La politica ritrovata. VIII. Corsi e ricorsi

Primo Levi

VIII. Corsi e ricorsi

«Forse dovremmo aver più coraggio – scrive Revelli – nell’affermare, con maggior nettezza, che il “paradigma politico dei moderni” non funziona più»[1].

Ma forse non è un problema di coraggio, né questione di affermare con maggior nettezza. Semplicemente «il “paradigma politico dei moderni” non funziona più». O meglio non ha mai funzionato. E questo al di là della buona fede e dell’acume di Hobbes.

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Qui sì ci vogliono coraggio e maggior nettezza. Il modello messo a punto per garantire la pace «mediante la concentrazione della forza nelle mani dell’organismo sovrano»[2], non è che non la garantisce più. Non l’ha mai garantita e continua a non garantirla. Non è che si è rovesciato nel proprio opposto, «in una potente macchina di produzione di disordine e insicurezza»[3]. Se non vogliamo dire che finora ha prodotto disordine e insicurezza, dobbiamo però dire che finora non ha impedito la produzione di disordine e insicurezza.

Semmai possiamo dire che oggi questo disordine e questa insicurezza hanno assunto proporzioni sconosciute fino a non molto tempo fa (ma questo è vero da almeno un secolo).

Possiamo anche dire che è a noi che ci viviamo, o almeno a una parte di noi che ci viviamo, che questo disordine e questa insicurezza non piacciono affatto.

Indubbiamente il mondo, ovvero quello spazio che si estende dal Polo Nord al Polo Sud lungo 180 paralleli o da Est a Ovest per 360 meridiani, è costellato di guerre, conflitti e sottoposto al terrore scatenato da bande pronte a uccidere civili inermi. Non si combattono più solo eserciti, ma la sopravvivenza in pace è minata dalla possibilità di morire per cause che non siano naturali o accidentali.

Ma questo oggi non è – del tutto – “più vero” di quanto non lo sia stato in passato.

Ciò che induce Revelli a ritenere che un salto vi sia stato, una frattura, è la guerra in Iraq. Essa rappresenta un evento epocale. I contemporanei effettivamente l’hanno vissuta così.

Ma a giudizio di chi scrive, più la prima – quella del 1991 – che la seconda, quella del 2003. Fra l’una e l’altra esistono delle differenze, ma non poi molte. In entrambi i casi si sono costituite coalizioni internazionali che hanno aggredito uno Stato. In entrambi i casi, la guerra tecnologica e buia ha fatto moltissime vittime fra i civili. In entrambi i casi, ma più nel primo che nel secondo, si è temuto un precipitare degli eventi che innescasse un conflitto su scala assai più ampia, mettendo a repentaglio, in Occidente, l’esistenza anche di coloro che, allarmati, seguivano senza sapere come avrebbero voluto che andasse a finire, senza sapere quale sarebbe stato il male minore – la vittoria di Saddam o quella delle truppe “alleate”.

La prima guerra del Golfo, infatti, è stata il primo conflitto che ha coinvolto l’Europa al di fuori dei propri confini dopo la fine della Seconda guerra mondiale, al termine della quale gli europei, che l’avevano scatenata, avevano immaginato – pur nel timore di un possibile conflitto nucleare, addirittura a volte rasentato, tra Est ed Ovest – e forse profondamente sperato che mai più il destino degli uomini potesse essere assegnato al potere delle armi.

Ma da questo punto di vista sarebbe più giusto considerare come evento epocale per l’Europa la guerra che ha insanguinato i Balcani a cavallo fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Non solo per il fatto che essa è stata prodotta più da ragioni etniche, razziali e religiose che non economiche, politiche o ideologiche, riproponendo la questione dell’intolleranza razziale dopo che la si considerava definitivamente chiusa con la fine del nazismo. Ma anche per il fatto che ha riproposto il tema della legittimità dell’autodeterminazione dei popoli e dell’invasione in territori altrui.

Ragionamento diverso va fatto per gli Stati Uniti che, prima e dopo il secondo conflitto mondiale, sono sempre stati impegnati in un qualche scontro che vedeva impegnate le loro forze armate[4], in massima parte, peraltro, sempre vittoriose, eccezion fatta per il Vietnam e, soprattutto, mai attaccati direttamente sul proprio territorio, entro i propri confini.

Per questo, probabilmente, la seconda guerra del Golfo, rappresenta per loro l’evento epocale: perché avviene dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre, il primo atto di guerra, per quanto “anomalo”, avvenuto sul suolo americano, eccezion fatta, ma con tutte le differenze del caso, per l’attacco di Pearl Harbour. Ma attenzione: dopo l’11 settembre e dopo la guerra dell’Afghanistan.

Di più: la seconda guerra del Golfo rappresenta per gli americani, anche, una sorta di risarcimento all’umiliazione subìta con la guerra del Vietnam, il ristabilimento di un’invincibilità direttamente mai più mostrata dopo la caduta di Saigon.

Questo è lo scenario entro il quale Revelli ci invita a considerare che «il “paradigma politico dei moderni” non funziona più».

Ma ci si dovrebbe allora chiedere se il “paradigma politico dei moderni” funzionava quando milioni di ebrei – civili, civilissimi, compresi anziani, donne e bambini – sono stati sterminati nella civile, civilissima Europa?

O ancora se ha funzionato ognuno dei sacrosanti giorni che ci dividono dal 6 agosto 1945 – quando una bomba atomica distrusse Hiroshima e tutti i civili che l’abitavano –: ognuno di quei sacrosanti giorni in cui tantissimi uomini – quanti in Africa, nel Sudamerica, in Asia, nelle strade di Manhattan? – muoiono di fame e di malattie che si potrebbero curare con gli spiccioli del mondo ricco?

È giusto che Revelli affermi il guasto di quel paradigma. Ma ogni volta che il dialogo non riesce a impedire l’uso della forza o ad attivare un’azione «per il bene comune», la politica è sconfitta, lascia il posto a qualcos’altro, che è ancora politico perché riguarda il consesso degli esseri umano, ma non lo è più nel senso che non garantisce la sicurezza e l’incolumità di tutti, proprio tutti.

Il patto su cui si fonda il paradigma politico dei moderni, infatti, è tale solo se è un patto tra tutti, nessuno escluso. Un patto universale, altrimenti chiunque può non sottostarvi e non riconoscere al Leviatano l’autorità di sottrarre a tutti gli altri la forza per avocarla solo ed unicamente a sé. È quindi un patto che ha come fine il bene di tutti e il bene di ciascuno. Il bene di ciascuno che è il bene di tutti.

Nel secolo in cui Hobbes, giustamente, scriveva il Leviatano, l’Inghilterra fonda la Compagnia delle Indie (1600), abolisce la monarchia instaurando un potere repubblicano (1649), sostiene numerose guerre fra etnie (scozzesi, inglesi, irlandesi) e fra religioni (cattolici, presbiteriani, puritani, anglicani), promulga l’Habeas Corpus Act (1679).

Ma negli oltre quattro secoli che ci separano da allora molto è successo che induce a credere che il paradigma politico dei moderni sia assai più complesso di quello che pur giustamente mette in luce Revelli. In particolare quattro eventi meritano di essere messi in luce per contribuire al condivisibile intento di Revelli di ritrovare una politica che funzioni ancora:

1) la Rivoluzione francese e ciò che da essa è conseguito, in particolare la messa a punto delle democrazie parlamentari moderne e dei fondamenti dei diritti umani sanciti poi dall’Onu nel 1948;

2) l’analisi di Marx della società capitalista, l’elaborazione delle sue teorie economiche e la parte più viva del suo pensiero filosofico (volutamente qui non si prende in considerazione la sua teoria politica, dal momento che è degenerata in uno dei capitoli più fallimentari e dolorosi della storia umana);

3) la scoperta dell’inconscio e il nihilismo nietzschiano come punti di approdo degli studi sull’individuo, il soggetto, la persona;

4) l’Olocausto.

Sono formulazioni assai sintetiche che sottendono evidentemente molto altro. È evidente, per esempio, che da un punto di vista storico sarebbe stato assai più giusto sottolineare la nascita dell’economia capitalista che non l’analisi che a posteriori ne ha fatto di essa Marx. Così come scrivendo quasi gelidamente solo “l’Olocausto” si vuol alludere a tutte le implicazioni che lo sterminio degli ebrei ha avuto, ai fatti che hanno portato ad esso e che da esso sono conseguiti.

Senza privilegiare alcuno di questi avvenimenti, qui si vuol però quasi cinicamente sottolineare il fatto che l’Olocausto ha rappresentato la possibilità reale dell’apocalisse, della fine cioè del mondo. È fin troppo evidente che, con la soluzione finale, il mondo – che quella soluzione aveva voluto o tollerato – non sarebbe affatto finito. Ma lungo quella strada il mondo può finire, ieri con gli ebrei, oggi con un altro “altro”.

Aveva infatti ragione, o meglio, c’era molto di vero in quello che scriveva Primo Levi:

[...] nonostante l’orrore di Hiroschima e Nagasaki, la vergogna dei Gulag, l’inutile e sanguinosa campagna del Vietnam, l’autogenocidio cambogiano, gli scomparsi in Argentina, e le molte guerre atroci e stupide a cui abbiamo in seguito assistito, il sistema concentrazionario nazista rimane un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà. Nessuno assolve i conquistadores dei massacri da loro perpetrati in America per tutto il xvi secolo. Pare che abbiano provocato la morte di almeno 60 milioni di indios; ma agivano in proprio, senza o contro le direttive del loro governo; e diluirono i loro misfatti, in verità assai poco “pianificati”, su un arco di più di cento anni; e furono aiutati dalle epidemie che volontariamente si portarono dietro. Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene, sentenziando che erano “cose di altri tempi”?[5].

Al di là della corrispondenza delle singole affermazioni, quel che è certo è che lo sterminio degli ebrei porta in sé tutto il carattere paradigmatico di quello che è stato, ed anche per esso, ancor più per esso, si dovrebbe dire: «Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene, sentenziando che erano “cose di altri tempi”?».

Invece vien da sospettare che esso sia il paradigma, non politico, ma moderno.


[1] Revelli, p. 59.

[2] Ivi, p. 60.

[3] Ibidem.

[4] Nel 1948 le truppe americane si ritirano dalla Corea del Nord, dove viene proclamata la Repubblica democratica di Kim il Sung. Nel 1949 danno vita alla Nato. Nel 1950 intervengono in appoggio alla Corea del Sud. Nel 1952 aiutano Batista nel colpo di stato che instaura la dittatura a Cuba e contrastano la rivolta popolare in Bolivia. Nel 1954 intervengono militarmente in Guatemala. Nel 1961 c’è la sconfitta della Baia dei Porci a Cuba. Nel 1964 iniziano i bombardamenti in Vietnam. Nel 1973 c’è il sanguinario golpe di Pinochet in Cile, l’ultimo di una lunga serie nella quale gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo determinante. Nel 1975 gli americani vengono cacciati dal Vietnam, dopo oltre dieci anni di invasione militare nel sud est asiatico. La fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta sono caratterizzati anche dalla rivolta sandinista in Nicaragua contro il dittatore Somoza, dalla guerra tra Iran e Iraq e da quella tra Urss e Afghanistan: dietro ognuno di questi conflitti ci sono sempre militari americani. Il 1980 è l’anno in cui viene eletto Ronald Reagan. Nel 1983 il Congresso blocca gli aiuti ai ribelli antisandinisti e le truppe Usa invadono Grenada. Nel 1986 la flotta Usa invade le acque territoriali libiche e per rappresaglia contro la contraerea di Gheddafi bombarda basi militari libiche. Nel 1988 viene eletto George Bush. Nel 1989 gli Usa invadono Panama. Nel 1990 truppe Usa e poi di altri paesi della Nato inviano forze navali nel Golfo Persico dopo l’invasione dell’Iraq in Kuwait. Nel 1991 scoppia la guerra del Golfo. Nel 1992 viene eletto Clinton. Nel 1993 c’è la stretta di mano tra Rabin e Arafat a Camp David.

[5] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, ora in Opere, Torino, Einaudi, 1988, vol. ii, p. 1005.

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