La politica ritrovata. VI. L’insicurezza è sicura
VI. L’insicurezza è sicura
Quando si afferma che la politica ha a che fare con il male inteso «come possibilità di sofferenza e di morte, di dolore e paura [...], e come permanente stato di guerra, in cui “ogni uomo è nemico ad ogni uomo” e ognuno vive “senz’altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire”»[1], bisogna avere la consapevolezza che la politica non può impedire il male. La morte infatti può dipendere dalla politica, e qui la politica può ritrarsi, astenersi assolutamente dal causare morte, sia che essa costituisca un fine, quanto un mezzo. Ma la morte non dipende solo da essa, e perciò la politica deve accettare come inevitabile la morte e non porsi obiettivi che non siano alla propria portata come quelli derivanti dall’ambizione di impedire la morte. Quindi non può porsi nemmeno obiettivi – fini – che prevedano in assoluto di evitare la sofferenza, il dolore, la paura. Parimenti non può porsi l’obiettivo di instaurare la felicità o stati simili che prevedano l’assenza di sofferenza, dolore e paura, non essendo questi interamente derivabili o prescrivibili dalla politica.
Queste considerazioni ci portano però a un paradosso. Si è detto che il paradigma politico dei moderni, almeno da un punto di vista teorico, è un paradigma securitario, fondato cioè sulla necessità di garantire che la forza (e l’inganno) di qualcuno non metta a repentaglio gli altri.
Si è detto anche che questo paradigma è del tutto teorico, non essendo riuscito ad impedire, in nessun secolo di quelli seguiti a quello in cui fu enunciato da Hobbes, quel male inteso «come permanente stato di guerra, in cui “ogni uomo è nemico ad ogni uomo” e ognuno vive “senz’altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire”».
Il paradosso è che il paradigma securitario non ha estirpato l’insicurezza degli uomini, ha semplicemente differito, spostato altrove, quest’insicurezza. Ha forse ridotto la guerra tra individui, forse estinto quella tra bande, ma non quella tra Stati. Non ha consentito di affidare la propria sicurezza ad altro che non sia la propria forza (o in caso di guerra quella del proprio Stato) o la propria inventiva.
Non è dunque il Potere politico, e nemmeno lo Stato e neanche la politica, che possono consentire agli uomini di «sfuggire a quella condizione intollerabile di precarietà e incertezza della propria vita, affidata al gioco incerto della forza altrui e della violenza di tutti contro tutti». Non sono essi a poter «garantire la sopravvivenza di tutti e di ognuno»[2].
Ciò nonostante non è del tutto vano che gli uomini abbiano accettato e fondato il Potere politico con quegli intenti securitari. Il problema, semmai, è quello di trovare i modi perché quel Potere politico sia fedele e porti a compimento il fine per il quale è stato fondato. O, detto in altre parole, il problema è quello di sottoscrivere un nuovo patto nel quale tutti gli esseri umani si riconoscano e, quindi, che preveda diritti e doveri uguali per tutti, nessuno dei quali costituisca la limitazione di un diritto di un altro.
[1] Revelli, pp. 23-24. La citazione di Hobbes è dal Leviatano, cit., p. 120.
[2] Revelli, p. 24.
Tags: La politica ritrovata, Thomas Ho