La politica ritrovata. XIII. Nei meandri della globalizzazione
XIII. Nei meandri della globalizzazione
Secondo Revelli, dunque, l’argomento tecnologico sostenuto da Beck e quello antropologico espresso da Balducci, conducono a considerare obsoleto il «paradigma politico dei moderni» e a questi due argomenti se ne aggiunge un terzo: quello geopolitico, fondato sulla considerazione che la globalizzazione, intesa come fenomeno assai più profondo di quello economico-finanziario – la mondializzazione dei mercati, delle merci e dei capitali – «capace di coinvolgere e mutare le coordinate essenziali della mentalità collettiva e dell’essere sociale»[1], rappresenta una sconnessione, o se si preferisce, una «rivoluzione spaziale».
… un mutamento dello statuto stesso della spazialità, che introduce un tipo di cesura – una svolta, appunto, di natura epocale –, paragonabile a quelle che spezzano il tempo periodizzandolo. Distinguendolo in differenti “epoche”.
Lo “spazio sociale” della globalizzazione – in ciò sta il suo carattere rivoluzionario, che lo rende diverso da tutto quanto è stato finora – è uno spazio globale (come dice la parola stessa). Dunque uno spazio “totale”, che coincide, senza apparenti residui, con l’intera estensione del pianeta (con il tutto spaziale che possiamo esperire); che esaurisce, per la prima volta nella storia, tutto lo spazio praticabile, trascendendo (e surdeterminando) ogni altro spazio “parziale”. Il fenomeno è percepito (e tematizzato), in prima approssimazione, come “sfondamento”, abbattimento di confini, cancellazione delle antiche linee di demarcazione e di segmentazione che frammentavano, fino a ieri, lo spazio planetario in spazi territoriali: «La globalizzazione – osserva opportunamente Carlo Galli – è essenzialmente sconfinamento, sfondamento di confini, deformazione di geografie politiche». Con essa – aggiunge – «si realizza per la prima volta nella storia dell’umanità l’unificazione del mondo. Di un mondo senza centro ma con molte periferie, unificato ma non unitario, tecnicizzato ed economicizzato ma non neutralizzato»[2].
Caduta dunque la distinzione tra «dentro» e «fuori», tra «interno» ed «esterno», non esiste più lo spazio entro il quale si costituiva l’ordine del modello securitario, con le barriere e i confini che lo separavano dallo spazio (o dal tempo) del disordine.
La globalizzazione porta così alle estreme conseguenze la contraddizione «che vedeva nella politica (in quel baricentro della politica che era lo Stato nazionale territorializzato) il luogo in cui il particolare si poteva autorappresentare come universale»[3].
La fine del «paradigma securitario della politica moderna» coincide, secondo Revelli, anche con il ritorno dell’ineguaglianza: «L’eguaglianza naturale degli uomini aveva costituito, come si è visto, il presupposto “antropologico” del discorso hobbesiano»[4].
È evidente che qui si parla di eguaglianza in un’accezione assai particolare. Spiega infatti Revelli:
L’eguale capacità degli uomini, quanto meno nell’infliggersi l’un l’altro, nella stessa misura, attraverso la forza o la frode, il peggiore dei mali immaginabile, la morte, era appunto ciò che rendeva invivibile lo “stato di natura”. Così come la pari dignità degli uomini nel comparire come contraenti del patto, era stato il fondamento giuridico del pactum societatis ac subiectionis[5].
Di più: «Immediatamente dopo la stipulazione del patto istitutivo del sovrano, gli uomini si presentavano di fronte ad esso [...] eguali nell’unico diritto naturale conservato, il più egualitario di tutti: quello alla vita»[6].
Esisteva un «ordine sociale» (e quindi delle diseguaglianze) ma «le società erano andate “accorciandosi”. Le distanze sociali riducendosi in misura direttamente proporzionale al bisogno di consenso e alla necessità di mediazione»[7].
Con il cedimento del patto istitutivo, con il logoramento della sovranità, con il risucchiamento dello «spazio liscio della statualità moderna» nello «spazio unificato ma non uniforme, indifferenziato ma non piatto dell’ipermodernità globalizzata, la struttura delle società torna a muoversi, ad “allungarsi”»[8]. Fino a stabilire «l’immodificabilità per via politica delle nuove diseguaglianze. L’insuperabilità su base volontaristica delle abissali fratture di reddito, e di status»[9]. Fino a fare «del disordine economico del mondo il modello insuperabile di una nuova, bizzarra, idea dell’ordine sociale, come in un nuovo Medioevo, in cui la volontà imperscrutabile dei mercati prende il posto dell’antica imperscrutabile volontà divina»[10].
Qui è indispensabile mettere in luce due concetti evidenziati e non sufficientemente sviluppati. Il primo è relativo all’eguaglianza, ontologica fin dai tempi di Hobbes, ma quasi sempre riferita all’essenza più che all’esistenza o all’essere. Uguali davanti a Dio e alla legge e nella Dichiarazione universale dei diritti umani, ma non dinanzi alla Chiesa, ai tribunali, agli eserciti, ai Parlamenti, nelle buste paga.
La seconda riguarda l’espressione «volontà imperscrutabile dei mercati» che «prende il posto dell’antica imperscrutabile volontà divina». Riuscitissima espressione perché effettivamente alla legge divina, sempre sovrastante quella umana, e perciò estensibile e orientabile a seconda delle convenienze, si è sostituita la legge del mercato, anch’essa mai scritta né legiferata da un’assemblea costituita e parimenti utilizzabile con arbitrio e totale discrezione.
Ma tanto il termine “imperscrutabile” quanto quello “divino” ci riportano a una “spettralità” con cui l’economia politica aveva già fatto i conti in passato, a quel carattere feticistico delle merci – alla loro capacità cioè di rappresentare qualcos’altro oltre che se stesse – e all’ancor più “fantasmagorica” natura del denaro.
Questa dematerializzazione spiritica connessa al commercio e all’arricchimento si è ingigantita oltre misura con l’affermarsi del capitalismo finanziario, valutario, borsistico, e ancor più con l’avvento dei processi informatici entro i quali non circolano neanche più monete ma parole di monete, simili a quel rumore del denaro con cui, l’anonimo autore del Duecento italiano che ha scritto Il novellino, nella novella che si intitola Qui si determina una quistione e sententia che fu data in Alessandria, fa pagare il poveraccio che, affamato, intrise il suo tozzo di pane secco nell’odore delle vivande che scaturiva da un’osteria e per il quale l’oste pretendeva un adeguato compenso[11].
Per l’iperpotenza dei flussi finanziari è lo stesso Revelli che si avvale del termine “fantasma”. Servendosene anche per un altro fenomeno che si materializza «nella penombra creata dal crepuscolo del “paradigma politico dei moderni”: il congedo dall’universo dei diritti. L’oblio di un modello di società fondato su un repertorio di diritti fondamentali garantiti pubblicamente da un potere capace di farli valere secondo una logica universalistica sia pur nello spazio particolare della propria sovranità. E il passaggio a una società strutturata su privilegi»[12].
È così che si è venuto a creare (o, a mio giudizio, si è sviluppato) «un mondo a molti strati, in cui in ogni singolo punto finiscono per operare “legalità” diverse, principii di autorità e di remunerazione differenziati, occasioni di immunità inedite»[13]. In una parola, ingiustizie.
Un mondo dove la democrazia non è più tale, perché dove non c’è giustizia, non ci sono diritti e dove non ci sono diritti non c’è democrazia. In Occidente, infatti, diritti e democrazia si sono diffusi contemporaneamente, l’uno come presupposto dell’altro.
La democrazia è la società dei cittadini, e i sudditi diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti alcuni diritti fondamentali[14].
Le democrazie, sostiene Revelli, sono in crisi, essendo «meno partecipative» e «meno responsabili verso i propri cittadini». Ma se si estenuano “all’interno”, vengono esportate “all’esterno”:
La crisi della spazialità statuale-nazionale, del suo modello di sovranità, in assenza di un’ingegneria istituzionale adeguata alle nuove dimensioni dello “spazio sociale” globalizzato, di meccanismi di garanzia e di tutela sganciati dall’antica cittadinanza e dotati di efficacia universale, si riflette direttamente sull’assetto democratico a base territoriale. Diviene direttamente crisi della democrazia, come regime fondato sulla “sovranità popolare”. Una democrazia che non sia più in grado di tutelare lo status di cittadino dei propri elettori, e la capacità di questi di determinare autonomamente le scelte dei propri rappresentanti, cessa di essere tale. Muta la propria natura[15].
Aggiunge subito dopo Revelli:
In un contesto nel quale le decisioni fondamentali sulle questioni che attengono direttamente ai problemi della vita e della morte dei propri cittadini, della loro salute, del loro regime alimentare, delle condizioni ambientali in cui vivono (in una parola, ai presupposti essenziali della “nuda vita”) siano sottratte ai diretti interessati, e demandate ad agenzie transnazionali, a tecnocrazie non elettive, o a gruppi finanziari, industriali e commerciali, non ha più senso parlare di “democrazia”. Neppure nel significato ristretto [...] di una pura “democrazia rappresentativa”. Ed è esattamente ciò che avviene oggi, quando istituzioni non rappresentative come il Wto, o il Fondo monetario internazionale, o la Banca mondiale, o gli organismi direttivi delle diverse alleanze militari macroregionali e delle diverse Agenzie continentali (Nafta, Asean, ma anche la Commissione Europea) assumono decisioni vitali (o mortali) nel campo delle politiche alimentari, energetiche, sul regime dell’acqua, sul clima, sui saperi e la loro circolazione, ecc. O quando decisioni cruciali (come la partecipazione a una guerra) vengono prese “di concerto” tra i vertici politico-militari-diplomatici dei diversi paesi, ignorando la volontà dei rispettivi corpi elettorali, e talvolta, violando apertamente le rispettive carte costituzionali[16].
Un terzo fantasma per Revelli si aggira con la fusione, imprevista, di religione e politica: la ripoliticizzazione del sacro, la risacralizzazione del profano. Il paradigma politico dei moderni aveva separato «le ragioni del Potere da quelle di Dio»[17], portando l’esercizio del male fuori dal Tempio. Neanche l’apologia nichilista del negativo né la precipitazione dei totalitarismi avevano rimescolato religione e politica. Ora invece, «il conflitto politico torna a colorarsi delle tonalità cupe del conflitto religioso»[18].
E non solo di quelle del fondamentalismo islamico, nel quale forte è l’«implicazione di politica e morale». In esso la congiunzione di politico e religioso, «rischia di innescare quel cortocircuito potenzialmente distruttivo, che nei casi estremi finisce per santificarne le pratiche, anche le più immorali. [...] Per fare, appunto, del potere “la spada di Dio”. E del conflitto una “Guerra santa”»[19].
Torna a colorarsi delle tonalità cupe anche «dell’altro fondamentalismo – l’unico, forse l’ultimo, fondamentalismo occidentale sopravvissuto –: quello americano». Erede di quella «frattura religiosa che sta all’origine della nascita degli Stati Uniti come nazione, e che affonda appunto le proprie radici nell’ala marciante e militante del movimento protestante: nel puritanesimo politico»[20].
L’idea della «responsabilità americana [...] di risolvere i problemi del mondo»[21], di «un “destino manifesto”, di origine provvidenziale, a fare del modello di vita e di governo americano – il Paradiso, così come la politica terrena può realizzarlo – “la causa di tutta l’umanità”»[22] emerge dal manifesto più esplicito dell’amministrazione Bush e del “new conservatorism”, quel Paradiso e potere di Robert Kagan che riproduce ossessivamente il paradigma securitario moderno, con un’affermazione rozza e feticistica dell’impianto hobbesiano. Il quale viene attribuito, insieme al machiavellismo, agli americani, lasciando all’Europa l’eredità idealistica di Kant.
Ma, sostiene Revelli, Kagan tradisce i postulati essenziali di Hobbes, perché «quella condizione di libertà del potente in funzione della sua forza particolare – forza “privata”, non legittimata da nessun patto –, più che il prodotto della “società civile” ben ordinata dal Leviatano, è piuttosto la tipica situazione da “stato di natura” hobbesiano. E, appunto, la condizione insopportabile e mortale della guerra di tutti contro tutti, nella quale ognuno cerca di esercitare tutto il potere che la sua forza o la sua astuzia gli permettono»[23].
Nell’«attuale aspirazione americana alla sovranità in quanto dominio “del più forte”» non c’è traccia del patto hobbesiano tra tutti i contraenti, della “devoluzione” di forza e potere da parte di tutti verso uno solo, il sovrano legibus solutus. Anzi, «la logica pattizia è esattamente ciò contro cui lavora la politica americana»[24].
L’argomento di Kagan, dunque, più che a Hobbes, sembra avvicinarsi a Nietzsche, secondo il quale «ovunque viene esercitata giustizia e giustizia viene mantenuta, si vede una potenza più forte, in rapporto ai più deboli ad essa sottostanti [...] un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come strumento nella lotta di complessi di potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in generale [...], sarebbe un principio ostile alla vita, un attentato all’avvenire dell’uomo, un indice di stanchezza, una via traversa verso il nulla»[25].
Così il paradigma politico dei moderni implode verso un buco nero, che non libera e non consente di liberare energie positive, «in avanti», ma risospinge “al di qua” della linea di demarcazione della modernità. Perciò Revelli auspica un «nuovo paradigma [...] per una politica dell’“al di là”»[26].
[1] Ivi, p. 82.
[2] Ivi, p. 84. La citazione è da Carlo Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 133.
[3] Revelli, p. 89.
[4] Ivi, p. 91.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 92.
[7] Ivi, pp. 92-93.
[8] Ivi, p. 93.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem. Si noti l’uso berdjaeviano dell’espressione «nuovo Medievo».
[11] Anonimo, Qui si determina una quistione e sententia che fu data in Alessandria, in Il novellino, a c. di A. Conte, Salerno, Edizioni Roma, 2001. Si veda anche al riguardo Antonio Gramsci, I quaderni del carcere, cit., quaderno 11, par. 32.
[12] Revelli, pp. 93-94.
[13] Ivi, p. 94.
[14] Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, p. vii, cit. in Revelli, p. 94.
[15] Revelli, p. 95.
[16] Ivi, p. 96.
[17] Ivi, p. 97.
[18] Ivi, p. 98.
[19] Ivi, p. 99.
[20] 99 Ivi, p. 100.
[21] Robert Kagan, Of Paradise and Power, New York, Random House, 2003, tr. it. Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Milano, Mondadori, 2003, p. 106, cit in Revelli, p. 103.
[22] Revelli, p. 103.
[23] Ivi, p. 104.
[24] Ivi, p. 105.
[25] Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, cit., pp. 64-65, cit. in Revelli, p. 105.
[26] Revelli, p. 106.
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