La politica ritrovata. XI. Oltre la catastrofe
XI. Oltre la catastrofe
Non abbiamo ancora risposto alle domande poste in apertura del capitolo IX. Lì ci siamo limitati a riconoscere i rischi apocalittici presenti nella nostra epoca, ma anche a relativizzarli, a privarli dell’aura di inesorabilità con cui spesso vengono presentati. Ma non abbiamo risposto al quesito se abbia senso sventolare il fantasma dell’apocalisse per imboccare una strada diversa da quella intrapresa finora che sembra condurci alla sconfitta totale e per lasciare la quale, appunto, sembra indispensabile ricorrere a una nuova politica.
Ebbene, la risposta a quell’interrogativo è negativa: non è lo spauracchio della catastrofe che può indurre un ripensamento, un’inversione di tendenza. Non è stato così negli ultimi sessant’anni, nemmeno in quelli caratterizzati dalla stessa guerra fredda e dalla corsa al riarmo; non si comprende perché dovrebbe essere così oggi, quando gli ordigni nucleari sono maggiormente alla portata di mano di più soggetti? Siamo passati indenni anche al suggestivo passaggio di millennio e alle paure che lo hanno preceduto.
Del resto è noto che la conoscenza e addirittura la persuasione mediante immagini choccanti degli effetti nocivi, letali, del tabacco, o dell’alcol, o di un eccesso di proteine e grassi, non costituiscono al 100% il deterrente contro il fumo, il bere, le diete ipercaloriche e, malgrado il terrorismo, si continuano a consumare copiosamente sigarette, whisky e hamburger. Discorso simile si può fare per le malattie veneree o gli incidenti stradali.
Più convincente in questi campi risulta essere la paura diretta, provata, la conoscenza scaturita dall’esperienza, qualcosa cioè che si forma nella mente degli esseri umani dal loro interno, o meglio, dalla congiunzione tra il loro interno e il loro esterno, quella coscienza a cui abbiamo fatto riferimento.
Non sono quindi le grida d’allarme per l’incipiente fine del mondo a poter dissuadere gli uomini dalla distruzione del mondo. Ciò non toglie, naturalmente, che chi si sente di dire che il nostro operato ci sta conducendo verso la catastrofe, possa o debba esprimerlo, fare presente, paventarlo. Ma le profezie non modificano il mondo.
La sterminata – e spesso meravigliosa – letteratura apocalittica che ha accompagnato i primi quarant’anni del Novecento non ha impedito che si svolgessero due conflitti mondiali e, per quanto essi siano stati enormemente tragici ed epocali, nessuno dei due ha coinciso con la fine del mondo, il quale, per quanto male, ha continuato ad esistere anche dopo.
La vita e la storia dovrebbero insegnare che non sempre, ma spesso, specialmente nelle situazioni più critiche, si presentano condizioni nuove, inaspettate, impreviste, che fanno prendere agli eventi e al corso delle cose pieghe che nessuno aveva e avrebbe potuto presupporre o anche solo immaginare.
Noi sappiamo che ordigni mostruosi minacciano la nostra esistenza e che la stessa natura – dai batteri alla struttura genetica della soia, alla composizione dell’atmosfera o dell’acqua presente sul pianeta, fino alla presenza dei corpi nello spazio o alle condizioni climatiche e alle influenze del Sole sulla Terra – è stata profondamente mutata, portandoci molte conquiste e anche un buon numero di nuovi problemi. Ma non possiamo prevedere tutte le reazioni conseguenti alle nostre azioni e nemmeno, in virtù di quelle che conosciamo, votarci alla totale inazione, cioè all’assenza della vita.
Sappiamo che siamo 8 miliardi su questo affollato pianeta, e che siamo cresciuti negli ultimi 300 anni come mai era avvenuto da quando l’uomo esiste. Probabilmente abbiamo trovato il modo di produrre cibo per tutti – non ancora quello di distribuirlo equamente –, ma certamente non potremo garantire un’auto a tutti, neanche ricorrendo a fonti energetiche rinnovabili e non inquinanti. In qualche parte del mondo abbiamo anche imparato a regolamentare le nascite, e ciò nonostante non possiamo smettere di fare l’amore e, di tanto in tanto, di far nascere dei bambini.
Possiamo, ascoltando Nietzsche, finalmente preferire il “non volere” al “volere il nulla”[1], ma bisogna pur “volere” per preferire quel “non volere”, per non restare inerti sprofondati su una poltrona.
E bisogna sempre tenere presente che «essendo la realtà il risultato di una applicazione della volontà umana alla società delle cose (del macchinista alla macchina), prescindere da ogni elemento volontario o calcolare solo l’intervento delle altrui volontà come elemento oggettivo del gioco generale, mutila la realtà stessa. Solo chi fortemente vuole identifica gli elementi necessari alla realizzazione della sua volontà»[2].
Occorre quindi anche una certa dose di fatalismo, di condiscendenza verso se stessi, affinché il pur doveroso monito morale che legittimamente deve operare dentro di noi, e dal quale dobbiamo attenderci che venga posto un freno a quelle nostre azioni che potrebbero contribuire a offendere il mondo, non diventi l’impedimento assoluto all’operare.
L’essere inermi ed inerti, infatti, può essere, in alcune occasioni, grave quanto l’essere attivi e combattivi: l’adesione a un ideale che nel suo svolgimento pratico ha causato la morte di un così gran numero di innocenti – com’è stato, per esempio, il caso del comunismo – obbliga chi vi ha aderito a considerare il proprio ruolo e la propria compartecipazione al crimine, ma se questa considerazione “annichilisce” e induce a un comportamento che rifiuta da quel momento in poi l’assunzione di qualsiasi responsabilità per non macchiarsi di nuovi e orrendi misfatti, si diventa nuovamente colpevoli, al pari dei tanti polacchi o dei tanti tedeschi che fecero finta di non vedere i campi di sterminio.
Le scelte morali, infatti, non si fanno una volta per tutte nella vita, ma vanno ribadite in continuazione e proprio chi le fa una volta per tutte nella vita è condannato a rifarle in eterno, finché campa, senza mai abbassare la guardia. E se spesso si tratta di scegliere il male minore, e non tra il male e il bene, non sempre tertium non datur. La fantasia, l’intelligenza, l’obiezione, la tenacia, l’ostinazione, il coraggio, il dubbio possono, a volte, fornire quelle condizioni nuove, inaspettate, impreviste, che, specialmente nelle situazioni più critiche, fanno prendere agli eventi e al corso delle cose pieghe che nessuno aveva e avrebbe potuto presupporre o anche solo immaginare
Dunque, l’alternativa secca tra qualcosa e la fine del mondo è un problema mal posto, senza per questo non accorgersi che molte cose possono spingerci verso la fine del mondo. Ma tra i due estremi di un dilemma assoluto forse esiste una terza via, e magari, cercando bene, anche una quarta o una quinta. Certo si tratta di volerla cercare, e questo è un compito della politica.
[1] Cfr. Friedrich Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, 1887, tr. it. Genealogia della morale. Scelta di frammenti postumi 1886-1887, di Ferruccio Masini e Sossio Giametta, a c. di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Milano, Mondadori, 1979, p. 141.
[2] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a c. di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. III, p. 1811.
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“Certo si tratta di volerla cercare, e questo è un compito della politica.”
A mio parere la politica quale espressione del pensiero “comune”, quale interprete delle paure, delle ansie, delle ambizioni dell’uomo votante non ha in se la capacità di cercare altre vie, vie che non siano prevedibili, scontate e quindi inutili ad un vero cambiamento. Il cambiamento, la ricerca di un terza, quarta, quinta via, può essere solo un percorso individuale maturato in seguito non a minacce o previsioni di catastrofi ma in seguito a catastrofi effettivamente subite, personali o collettive. Se si sopravvive si apre una finestra che ci regala la possibilità di cambiare, altrimenti si rimane come si è. Insomma sono arrivato al punto di credere che per vedere un qualche effettivo cambiamento ci vogliano davvero una o più di una di grosse mazzate. Qualsiasi cosa noi facciamo (o non facciamo) non possiamo sapere quali conseguenze avrà e dove ci porterà, quali conseguenze avra su di noi e su quelli che ci circondono. L’unica vera scelta disponibile quindi sembrerebbe nel modo in cui facciamo le cose.
Fare qualunque cosa con consapevolezza cercando di farla nel miglior modo possibile, in modo impeccabile come fosse l’ultima cosa che facciamo in questa vita dovrebbe essere il modo di procedere.
Be, caro Bruno, a me pare una cosa molto importante il fatto che l’argomento t’interessi, che tu abbia delle opinioni a riguardo e ti senta di esprimerle. Non so se il punto sta nelle mazzate. Buona lettura.
Daniele