
Si può perciò comprendere Hannah Arendt quando afferma che «Se è vero che la politica non è altro che un male necessario alla sopravvivenza dell’umanità, allora essa ha davvero iniziato a togliersi di mezzo, in quanto il suo senso si è capovolto in insensatezza»[5].
Ma le si deve dar ragione solo quando ci ricorda il significato originario della politica, quello di entità che «nasce tra gli uomini [...] nell’infra, e si afferma come relazione»[6].
Dobbiamo dunque, come ci suggerisce Revelli, attribuire «a quell’infra il suo significato più proprio, di “discesa”, “abbassamento”, ritorno “tra noi”, nell’intimità degli interstizi intrapersonali, dove la relazione si è rotta e va ripristinata»[7]?
È assai ragionevole e condivisibile, ma forse è un eccesso di ottimismo il suo quando sostiene che questa è già una realtà, dal momento che migliaia di donne e uomini sono al lavoro negli interstizi del disordine globale «per sciogliere i grumi d’inimicizia che i dislivelli planetari [...] vanno con velocità crescente addensando»[8].
Esiste, è vero, la “comunità maledetta” tratteggiata da Aldo Bonomi, l’azione dal basso delle Agenzie per la democrazia locale nei luoghi dell’odio e del ritorno del “male assoluto”[9], ma come Revelli stesso riconosce, questa comunità non è ancora il presente, «tutt’al più un vago presagio di futuro. Di una possibile, inedita, politica del futuro»[10].
Si può ammettere che essa operi «a riparare dal basso i danni che i flussi sradicanti dell’economia e della politica (del Mercato e dello Stato) producono», ma non può ancora impedire che Stato e Mercato, economia e politica, producano danni.
Si può convenire che essa veda e racconti «quello che i giornalisti professionisti ignorano passandogli accanto»[11] o i loro editori evitino di pubblicare, ma sta di fatto che non ha giornali, né tv e quando finisce in prima pagina è solo perché una parte di essa ha infranto qualche vetrina.
Per questo è difficile, per chi scrive, considerarla l’ultima speranza, «l’unico embrione, fragile, esposto, di uno spazio pubblico non avvelenato o devastato nella città planetaria»[12].
È un’impostazione carbonara questa, assai simile a quella sostenuta negli anni Settanta da Pier Paolo Pasolini, a proposito della Federazione giovanile comunista, ultima speranza – o zattera della speranza – in un’Italia che per lo scrittore friulano stava naufragando, e come quella, apparentemente ispirata da un cattolicesimo di tipo vittimistico[13].
È un’impostazione che mostra la debolezza del carattere sostanzialmente volontaristico e ingenuamente movimentista della proposta per una “politica futura”, senza cogliere le spinte economiche che potrebbero (o non potrebbero) condurre in questa direzione, vale a dire quello che in ambito marxista si sarebbe detto il grado reale di maturazione delle forze produttive.
Ma, più che altro, è un’impostazione che non consente di cogliere tutti gli elementi che potrebbero farci individuare un nuovo paradigma della politica e, quindi, impedire «una sconfitta, per tutti»[14].
Quello che a noi serve, invece, è la comprensione dei meccanismi che potrebbero consentire il depotenziamento, l’“abbassamento”, il ridimensionamento dei mezzi di potenza e la messa in discussione della categoria stessa di Potenza. Dei meccanismi che potrebbero indurre logiche “altre”, cooperative, connettive, relazionali; che potrebbero delegittimare e rendere sgradita la tradizionale verticalità tipica della politica; che potrebbero sviluppare il desiderio di relazioni, di corresponsabilizzazione e di condivisione.
[1] Primo Levi, Vanadio, in Opere, vol. i, cit., p. 933.
[2] Revelli, p. 130.
[3] Primo Levi, Vanadio, cit., pp. 932-3.
[4] Hannah Arendt, Che cos’è la politica?, cit., p. 22, cit. in revelli, p. 133.
[5] Hannah Arendt, Che cos’è la politica?, cit., p. 23.
[6] Ivi, p. 7.
[7] Revelli, p. 134.
[8] Ivi, p. 135.
[9] Aldo Bonomi, La comunità maledetta, cit.
[10] Revelli, p. 135.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 136.
[13] In occasione di un incontro organizzato dalla Fgci di Roma pochi giorni prima della sua violenta morte nel 1975, Pasolini sostenne che il suo film Salò «non sarebbe piaciuto ai giovani comunisti. “È un film disperato – diceva – che non può piacere a chi ha ancora speranza nel mondo e negli uomini”. Salò dunque non poteva piacere, secondo Pasolini, a quel pezzo di “paese pulito” rappresentato dalla Federazione giovanile comunista». f.c. La Fgci per Pasolini, in «Rinascita», n. 24, 29 giugno 1985, p. 9. Si veda anche pietro folena, Perché la sinistra non sa più parlare ai giovani, in «Rinascita», n. 26, 13 luglio 1985, pp. 13-14.
[14] Revelli, p. 136.
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