La politica ritrovata. X. La crisi della politica

X. La crisi della politica

Gustave Doré, La distruzione del Leviatano

Non è del resto l’attribuzione alla seconda guerra del Golfo di un qualche primato, di un punto di svolta, a modificare il corso delle cose e la sostanza del problema. Al di là della sua data di origine, il fenomeno resta. Ma è tale da giustificare l’affermazione che «il “paradigma politico dei moderni” non funziona più»? È tale da mettere «sotto critica una politica (sia pure la politica dell’unica superpotenza mondiale)», come suggerisce poco oltre Revelli e, di più, da colpire al cuore «l’idea stessa di politica così come la conosciamo oggi», destituendo «di senso il paradigma “securitario”»[1]?

La mia opinione, l’ho già sostenuto, è che il paradigma politico dei moderni non abbia mai funzionato. O meglio non abbia funzionato nel senso che proprio quel paradigma ci indicava. E che perciò sia un altro il paradigma politico dei moderni che ha funzionato: non quello pattizio, non quello securitario.

La mia opinione è che il Leviatano non cessi ora «di essere quel “dio mortale” che la teologia civile hobbesiana aveva inventato», e non solo ora torni «nella propria palude, mostro tra gli altri mostri»[2].

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La mia opinione è che da quella palude non sia mai uscito, benché per Hobbes fosse non un mostro, ma un dio mortale, o, molto più semplicemente, la descrizione di cosa possa essere uno Stato moderno.

Questo ovviamente non impedisce di mettere «sotto critica una politica (sia pure la politica dell’unica superpotenza mondiale)» e, di più, di colpire al cuore «l’idea stessa di politica così come la conosciamo oggi», destituendo «di senso il paradigma “securitario”»[3].

Fuor dal sacro e dalla mitologia Revelli spiega:

l’intero progetto di costruzione pattizia del potere sovrano si decostruisce e perde di significato. Se la vita collettiva non è più garantita (né garantibile) mediante il trasferimento integrale e assoluto della capacità di esercizio della forza dagli individui privati alla mano pubblica (se quello della violenza, anche della violenza estrema, totale, dal vecchio regime di monopolio si converte in mercato libero-concorrenziale), non v’è più alcun motivo per riconoscere al potere sovrano la sua “sovranità”[4].

Si tratta ovviamente di notare che il patto democratico ha funzionato, e mai neanche tanto bene, solo finché ha garantito un mercato libero-concorrenziale in qualche maniera ordinato e reciproco. Non solo cioè lo spirito d’impresa che sta alla base delle relazioni sociali fondate su quel modello economico, ma anche le istanze di chi produceva per quel mercato.

Il paradigma securitario si fonda anche sul «io lavoro e tu mi paghi», sul «io ti consento di guadagnare più di me, di avere un profitto, ma tu consenti che io abbia di che vivere». E le frasi, ovviamente, possono essere invertite: «Io ti pago, ma tu lavori», così come «Io guadagno più di te ed ho un profitto, ma ti consento di vivere».

Ma tra Occidente e Terzo mondo i fondamenti di questo paradigma sono sempre stati in prossimità della soglia di sopravvivenza, ovvero sia assai lontani da una dimensione securitaria. E il gioco ha funzionato almeno da quando è stata scoperta l’America e poi giù giù durante tutto il colonialismo, che non è terminato di fatto neanche con la dichiarazione di indipendenza di alcuni popoli.

C’è quindi da credere che il partito dei pochissimi che hanno la forza e che – facendosi schermo con un nuovo teorema securitario, fondato sul reale rischio che uno sparuto gruppo di terroristi integralisti possa seminare morte negli Usa o altrove (ma solo nella misura in cui queste morti altrove possano contribuire a destabilizzare la sicurezza Usa) – di quella forza fanno uso in proprio, non più delegandola a un Leviatano condiviso, e non solo per difendersi ma anche per tutelare i propri interessi politici, economici, militari, difficilmente acconsentano non solo a rinunciare a quella forza, ma nemmeno siano disposti a ritenere che siamo nella «società globale del rischio». O meglio, sì, lo siamo, ma nella «società globale del rischio calcolato» entro cui le probabilità che qualcuno si salvi e gli altri no sono assai più alte di quelle che tutti siamo a rischio.

La distruzione delle foreste, la corsa agli armamenti, l’uso indiscriminato di sostanze pesantemente inquinanti per il pianeta, la costruzione stessa di un’economia mondiale fittizia e virtuale che può crollare su se stessa ad ogni alito di vento, non sembrano preoccupare le classi dominanti sparse ai quattro angoli del pianeta e quelle a loro più strettamente vicine.

È molto improbabile che costoro siano disposti a riconoscere che la «“società globale del rischio” è quella in cui minacce di portata transnazionale – di estensione quindi senza precedenti – sono il prodotto di decisioni umane e si presentano come conseguenze impreviste (e forse imprevedibili) di eventi tecnologici di cui è stato perso il controllo. Implica cioè un mondo ormai integralmente “fabbricato”, nel quale le sfide alla sopravvivenza umana non provengono tanto da una natura “selvaggia” non sufficientemente domata quanto, al contrario, e imprevedibilmente, da quei medesimi mezzi tecnici che erano stati progettati e concepiti come strumenti di dominio sulla natura e di “sicurizzazione” dell’habitat umano»[5].

Qui, ovviamente, si potrebbe discutere a lungo se, a quasi cinquecento anni dalle principali scoperte scientifiche che hanno rasserenato l’animo degli esseri umani, strappandolo finalmente da quel panico che per millenni lo aveva atterrito dinanzi alla forza della natura, e, soprattutto, con tutte le conquiste ottenute in questo lungo arco di tempo, abbia ancora senso pensare, come in realtà facciamo, alla nostra scienza e alla nostra tecnologia considerandole, insieme ai loro prodotti, strumenti di dominio sulla natura e non di convivenza con la natura.

Ci si potrebbe cioè chiedere se non resti totalmente attuale quell’invito a «umanizzare la natura e naturalizzare l’uomo» del quale ci siamo sbrigativamente sbarazzati gettando via con il pesante fardello della rivoluzione bolscevica anche il lieve sostegno del marxismo.

E ci si deve ovviamente chiedere come si possa, senza ricorrere alla forza, impedirne l’uso a coloro che invece vogliono continuare a dominare la natura perché intendono dominare anche quel particolarissimo pezzo di natura che è l’essere umano, traendo da esso profitto e qualcosa che si vuol concedere a se stessi ma non agli altri, anzi, che si ritiene proprio diritto ma non diritto altrui.

Perché il segreto di un’eventuale politica ritrovata sta qui e solo qui. Senza scomodare né i nostri filosofi né tanto meno le nostre divagazioni religiose.

È intorno a parole come libertà, consapevolezza, consenso che si gioca la sfida non tanto e non solo della possibilità di recuperare il maggior numero possibile di persone alla politica, ma di recuperare la politica all’attenzione del maggior numero possibile di persone. Il che automaticamente vuol dire anche all’attenzione del minor numero possibile, il singolo, la persona, perché ognuna di esse ha uno specifico da far valere nel confronto con gli altri.


[1] Revelli, p. 69.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 70.

[5] Ivi, p. 72.

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