La politica ritrovata. IX. Il fantasma dell’Apocalisse
IX. Il fantasma dell’Apocalisse
Ma ha senso sventolare il fantasma dell’Apocalisse per invitare alla politica e per spingere chi fa politica a una politica che
escluda il ricorso alla forza? Che affermi se stessa contro la guerra essendo questa la negazione della politica? Che persegua quei fini che non distruggono il mondo evitandogli la fine?
E ancora, quali sono quei fini che non distruggono il mondo evitandogli la fine? Tolta la guerra, è più securitario e preservativo distribuire equamente le ricchezze nel mondo, o lasciarle in poche mani, o proporre una sobria povertà per tutti? E infine, che strumenti abbiamo per perseguire uno di questi fini, una volta deciso quale di essi sia quello che non distrugge il mondo evitandogli la fine?
Proviamo ad affrontare la prima di queste domande, dalla cui risposta potrebbero scaturire importanti suggerimenti anche per soddisfare le altre.
È almeno dall’81-96 d.C. – ma senz’altro da prima, in culture diverse dalla nostra –, con la stesura dell’Apocalisse di Giovanni, che facciamo i conti con la possibilità (e la paura) della fine del mondo, di cui sembra abbiamo più timore che della nostra unica, miserrima, certa fine. Di cose orrende da allora ne sono successe, e ogni generazione, probabilmente, ha assistito ad avvenimenti eccezionali che sembravano minare la sicurezza di tutti: guerre, persecuzioni, carestie, pestilenze.
Qualche volta ci siamo stati davvero vicini, e indenni non ne saremo mai. Ciò nonostante tutti gli apocalittici, in ogni epoca, hanno quasi sempre trasferito su un piano universale qualcosa che invece stava avvenendo su un piano particolare, relativo a un individuo, a un gruppo di persone, a una classe, a una società, a uno Stato, non al mondo.
Altrove però, e contemporaneamente, altri individui stavano facendo l’amore e mettendo al mondo un bambino[1].
Certamente oggi, intendendo per oggi gli ultimi cinquant’anni, – e non perché ci siamo noi e non più gli apocalittici del passato o non ancora gli apocalittici del futuro, ma per quest’ultimi il discorso è assai difficile – certamente oggi il rischio è enormemente forte. Alcuni prodotti della nostra tecnologia – l’energia atomica innanzitutto, ma anche virus prodotti in laboratorio, le grandi quantità di veleni che spargiamo in cielo, in terra e in acqua – e sopratutto la dimostrazione della nostra miopia, del nostro scarso buon senso, della difficoltà a reprimere o indirizzare diversamente ciò che di più abietto può agitare i nostri animi, dell’incapacità a ritenere primaria la salute della specie anziché il soddisfacimento di certi propri presupposti bisogni, ci espongono a rischi se non più ampi, certamente aggiuntivi a quelli potenzialmente derivanti dal moto dei pianeti, di altri corpi celesti o dall’esistenza di improbabili altri esseri ostili su di essi, dalle impennate della biologia quando ha seminato peste e altre epidemie, dall’andamento dei raccolti, dai movimenti della placca terrestre e di ciò che vi ribolle sotto.
Non è perciò sbagliato assumere la definizione di Ulrich Beck che Revelli riporta nel suo libro: quella di «società globale del rischio»[2].
In effetti siamo «nel mondo post-novecentesco – dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo lo sterminio sociale staliniano, dopo le guerre totali – in cui la possibilità reale della distruzione del genere umano per opera dell’umanità stessa è entrata a far parte stabilmente dell’orizzonte storico». In effetti siamo «nel contesto inedito prodotto da quella “rivoluzione spaziale” che va sotto il nome di globalizzazione, in cui l’idea stessa di spazio esterno perde di senso, e tutto finisce per essere – praticamente senza residui – “interno” e “interdipendente”». E in effetti qui e ora «quell’impiego concentrato della violenza cui si affidava il modello politico hobbesiano-weberiano non trova più risultati possibili capaci di giustificarlo»[3].
L’uso positivo del negativo, del male e della forza per impedire il male e la forza, «non è più sostenibile. Non solo dal punto di vista etico [... ma] neppure da quello tecnico»[4].
Infatti ingegneria genetica, nanotecnologia, robotica, a differenza delle «tradizionali» armi atomiche e biologiche sarebbero «scoperte tecnologiche basate su nozioni scientifiche che possono essere facilmente diffuse e che si evolvono in continuazione, impedendo allo Stato di esercitare quel monopolio o controllo a cui erano invece soggette le armi atomiche e biochimiche, che dipendevano dalla disponibilità di determinati materiali e risorse (uranio arricchito e costosi laboratori)»[5].
A questo si dovrebbe aggiungere che il potere economico di certi gruppi industriali, nazionali o multinazionali, è ormai spesso assai più forte di quello di taluni Stati[6] e che la tendenza alla deregulation e al liberismo assoluto impediscono controlli appropriati sullo sviluppo di quelle ed altre tecnologie, come per esempio quelle comunicative e persuasive.
Ecco dunque l’evento epocale: «Dal punto di vista politico – scrive Beck –, l’acquisizione di potere da parte degli individui nei confronti degli Stati segnerebbe l’inizio di una nuova èra della storia mondiale, provocando il crollo dei muri che separano non solo i militari e la società civile, ma anche i colpevoli e gli innocenti, i sospetti e i non sospetti»[7].
Naturalmente, più che di crollo dei muri, sarebbe opportuno parlare di oltrepassamento dei limiti o di superamenti dei confini e, più che di acquisizione di potere da parte degli individui nei confronti degli Stati, di predominio del privato sul pubblico, di acquisizione di potere da parte di pochi individui nei confronti dei molti, dei più. E infatti giustamente Beck può parlare poco oltre di «morte della democrazia»[8].
Che tutto ciò identifichi un ben preciso periodo della storia dell’umanità – quello caratterizzato da quel fenomeno che chiamiamo globalizzazione, ed in particolare tale periodo dopo l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre – è innegabile, ma è difficile dire se si tratti effettivamente sotto tutti i punti di vista dell’«inizio di una nuova èra della storia mondiale», giacché l’omologazione di militari e civili, di colpevoli e innocenti, di sospetti e insospettabili è riscontrabile almeno fin dall’avvento del nazismo in Germania ed in particolare in quell’unicum storico che è l’esperienza concentrazionaria hitleriana, come ha lucidamente notato Rosellina Balbi nel suo Madre paura[9].
[1] Cfr. Primo Levi, Se non ora, quando?, Torino, Einaudi, 1982, p. 259.
[2] Ulrich Beck, Das Schweigen der Wörter. Uber Terror und Krieg, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2002, tr. it. Un mondo a rischio, Torino, Einaudi, 2003.
[3] Revelli, p. 67, come del resto le citazioni precedenti.
[4] Ivi, p. 66.
[5] Ulrich Beck, Un mondo a rischio, cit., p. 24, cit. in Revelli, p. 68
[6] Nel 1995 il fatturato della Mitsubishi ammontava a quasi 362 mila milioni di dollari contro i quasi 338, 320 e 251 mila milioni di dollari che rappresentavano nello stesso anno il prodotto interno lordo rispettivamente di Australia, India e Belgio. Cfr. Manlio Dinucci, Il sistema globale, Bologna, Zanichelli, 1998, p. 21.
[7] Ulrich Beck, Un mondo a rischio, cit., pp. 24-25, cit. in revelli, p. 68.
[8] «In una simile circostanza chiunque potrebbe essere un potenziale terrorista e dovrebbe quindi accettare, pur senza aver fornito alcun pretesto al riguardo, di sottoporsi a controlli “per motivi di sicurezza”. Con la conseguenza che, alla fine, l’individualizzazione della guerra porterebbe alla morte della democrazia». Ibidem.
[9] Cfr. Rosellina Balbi, Madre paura. Quell’istinto antichissimo che domina la vita e percorre la storia, Milano, Mondadori, 1984, in particolare i cap. v e vi.
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