La politica ritrovata. XIV. Verso un nuovo paradigma
XIV. Verso un nuovo paradigma
Revelli, dunque, auspica – o sollecita o pretende o invoca, quasi supplica – ma non elabora, non propone un «nuovo paradigma [...] per una politica dell’“al di là”»[1].
Mette infatti in guardia dalle minacce che si addensano sulla politica «se non si riuscirà a elaborare in fretta, per lo meno un abbozzo, di “nuovo paradigma” [...] che sappia misurarsi in forma meno distruttiva del passato – nel nuovo spazio che siamo chiamati ad abitare – con la questione esplosiva del Male [... ed elaborare] un’inedita teodicea all’altezza della sfida (disumana) dei tempi»[2].
Non elabora, non propone, ma suggerisce, contribuisce ad elaborare e a proporre, in un capitolo che, parafrasando Proust, si intitola Alla ricerca di una «politica del futuro». Nel quale vi è un’evidente veniale contraddizione. La politica, infatti, è sempre politica del presente, tutt’al più del presente e del futuro contemporaneamente, ovvero del futuro in quanto derivazione del presente. Perciò giustamente sollecita la necessità di «elaborare in fretta». Ma è qualcosa dell’“al di qua”, più che dell’“al di là”.
Rifacendosi alla fonte della sua citazione, verrebbe da dire che l’obiettivo non è quello di ricercare una politica del futuro, ma una politica perduta, di ritrovare una politica o la politica.
Nel suo epilogo Revelli riprende le mosse da una splendida pagina di Elie Wiesel[3], alla quale abbiamo già accennato, in cui due prigionieri del lager si scambiano queste parole:
– Dov’è dunque Dio?
– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca.
Da La notte di Wiesel, Revelli riporta anche un’altra citazione:
Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima …[4].
Da qui Revelli cerca di condurci sul terreno di una nuova teodicea e prospetta la possibilità per la filosofia politica di fare al concetto moderno di politica quel che la filosofia teologica di Hans Jonas ha fatto al concetto tradizionale di Dio. Ne Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Jonas nota che dopo quell’evento
Non vi è più posto per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa o pena, o per termini come testimonianza, prova e speranza di salvezza, e neppure per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione[5].
Per Jonas, spiega Revelli, il vero, autentico Dio è un Dio debole, che ha rinunciato al proprio essere Dio, accettando rischio e sofferenza per permettere «“che il mondo fosse e fosse per se stesso”. Che la sua creazione esistesse nel tempo. Ecco perché Dio può salvarsi dalla catastrofe di Auschwitz solo indebolendosi. Cedendo potenza. Ed ecco perché la diminuzione di potenza è il prezzo che l’idea di Dio paga alla libertà dell’uomo [...] e, infine, all’esistenza di “un mondo”»[6].
Il Libro di Giobbe è ancora il punto di paragone, ritornando «con inquietante frequenza nelle disperate “teodicee” novecentesche»[7]. L’excursus di Revelli in questa letteratura si conclude con queste parole:
Liberare Dio dall’inferno in cui ha finito per rinchiudersi, aiutandolo a salvare l’uomo. Assumendosi la responsabilità diretta, in proprio, della pratica del bene; in un rapporto con Dio che non è più quello antico, paterno – “verticale” – di comando-obbedienza (la struttura di tutti i rapporti di potere) ma quello fraterno – “orizzontale” – di mutuo aiuto e corresponsabilità.
Il cerchio così sembra chiudersi. La riflessione su Giobbe “dopo il Novecento” s’innesta esattamente nel punto in cui era approdata la riflessione su Dio “dopo Auschwitz” di Hans Jonas: l’inevitabile abbandono dell’idea di onnipotenza associata all’idea di Dio. O, se si preferisce, il congedo definitivo da una concezione “tecnica” dell’operato divino, in cui la prevalenza del Bene sul Male sia fatta dipendere dalla volontà di un soggetto di “potenza” dotato dei mezzi – della forza – per realizzare il proprio fine. E l’affermazione di un “principio di responsabilità” dell’uomo nei confronti di un mondo la cui sopravvivenza o scomparsa ormai dipende esclusivamente da lui. Mai più, dopo una lettura del genere, un versetto del Libro di Giobbe potrà comparire sul frontespizio di un qualunque nuovo Leviatano[8].
Da qui, dunque, secondo Revelli, può e deve nascere, ammesso che si debba, un nuovo paradigma della politica. Da una «condivisa e impellente, esigenza di depotenziamento. Il bisogno di un “abbassamento”. Di un ridimensionamento dell’enfasi sui mezzi di potenza. Addirittura [...] di una critica esplicita alla categoria stessa della Potenza [...] a favore invece di logiche “altre”: cooperative, connettive, relazionali»[9].
Un nuovo paradigma politico in gestazione non può che strutturarsi «su una decostruzione drastica della tradizionale verticalità tipica della politica [... e sulla] ricostruzione di una dimensione orizzontale, nella quale la capacità di istituire relazioni, di corresponsabilizzare e di condividere prevalga…»[10].
Tanto più, aggiunge Revelli, «dopo la catastrofica caduta dei comunismi novecenteschi, che di quell’idea verticale e assoluta di Potenza applicata alla Storia avevano fatto la leva fondamentale per la realizzazione del proprio ideale in terra. E che, per gli esiti mortali di quella pratica di potenza hanno vista svuotata la propria stessa ragione storica di essere»[11].
Il suggerimento, qui, è per quella «subpolitica» introdotta da Ulrich Beck nel quadro delle sue riflessioni sulla «società globale del rischio», ossia su quelle forme di autorganizzazione con cui si esprime la società dal basso, ovvero in quelle «pratiche già ampiamente diffuse a livello mondiale da parte dei nuovi movimenti e di inedite forme di organizzazione (Greenpeace, Robin Wood, Amnesty International, Terre des Hommes …)»[12].
Quest’universo – questa subpolitica – interpreterebbe sia la tendenza all’individualizzazione, sia quella alla connessione in sistemi reticolari, relazionali, cooperativi: tendenze tipiche della modernità riflessiva, non così antitetiche e incompatibili come sono state presentate e anzi assolutamente «complementari, lasciando intravedere “i primi tratti di una cittadinanza globale”»[13].
Senza che ciò implichi necessariamente «un disinteresse per il terreno istituzionale»[14], i mezzi di questa subpolitica – «in primo luogo il boicottaggio, e la denuncia attiva e assolutamente nonviolenta delle ingiustizie globali –, sono tratti prevalentemente dalla vita quotidiana di chi li impiega (non implicano nessuna tecnologia di potenza). Sono costituiti [...] dalla “mobilitazione dei comportamenti quotidiani” (le proprie preferenze di consumo [...])»[15].
È una prospettiva che, secondo Revelli, va nella stessa direzione indicata da Ernesto Balducci e, sul versante laico, da Edgar Morin[16], e che consiste nell’«abbandono radicale di quella volontà di potenza che dopo la proclamata “morte di Dio” era assurta a legislatore del mondo conducendolo sull’orlo dell’abisso»[17].
Prospettiva che consiste nel «“guardare” l’Altro ([...] vederlo: percepirlo nella sua esistenza e identità – accorgersi che esiste)» e nel «guardare noi stessi con gli occhi dell’Altro»[18].
Dopo l’11 settembre, scrive Peter Singer, «è ora di sentirci cittadini globali. Bisogna cambiare l’idea di comunità: chi vive in Afghanistan è ora importante almeno quanto il tuo vicino di casa o il tuo connazionale. Fino ad ora credere che non fosse così è stato per le nazioni ricche solo immorale: adesso è anche pericoloso»[19].
Cittadini globali o uomini planetari, il cui elemento antropologico costitutivo è, secondo Balducci, «il rigetto della fiducia, tipica della tribù, che l’uso della forza sia idoneo a risolvere i conflitti tra i popoli»[20].
Per i quali la guerra è il proprio tabù, e la non-violenza il proprio codice comportamentale e la propria pratica strategica: «Il punto archimedico su cui poggiare la leva di un nuovo, radicalmente nuovo, statuto della politica»[21].
Lungi dall’essere un ritorno al paradigma degli antichi, questa prospettiva è «un’apertura in avanti del “paradigma dei moderni”, alla luce [... della] consapevolezza, faticosamente acquisita dopo la frattura e le catastrofi tardo-moderne, dell’insostenibilità “del dolore inferto all’innocente come prezzo dell’armonia universale”»[22].
Infatti, sostiene Zagrebelsky, «L’ingiustizia non può essere il prezzo di nessuna politica, per quanto alto e nobile sia l’ideale che questa persegue [...] Nessuna politica [può essere considerata] conforme a giustizia se il perseguimento del suo fine comporta il prezzo dell’ingiustizia, del male causato all’innocente»[23].
Su questa strada è possibile recuperare la giustizia distributiva e quella retributiva, e un terzo tipo di giustizia: quella riconciliativa o ricostitutiva. La quale «è una forma di trattamento “amicale” o “famigliare” dei torti» che implica «l’esistenza di un legame tra i contendenti [...] e la volontà di preservarlo [...] o di ripristinarlo se spezzato», ed ha nel ryb ebraico «il suo precedente arcaico» e nella Commissione per la verità e la riconciliazione istituita in Sudafrica nel 1995 «la sua esemplificazione contemporanea»[24].
Dunque né potenza, né forza, né violenza, né guerra, né morte, finanche nella lingua: «battaglia a vita» anziché «battaglia a morte», come quella che, secondo «la felice metafora biomedica con cui Roberto Esposito conclude il suo Immunitas, […] si gioca nel ventre materno nel corso di ogni gravidanza», durante la quale si assiste a un confronto vitale «con un corpo “altro” dentro il corpo» e i confini tra dentro e fuori sono pressoché inesistenti[25].
Infatti, come scriveva Hannah Arendt, ormai, «è in gioco non soltanto la libertà, ma la vita, la sopravvivenza dell’umanità e forse di ogni vita organica sulla terra. La questione che ne deriva rende discutibile tutta la politica; essa mette in dubbio che nelle circostanze attuali la politica sia compatibile con la conservazione della vita»[26].
Con la comparsa dell’arma atomica totale, «il politico minaccia proprio ciò che nell’opinione dell’età moderna costituisce la sua ragione d’essere: la possibilità di vita in quanto tale, e per di più dell’umanità intera. Se è vero che la politica non è altro che un male necessario alla sopravvivenza dell’umanità, allora essa ha davvero iniziato a togliersi di mezzo, in quanto il suo senso si è capovolto in insensatezza»[27].
Ma il significato originario della politica era quello di una entità che «nasce tra gli uomini», che «nasce nell’infra, e si afferma come relazione»[28].
Dunque, suggerisce Revelli, oggi conviene attribuire «a quell’infra il suo significato più proprio, di “discesa”, “abbassamento”, ritorno “tra noi”, nell’intimità degli interstizi intrapersonali, dove la relazione si è rotta e va ripristinata»[29].
A suo giudizio questa è già una realtà: migliaia di donne e uomini al lavoro negli interstizi del disordine globale «per sciogliere i grumi d’inimicizia che i dislivelli planetari [...] vanno con velocità crescente addensando»[30].
La “comunità maledetta” – secondo il titolo del libro di Aldo Bonomi che ricostruisce l’azione dal basso e l’operato delle Agenzie per la democrazia locale nei luoghi dell’odio e del ritorno del “male assoluto”[31] – opera «a riparare dal basso i danni che i flussi sradicanti dell’economia e della politica (del Mercato e dello Stato) producono. Sono loro che “vedono” (e raccontano) quello che i giornalisti professionisti ignorano passandogli accanto»[32]. Ed è «l’unico embrione, fragile, esposto, di uno spazio pubblico non avvelenato o devastato nella città planetaria»[33]. Quindi l’ultima speranza: «Non sono ancora il presente. Sono tutt’al più un vago presagio di futuro. Di una possibile, inedita, politica del futuro»[34]. Potranno fallire, conclude Revelli, «ma sarebbe una sconfitta, per tutti»[35].
[1] Ibidem.
[2] Ivi, p. 106.
[3] Elie Wiesel, La notte, cit., pp. 66-67, cit. in Revelli, p. 107.
[4] Ivi, pp. 39-40.
[5] Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, cit., pp. 21-22, cit. in Revelli, p. 110.
[6] Revelli, p. 111, che riporta anche questa frase di hans jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 36: «Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza».
[7] Ivi, p. 112.
[8] Ivi, pp. 119-120.
[9] Ivi, p. 121.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem, con un rimando a Marco Revelli, Oltre il Novecento, Torino, Einaudi, 2001.
[12] Ivi, p. 122.
[13] Ivi, p. 123.
[14] Ivi, p. 124.
[15] Ivi, p. 123.
[16] Cfr. Edgar Morin, Raul Motta, Emilio Ciurana, Eduquer pour l’ère planetaire, Paris, Balland, 2003.
[17] Revelli, p. 125.
[18] Ivi, p. 126.
[19] Peter Singer, One World: The ethics of globalization, London, New Haven, 2002, tr. it. One World. L’etica della globalizzazione, di Paola Cavalieri, Torino, Einaudi, 2003.
[20] Ernesto Balducci, La morale dell’uomo planetario, cit., p. 247.
[21] Revelli, p. 128.
[22] Ivi, p. 129.
[23] Gustavo Zagrebelsky, L’idea di giustizia e l’esperienza dell’ingiustizia, in Carlo Maria Martini, Gustavo Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Torino, Einaudi, 2003, p. 17.
[24] Revelli, p. 130.
[25] Ivi, pp. 131-132. Cfr. Roberto Esposito, Immunitas, Torino, Einaudi, 2002.
[26] Hannah Arendt, Was ist Politik, München, Piper, 1993, tr. it. Che cos’è la politica?, Torino, Comunità, 2001, p. 22, cit. in Revelli, p. 133.
[27] Hannah Arendt, Che cos’è la politica?, cit., p. 23.
[28] Ivi, p. 7.
[29] Revelli, p. 134.
[30] Ivi, p. 135.
[31] Aldo Bonomi, La comunità maledetta, Torino, Comunità, 2001.
[32] Revelli, p. 135.
[33] Ivi, p. 136.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
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