La politica ritrovata. XII. La fine della Storia
XII. La fine della Storia
La possibilità di un’inversione di tendenza e di imboccare un’altra strada – che non faccia piazza pulita di tutto quello che abbiamo avuto finora, ma di parecchio sì – sarebbe molto favorita dal comprendere che Cernobyl è l’esempio più tipico di quell’insicurezza causata non dalla natura, ma dalla tecnologia, cioè dall’uomo.
Ma non sembra aiutarci in questo senso neanche lo scenario apocalittico e catastrofico che giustamente Revelli paventa descrivendo la «società globale del rischio» e citando, appunto, l’esempio di Cernobyl. Aggiunge, infatti, poco dopo:
Ma ne fanno parte anche “l’effetto serra” e i mutamenti climatici potenzialmente catastrofici ad esso connessi, il buco dell’ozono, la desertificazione, il fenomeno della “mucca pazza”, i pericoli impliciti nell’ingegneria genetica e nelle biotecnologie (a cominciare dai timori sanitari e sociali relativi agli organismi geneticamente modificati), i rischi di black out e di paralisi di interi settori vitali per effetto di crash generati sulla rete informatica da virus o da semplici incidenti tecnici. E persino le crisi finanziarie, in un mondo in cui i flussi di denaro hanno raggiunto dimensioni e velocità di circolazione tali da poter provocare la devastazione di interi territori, esattamente come le carestie dell’antichità (si pensi all’Argentina, e prima al Far East asiatico). Oltre naturalmente al terrorismo post-novecentesco[1].
In campo teorico, relativo cioè alle teorie della politica, com’è quello che percorre Revelli, sulle cui orme ci stiamo muovendo anche noi, è importante mettere a fuoco che la delocalizzazione, l’incalcolabilità e l’indicibilità istituzionale sono elementi comuni fondamentali di questa «società globale del rischio» che può tranquillamente essere ribattezzata «società dell’incertezza» o «società dell’insicurezza».
Può anche esserci utile comprendere che oggi, come nel Libro di Giobbe, il male «non è più imputabile a nessuno», non più per ragioni mistiche, ma per ragioni tecniche. Parimenti è doveroso notare che «il gioco del potere “moderno” [...] rischi di somigliare sempre più a un tragico esercizio di apprendisti stregoni»[2].
Ma se si passa in campo pratico, quello dove la politica avviene davvero, abbiamo bisogno di altro, ed è maledettamente difficile dire di cosa. È qui che Revelli ci suggerisce un percorso «antropologico» che prende come punto di riferimento le riflessioni scritte da padre Ernesto Balducci all’indomani dell’invasione irachena in Kuwait nell’agosto del 1990.
Il punto di forza di quelle riflessioni è costituito, sostanzialmente, dal riconoscimento delle Nazioni Unite quale strumento di affermazione della razionalità giuridica e del diritto cosmopolitico al posto della guerra e, quindi, quale possibilità di «fine della guerra come strumento di giustizia»[3] e, conseguentemente, di «fine dell’uso della forza come mezzo politico legittimato»[4].
Revelli non lo scrive, ma è evidente che un tale riconoscimento delle Nazioni Unite corrisponde al riconoscimento di un nuovo Leviatano su scala globale.
La riflessione di Balducci si fondava sulla constatazione di quella svolta assiale – il novum radicale emerso nel corso del xx secolo – «in particolare in quella specifica congiuntura catastrofica che ne costituisce il cuore di tenebra e che si colloca [...] in quegli anni quaranta in cui, in rapida successione, gli orrori della “guerra mondiale totale” lasciarono intravedere quel riaffiorare del male assoluto nella storia»[5].
Dopo di allora, «nel nostro tempo, nel tempo che viene dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo Nagasaki, dopo l’esplosione della distruttività totale dentro la civiltà della tecnica novecentesca»[6], la guerra è impensabile, razionalmente improponibile, «un’istituzione superata dall’evoluzione dell’umanità»[7]. Dopo di allora, cioè ora, ma solo «ora, si badi, non in ogni tempo e in ogni luogo»[8].
Impensabile e razionalmente improponibile perché destinata «a non raggiungere il fine propostosi ma a produrre risultati esattamente opposti a quelli desiderati»; perché «strumento ormai incontrollabile, non delimitabile nei propri confini e nel proprio sviluppo»; perché «moralmente inaccettabile»[9].
L’intera storia universale, dunque, fa i conti con una novità assolutamente inedita, quella della possibilità di una distruzione (estinzione) totale dell’umanità per opera dell’umanità stessa, di una messa in discussione totale, finale, della specie che segnerebbe la fine di ogni qui e di ogni ora[10].
Se in tutte le epoche la Storia era data, ora la Storia stessa non è più sicura. Si apre dunque «un tempo che dà torto a tutti» e che insieme «dà ragione alla speranza di tutti»[11]. Un tempo che impone «una riforma radicale – etica e politica – del proprio universo mentale e comportamentale»[12].
Riforma che dovrebbe seguire «il percorso inverso rispetto a quello compiuto da Nietzsche un secolo addietro: non dalla volontà di potenza, non dal delirio di onnipotenza dell’uomo armato della tecnica, nasce il “rovesciamento di tutti i valori”, ma all’opposto da questa dichiarazione di fragilità»[13]. Di fragilità e quindi di insicurezza.
[1] Revelli, p. 72.
[2] Ivi, p. 73.
[3] Ernesto Balducci, La comunità mondiale al primo vagito, in «l’Unità», 28 agosto 1990.
[4] Revelli, p. 77.
[5] Ivi, p. 76.
[6] Ivi, p. 77.
[7] Ernesto Balducci, La comunità mondiale al primo vagito, cit., in Revelli, p. 76.
[8] Revelli, p. 77.
[9] Ivi, p. 76.
[10] Cfr. ivi, p. 78. Fra le tante voci sull’argomento merita ricordare le parole di Palmiro Togliatti pronunciate in un discorso a Bergamo il 20 marzo 1963 e pubblicate poi su «Rinascita», xx, n. 13, 30 marzo 1963 col titolo Il destino dell’uomo: «Eccoci così di fronte alla terribile, spaventosa “novità”; l’uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità. La guerra diventa cosa diversa da ciò che mai sia stata. Diventa il possibile suicidio di tutti, di tutti gli esseri umani e di tutta la loro civiltà. E la pace, a cui sempre si è pensato come ad un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: diventa una necessità, se l’uomo non vuole annientare se stesso». Ora in Da Gramsci a Berlinguer, a c. di Orazio Pugliese, Venezia, Edizioni del Calendario – Marsilio, 1985, vol. v, p. 390.
[11] Ernesto Balducci, La morale dell’uomo planetario, in «Testimonianze», n. 281, 1986, cit. in Revelli, p. 79.
[12] Revelli, p. 80.
[13] Ivi, p. 81.
Tags: Ernesto Balducci, Friedrich Nietzsche, Giobbe, La politica ritrovata, Marco Revelli