La politica ritrovata. VII. Fini e mezzi
VII. Fini e mezzi
Revelli sostiene che con Hobbes – con il suo riconoscimento che il male risiede negli istinti e nelle passioni dell’uomo fino a spingerlo ad essere «homini lupus» e soldato nel «bellum omnium contra omnes»; con il riconoscimento che l’uomo è di natura negativo, distruttivo e autodistruttivo; con il riconoscimento dell’artificiosità e dell’innaturalezza del “pactum” preservativo e salvifico – si consuma la rottura «con l’intera tradizione del pensiero politico classico, da Aristotele a san Tommaso (lasciamo per ora da parte Agostino) per cui l’uomo era invece l’animal politicum et sociale per definizione: l’essere per sua natura portato alla convivenza e all’armonia con i propri simili perché più di ogni altro bisognoso e dipendente dagli altri»[1].
Si è già avuto modo di contestare quest’affermazione, dal momento che la negatività dell’uomo e addirittura la sua tendenza autodistruttiva non escludono la propensione alla socialità, all’armonia e, cosa qui dimenticata, alla creatività.
Ma è servendosi di queste argomentazioni che Revelli ci spiega la svolta intrapresa con la politica dei moderni dallo Stato, la cui essenza «non risiede più, quindi, nell’orientamento al “bene comune” come fine, [...] ma nel trasferimento a sé e nel controllo monopolistico [...] del male [...] come mezzo»[2].
Con Hobbes, infatti, il male – e quella sua particolare forma che è il terrore – diviene ciò da cui lo Stato deve difendere l’uomo servendosi del terrore stesso[3].
Hobbes, dunque, affida «la garanzia del massimo bene collettivo terreno – la pace sociale, la sicurezza dei cittadini –, alla più terribile delle potenze negative», a quella figura che rappresenta «simbolicamente il potere politico sovrano attraverso l’immagine biblica dell’incarnazione del Male»[4].
Qui si apre per la prospettiva da noi ricercata uno scenario inedito e ricco di sorprese. Da un lato si ripropone il problema del rapporto tra fini e mezzi. Come è possibile fare «un uso razionale e salvifico del “male” (come mezzo) per ottenere il “bene” (l’ordine, la convivenza) come risultato»[5]?
E se questa è stata davvero la direzione intrapresa, da Hobbes in poi, da «tutta la concezione moderna dello Stato e della politica», non avremmo dovuto accorgerci prima del suo fallimento senza attendere la crisi che si affaccia ai nostri occhi dopo il Novecento?
Dall’altro lato si pone una seconda questione. L’errore non sta nell’aver «affidato» a qualcun altro qualcosa che invece ci pertiene direttamente?
Indipendentemente dal fatto che quel qualcosa – «la garanzia del massimo bene collettivo terreno: la pace sociale, la sicurezza dei cittadini» – lo si sia affidato «alla più terribile delle potenze negative», a quella figura che rappresenta «simbolicamente il potere politico sovrano attraverso l’immagine biblica dell’incarnazione del Male»[6], non abbiamo sbagliato affidando, delegando, sottraendoci alla nostra responsabilità, ritirandoci dalla politica, rinunciando ad essere politicon zoon, cani o lupi che fossimo? Devolvendo non tanto la forza, quanto il controllo della forza? In altri termini allontanandoci dal male che risiede in noi, dagli istinti e dalle pulsioni che ci agitano, dalle ombre che oscurano il nostro sole?
[1] Revelli, p. 25.
[2] Ivi, p. 27.
[3] Cfr. ivi, p. 26.
[4] Ivi, p. 31.
[5] Ivi, p. 33.
[6] Ivi, p. 31.
Tags: Aristotele, La politica ritrovata, Marco Revelli, Sant'Agostino, Thomas Hobbes, Tommaso d'Aquino