La politica ritrovata. XV. Ritorno a Hobbes

XV. Ritorno a Hobbes

Fin qui il pensiero di Revelli e degli autori mediante i quali potremmo trovare, volendola cercare, la «politica del futuro».

Karl Marx

Condividendo l’obiettivo – ancorché, come detto, secondo una sfumatura leggermente differente, la quale parte dalla costatazione che, ragionando di politica, se ne può semmai trovare una per il presente, e solo quella, niente di più, che per comodità ora chiameremo la “politica cercata” – proviamo a portare altra acqua al mulino per vedere se, uniti gli sforzi, si giunge a una qualche mèta da cui non ne derivi «una sconfitta per tutti». Il punto di partenza allora è, a giudizio di chi scrive, il «paradigma politico dei moderni», o meglio, per essere più precisi, il «paradigma politico».

Si è fin qui sostenuto che quello indicato da Revelli, ovvero sia il paradigma hobbesiano, non sia in realtà quello su cui si è retta la politica negli ultimi quattro secoli. Purtroppo. Ma non è così. È stato forse il paradigma su cui si sono fondati gli Stati moderni, ma non quello che ha regolato i rapporti tra gli esseri umani. E la politica, appunto, non è altro che la cornice che regola i rapporti tra gli esseri umani.

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La tentazione allora sarebbe quella di indicare come paradigma per la “politica cercata” proprio quello suggerito da Hobbes: uno scenario securitario, pattizio, “devoluto”, in cui la forza sia stata stemperata, bandita, messa in uno scrigno nelle sagge mani di un potente che non ne farà uso se non costretto dalla rottura del patto o dal venir meno della sicurezza garantita.

In questo nuovo millennio, così opportunamente descritto da Revelli nelle pagine in cui parla di globalizzazione e dell’epoca successiva ad Auschwitz, a Hiroshima, a Cernobyl e a Bassora, il Leviatano hobbesiano non può più essere né il Regno Unito, né la nazione germanica unificata, né i finalmente Stati Uniti. Ognuno di essi vive da tempo.

La stagione degli Stati non è tramontata – ne esistono… sulla faccia della Terra, se non sopraggiunge nel frattempo qualche nuovo conflitto –, ma certamente su di essa si allungano le ombre della sera.

Il nuovo Leviatano, perciò, può assomigliare solo alle Nazioni Unite o all’Unione Europea e invito a notare il ripetersi, tanto nel caso degli Stati, quanto in quello degli appena citati organismi sovranazionali, dei termini unione, unità, unito, unificato – uno.

Un mostro mitologico, insomma, capace di avocare a sé tutta la forza che altrimenti sarebbe nelle mani di tutti rendendoli tutti insicuri. O, detto in altra maniera, un mostro mitologico al quale tutti, per essere finalmente sicuri, devolvono la propria forza.

Che si tratti di un sogno, o come si sarebbe detto appena qualche anno addietro, di un’utopia, è fin troppo evidente. Per quale ragione l’esercito più potente della Terra e il paese più ricco della Terra e i pochi ma identificabili detentori di immenso potere ed immensa ricchezza dovrebbero devolvere la propria forza militare ed economica?

Questo è il nodo della politica oggi. Nei singoli paesi e sullo scacchiere internazionale.

Naturalmente si potrebbe tentare di convincere il Pentagono che riconvertendo bombe e caccia supersonici non ci sarebbero più attacchi alle Torri gemelle e quindi necessità di ritorsioni armate in giro per il pianeta, senza per questo necessariamente restare senza lavoro. Così come si potrebbe tentare di convincere i produttori di auto – negli Usa, in Giappone, in Corea, in Francia, in Germania e in Italia – e anche le loro maestranze, che essendo stata da lungo tempo brevettata l’auto a idrogeno che non inquina, potremmo fare tutti un salto di civiltà, ma dovremmo a tal fine persuadere anche chi continua a estrarre petrolio o chi, da questa attività, ci fa su un sacco di soldi.

E ancora potremmo tentare di convincere gli economisti che se la loro è una scienza esatta dovrebbe attenersi a una regola fondamentale delle scienze esatte. Sia consentita una parentesi. Sia in matematica che in fisica, appunto quelle che per eccellenza consideriamo scienze esatte, la scelta preliminare delle dimensioni, ovvero sia delle unità di misura, è fondamentale. Senza non si può procedere o si procede producendo errori. In economia si è soliti servirsi di concetti come prodotto interno lordo o reddito pro capite espressi in una determinata valuta, generalmente il dollaro. Questa unità di misura non sempre ci aiuta a comprendere le dimensioni dei problemi con cui si ha a che fare. Si sa che circa l’80% della popolazione mondiale vive o comunque ha a disposizione il 20% della ricchezza e, di conseguenza, che il restante 20% della popolazione mondiale può disporre dell’80% della ricchezza. Questa proporzione dà una vaga idea della sproporzione e degli iniqui criteri distributivi che regolano il mondo. Se a quelle percentuali diamo però la concretezza di volti di persone e di oggetti reali di consumo, dinanzi ai nostri occhi compare un orrore. Se misuriamo la ricchezza in ciotole di riso possiamo dire che 8 persone su 10 mangiano ogni giorno 1 ciotola di riso a testa, mentre le altre 2 persone ne mangiano 16 a testa. C’è insomma qualcuno che ogni giorno mangia 16 volte quello che mangia un altro dei più. Sedici volte. La realtà naturalmente non è così, la ricchezza non è fatta di sole ciotole di riso, nel mondo non ci sono solo 10 persone, e se anche ci fossero solo loro esistono disparità anche fra gli 8 poveri e i 2 ricchi.

Ma la digressione ci serve a dire che potremmo anche tentare di convincere i 2 fortunati con le 16 ciotole di riso a testa a dividerle con gli 8 sfortunati con la sola ciotola di riso a testa.

Questa però è un’evidente contraddizione con la realtà così come si è andata sviluppando da molti secoli a questa parte e un evidente ritorno, appunto, all’utopia.

Dobbiamo perciò – a dispetto dell’ipocrisia, delle spinte buoniste e dei revisionismi troppo repentini – continuare a considerare ragionevole il fatto che «La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta»[1].

Possiamo naturalmente, anzi dobbiamo, limitarci a considerare ciò ragionevole e non quello che Marx precisò a tale proposito in una lettera del 5 marzo 1852 a J. Weydemeyer, scrivendogli che non apparteneva a se stesso il merito di aver scoperto né l’esistenza delle classi nella società, né della lotta fra loro, ma solo, semmai, di aver dimostrato «1) che l’esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2) che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi…»[2].

In particolare possiamo prendere le debite – profonde – distanze dal determinismo di queste affermazioni e soprattutto dal punto 2) e dall’orribile, nonché caduca e desueta idea della dittatura del proletariato.

Ma è hobbesianamente realistico accettare che «La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi» e che tale lotta sia finita «sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta».

Nella fattispecie è ragionevolmente ipotizzabile che il conflitto e gli strumenti del conflitto siano giunti a un punto tale che non vi sarebbe «una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società», ma «la rovina comune delle classi in lotta». E che tale rovina potrebbe coincidere con la distruzione (estinzione) totale dell’umanità per opera dell’umanità stessa, di una messa in discussione totale, finale, della specie che segnerebbe la fine di ogni qui e di ogni ora, e in definitiva della storia[3].

Avendo tuttavia scelto aprioristicamente la strada della politica, che per definizione non può essere quella della guerra (e, quindi, della lotta), essendo appunto la guerra la negazione della politica, e avendo ancora viva la memoria della tragedia e degli orrori prodotti dal tentativo storico di realizzare compiutamente la lotta di classe, non possiamo seguire il marxismo su quella strada.

Dobbiamo però considerare la “lotta di classe” alla stregua del “bellum omnium contra omnes” che per Hobbes caratterizzava lo stato di natura dell’uomo, per contrapporvi uno stato artificiale capace di garantire sicurezza (e vita) a tutti.

È questa una strada che tuttavia finora non ha condotto a grandi sbocchi, perché lo spauracchio dell’insicurezza, della guerra, della distruzione e della morte, come si è detto, è forse riuscito a indurre alla costituzione degli Stati moderni, ma non ad impiantare un paradigma politico securitario, pattizio, equo ed egualitario.

Se questo è vero si può supporre che l’umanità stia continuando a vivere – al di là di una sovrastrutturale autopersuasione di civiltà attribuibile allo stato artificiale, entro il quale vigono leggi e perciò si può pensare esista una qualche giustizia – che l’umanità stia continuando a vivere in uno stato di natura entro il quale l’unica legge vigente è quella del mercato che nessuno ha mai preteso fosse giusta, semplicemente naturale.

Naturale ed insopprimibile, dal momento che, così com’è stata enunciata, la basilare legge di mercato non fa una piega. Nessuno infatti è disposto a mettere in discussione che effettivamente la domanda e l’offerta s’incontrino in un solo punto, soddisfatto il quale son soddisfatte tanto la domanda quanto l’offerta.

Ma a guardarla con appena un po’ di disincanto e un briciolo in meno di sottomissione, la legge basilare del mercato mostra la mostruosità del suo postulato. Innanzitutto testimonia l’esistenza del conflitto di classe, o, almeno, di una contrapposizione di classe: quelli che domandano e quelli che chiedono. Non già individui che domandano e chiedono e quindi disposti, quando domandano, a comprendere cosa significhi chiedere, e cosa significhi, invece, domandare, quando chiedono. Se questa reciproca alternanza di ruoli esistesse, i compratori sarebbero anche venditori e i produttori anche consumatori. Il prezzo, allora, sarebbe quello “giusto”, e si noti il significato di questo aggettivo che all’economia potrebbe restituire qualcosa di umano, di logico, di ecologico.

La mostruosità del postulato della legge di mercato è testimoniata anche dal verbo che inopportunamente regge: incontrarsi. Il mercato, infatti, è sempre meno un luogo d’incontro – e con il commercio elettronico lo è sempre di meno – la piazza che era anche l’agorà. E sul mercato ci si incontra sempre meno, ci si scontra sempre di più. Si fanno sempre meno patti, e sempre più guerre o conflitti.

Sull’altare della sua legge, equiparabile all’antica legge divina che l’uomo schiavo della religione osservava senza possibilità di critica e di revisione, si può ormai compiere ogni genere di nefandezza. E si è a tal punto “astratta” dalla sua dimensione umana che neppure più serve a regolare davvero il mercato delle merci, della forza lavoro, delle idee, finanche dei capitali.

Ma forse è proprio da qui, dal capitale finanziario, dall’intoccabilità di un monito divenuto tabù, che bisogna ripartire per trovare il bandolo di una politica altrimenti perduta.


[1] Karl Marx – Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista, Roma, Editori Riuniti, 197415, pp. 55-56.

[2] Karl Marx, “Lettera a J. Weydemeyer”, 5 marzo 1852, cit. in Karl Marx – Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista, cit., p. 55.

[3] Cfr. Revelli, p. 78.

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