La politica ritrovata. XVI. Leggi, diritti, giustizia
XVI. Leggi, diritti, giustizia
Si è qui parlato di “prezzo giusto”. E sul tema della giustizia merita forse spendere qualche parola. Ad essa dedica alcune pagine anche Revelli, mettendo a confronto la politica degli antichi e quella dei moderni, la giustizia appunto e la forza. Revelli cita il celebre ed attualissimo brano del De civitate dei di sant’ Agostino:
Senza giustizia, che cosa sarebbero in realtà i regni, se non bande di ladroni? E che cosa le bande di ladroni, se non piccoli regni? Anche una banda di ladroni è, infatti, un’associazione di uomini, nella quale c’è un capo che comanda, nella quale è riconosciuto un patto sociale e la divisione del bottino è regolata secondo convenzioni primieramente accordate. Se questa associazione di malfattori cresce fino al punto da occupare un paese e stabilisce in esso la sua propria sede, essa sottomette popoli e città e si arroga apertamente il titolo di regno, titolo che le è assegnato non dalla rinuncia alla cupidigia, ma dalla conquista dell’impunità.
Intelligente e verace fu, perciò, la risposta data ad Alessandro il Grande da un pirata che era caduto in suo potere. Avendogli chiesto il re per quale motivo infestasse il mare, con audace libertà, il pirata rispose: «Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra; ma poiché io lo faccio con un piccolo naviglio sono chiamato pirata, perché tu lo fai con una grande flotta, sei chiamato imperatore»[1].
Nella Repubblica di Platone, Trasimaco sostiene che giusto è «l’utile del più forte», secondo l’argomento «in qualche misura nichilistico, di ogni “realista cinico”»[2].
Le sue tesi convergono con quelle di Giobbe: «l’uomo giusto in ogni occasione rimane al di sotto dell’ingiusto [... la] più completa ingiustizia, quell’ingiustizia cioè che fa dell’uomo ingiusto l’essere più felice, mentre rende quanto mai disgraziato chi la subisce e si rifiuterebbe di commetterla», sostiene il primo; «Chi è giusto e puro è schernito … Perché ai reprobi lunga vita | Più durezza più forza più potenza?», protesta il secondo[3].
Il possesso di ciò che è proprio, il compiere ciascuno la propria funzione, potrà essere riconosciuto come giustizia[4].
Secondo Socrate il governante che vuole agire secondo giustizia deve conoscere, rispettare e garantire il destino naturale degli individui preesistente all’ordine artificiale umano.
Nell’ambito della Polis «sarà bandita ogni possibilità di distinguere (e contrapporre) amici e nemici. Un principio, questo, tanto imperativo da portare ad escludere che “il giusto” possa “far del male ai propri nemici, bene agli amici”, non essendo “in nessun caso [...] giusto far del male a qualcuno”»[5].
La giustizia è la volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto[6].
vera legge è la retta ragione, in armonia con la natura, universale, immutabile, eterna, che con i suoi ordini richiama gli uomini al dovere e con i suoi divieti lo distoglie dalla frode[7].
Filo conduttore della riflessione politica premoderna è il giusnaturalismo – nelle diverse forme in cui si è manifestato: jus naturale, jus civile, volontà divina, lex naturalis, ratio aeterna – che vede comunque l’ordine politico come principio organizzatore del mondo tratto dal mondo che lo sovrasta o lo precede. È presente anche in Agostino, benché privato dell’ottimismo antropologico socratico e stoico «per effetto della rottura catastrofica dell’ordine cosmico prodotta dal “peccato originale”»[8].
In Agostino la natura umana «è riconoscibile ormai come natura corrupta» e tuttavia «la civitas homini – la città terrena, che vive nell’“al di qua” [...] – non è [...] la civitas diaboli, la città degli empi [...] che si costituì quando Caino, col primo fratricidio, divise definitivamente chi vive nel male da chi vive per Dio [... e neppure] la civitas dei – la città celeste, che sta nell’“al di là” [...] ma sta in equilibrio tra le due»[9].
se il delitto avesse il suo fondamento nei decreti del popolo, nelle deliberazioni dei governanti, nel verdetto dei giudici, potrebbe essere diritto il rubare, il falsificare o il simulare, se tali azioni fossero approvate dai voti o dalle deliberazioni delle moltitudini[10].
La politica fallisce se è costretta a ricorrere alla coazione fisica per garantire l’ordine della civitas.
se la nostra repubblica si reggesse sulla forza anziché sul diritto, e non più, come finora, spontaneamente, ma per timore le genti ci obbedissero, io tremerei, non per noi, che alla nostra età abbiamo già provveduto abbastanza alla repubblica, ma per i nostri successori e per lo Stato[11].
Così, infatti, «il mezzo usato per affermare l’ordine coinciderebbe esattamente con il male che si voleva evitare»[12].
Per i moderni la politica si contrappone a tutto ciò. Nell’Amleto di Shakespeare – dove «la politica pesa su ogni sentimento e non c’è modo di sfuggirle» fino ad asfissiare tutti i personaggi del dramma, i quali «non parlano che di politica. Fino alla pazzia»[13] – per «l’“impolitico” protagonista della più politica delle tragedie shakespeariane»[14], per Amleto, eroe che pensa, l’uomo «non è che una quintessenza di polvere»[15].
L’uomo, insomma, non può più essere visto «nella sua innata socialità, ma al contrario [...] è: animale solitario. Atomo predatore, mosso da forze meccaniche e tutt’altro che virtuose»[16].
D’ora in poi, «la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, non potrà più essere dedotta (da un qualche ordine naturale delle cose) ma solo prodotta (da un qualche potere artificiale degli uomini), perché lo “stato di natura” – la condizione naturale di ciò che sta “prima” dello Stato, del Potere e della Legge – è, come si è visto, il disordine, l’esatto contrario dell’idea classica di giustizia»[17].
Perciò Hobbes sostiene che al bellum omnium contra omnes consegue che «niente può essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto della giustizia e dell’ingiustizia non hanno luogo qui. Dove non v’è potere comune non c’è legge; dove non c’è legge non c’è ingiustizia»[18].
Così Revelli sintetizza il ragionamento hobbesiano:
se ciò che per ciascuno è suo (che è “proprio di ognuno”) è “indistinguibile” perché ognuno – in questo senso eguale a tutti gli altri – può legittimamente vantare uno ius in omnia, un diritto naturale su tutto ciò che con la forza o con la frode riesce ad accaparrarsi; se il nesso che lega tra loro gli uomini come esseri naturalmente sociali è spezzato, e ognuno si presenta, in natura, come un mondo a sé, assoluto e diretto al proprio singolo bene, allora il principio di giustizia non può essere “assunto”, ma solo “deciso” [...] da quel Leviatano che concentrando in sé la forza di tutti col sottrarla ad ognuno, può imporre a ciascuno il rispetto dei patti da ognuno stabiliti[19].
[1] Agostino, De civitate Dei, iv, 4, cit. in Revelli, p. 35.
[2] Revelli, p. 38.
[3] Cfr. ivi, p. 39; platone, Repubblica, 343d e 344b, in Dialoghi politici e lettere, a c. di Francesco Adorno, Torino, Utet, 1970, pp. 228-29; Giobbe, 12, 4 e 21, 7, a c. di Guido Ceronetti, pp. 61-100.
[4] Polemarco in Platone, Repubblica, 433e, p. 372, cit. in Revelli, p. 41.
[5] Revelli, p. 41. La citazione da platone è in Repubblica, 335e, p. 214.
[6] Ulpiano, cit. in Revelli, p. 41 n..
[7] Cicerone, De re publica, libro iii, fr. vi, in cicerone, Dello Stato, p. 215, cit. in Revelli, p. 42.
[8] Revelli, p. 42. Il corsivo è mio.
[9] Ivi, p. 43.
[10] Cicerone, De legibus, libro i, cap. XV, cit. in Revelli, p. 42.
[11] Cicerone, De re publica, libro III, cap. XXIX, cit. in Revelli, p. 44.
[12] Revelli, p. 44.
[13] Jan Kott, …, tr. it. Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 59, cit. in Revelli, p. 44 n.
[14] Revelli, p. 45.
[15] William Shakespeare, Amleto, atto ii, scena ii, pp. 297-300.
[16] Revelli, p. 46.
[17] Ivi, p. 49.
[18] Thomas Hobbes, Leviatano, cit., p. 122, cit. in Revelli, p. 49.
[19] Ivi, p. 50.
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