La politica ritrovata. V. I cani e i lupi
v. I cani e i lupi
Abbiamo già notato che non è data politica, se non è dato male, in quanto quest’ultimo è «condizione prima ed essenziale del “politico”; [...] suo presupposto costitutivo. [...] tratto specifico della condizione naturale dell’uomo»[1].
Il paradigma politico della modernità prende le mosse da lì, dal male. Anzi, sarebbe più esatto dire che qualsiasi paradigma politico – antico, moderno, attuale o futuro – non può che prendere le mosse dal male. Se, infatti, non ci fosse qualcosa che non va, qualcosa di male, o almeno qualcosa che potrebbe andare meglio, che ragione ci sarebbe di darsi da fare, di occuparsi delle cose?[2]
Ma questo dovrebbe ricondurci a considerare la politica come lo strumento che gli uomini hanno per tentare di occuparsi del bene e provvedere ad esso. O, se si preferisce, a considerare la politica come l’habitat nel quale essi possono operare e addirittura debbono operare, nel quale cioè sono costretti ad operare, per procurarsi il massimo di bene e il minimo di male.
Questo ci riporterebbe alla sottolineatura della “natura politica” dell’uomo, al suo essere animale politico, politicon zoon. Ma che animale: cane o lupo?
Avendo a che fare sia con il male che con il bene, entrambi. E probabilmente entrambi a seconda delle occasioni.
Revelli ci dice che i moderni hanno sottratto il male all’inconoscibile, portandolo laddove può essere indagato come male fisico, metafisico, morale, e quindi scomposto e sezionato, analizzato, sintetizzato, sottoposto a calcolo. Per cui è possibile anche «calcolare le ragioni del male»[3], i pro e i contro, i costi e i benefici, l’utilità e il danno.
È in queste regioni che dovrebbe muoversi la politica. Nella valutazione appunto dei pro e dei contro, dei costi e dei benefici, dell’utilità e del danno di una scelta politica piuttosto che di un’altra.
Ma il fatto è che, per lo più, il primo pro, il primo beneficio, la prima utilità di una qualsiasi scelta politica è che chi la sta compiendo possa continuare a compierne altre. Non importa se quella scelta è inutile e produce danno, se ha costi eccedenti i benefici, se da essa prevalgono i contro sui pro, purché soddisfi il requisito di fondo: portar beneficio a chi la sta compiendo.
Vista così la politica coincide con il male. Perché non si oppone ad esso, e nemmeno se ne serve per produrre il bene. Perché presume che il sommo bene sia se stessa, ed il sommo male non l’assenza di se stessa, che anzi può essere funzionale al proprio gioco, ma “l’altro”, cioè l’avversario politico. E questo anche quando l’avversario politico è davvero colui che opera per far prevalere il male sul bene, e i costi sui benefici, e i contro sui pro: in questo caso si conduce un’ingiusta battaglia per una giusta causa.
La questione, allora, è quella dei mezzi e dei fini della politica. Questione indagata dall’altro grande realista della filosofia politica, Niccolò Machiavelli. Il tema è noto: il fine giustifica i mezzi? La risposta è ovviamente positiva se si deve valutare l’efficacia della politica. Si può propugnare il più nobile fine di cui l’umanità disponga, ma se non si hanno i mezzi per attuarlo è come non avere nemmeno quel fine. E tuttavia la storia ci ha insegnato che perseguire un fine servendosi di mezzi inadeguati – nel senso di contraddittori – a quel fine conduce parimenti alla sconfitta.
Si potrebbe dunque dire che il fine giustifica solo i mezzi idonei a quel fine nella sua interezza, cioè non solo al raggiungimento del fine, ma al raggiungimento del fine nella sua interezza, ovvero sia con mezzi che non contraddicano o siano in contrasto con il fine.
Questo potrebbe essere un buon parametro per rifondare un nuovo paradigma della politica. Perché renderebbe chiaro a cosa si mira e la coerenza tra quel che si fa e quel che si dice. Evitando il distacco – la disaffezione – degli uomini alla politica. E al tempo stesso potrebbe essere un ottimo metro di valutazione della politica, del politico, del partito politico, della politica estera di uno Stato. Che sono poi alcuni dei fini che ci eravamo proposti.
Qui converrebbe, probabilmente, avendo accennato a Machiavelli, farvi ancora riferimento per dirimere un punto strategico, qualunque sia la nuova politica che si vuol far nascere.
Se Hobbes è stato il teorico basilare dello Stato moderno, Machiavelli – o meglio il Machiavelli riletto da Antonio Gramsci – è il teorico basilare dell’organismo che fa politica: il partito politico. Ovvero sia del rapporto che tiene insieme l’individuo, un individuo, con gli altri suoi simili in quel gioco della collettività che consiste nel trovare il proprio bene o nel liberarsi dal male o nel far male a qualcun altro. Non tanto a un altro individuo, ma a un altro gruppo di individui: un partito, una fazione, una classe, una coalizione, uno Stato.
L’argomento è troppo vasto per essere qui trattato, ma l’individuazione di un nuovo paradigma della politica non può prescindere dalla forma organizzativa che dovrebbero darsi i soggetti anche contrapposti nella politica e, più in generale, dalle norme che dovrebbero regolare il rapporto tra individuo e gruppo e tra gruppo e Stato.
Anni fa è stata decretata – forse molto giustamente – la crisi della forma partito, ma ad essa non si è sostituito nulla che svolga quell’opera di mediazione o che organizzi la partecipazione degli individui alla politica, consentendo loro di contare, con il risultato che nelle democrazie vien meno il principio stesso della democrazia: il fatto cioè che i cittadini (tutti!) riescano a farsi rappresentare, tutti eleggendo i propri rappresentanti e potendo tutti controllare il loro operato.
Né sembra risolto il rapporto che intercorre tra movimenti e partiti e gruppi consiliari e ministri. Ma la politica si fa proprio lì, in quel rapporto.
[1] Revelli, p. 23.
[2] Del resto, visto da un altro punto di vista, che bisogno ci sarebbe di darsi da fare, cioè di fare politica, se non si pensasse di ottenere un qualche bene, al limite anche per il tramite del male?
[3] Ivi, p. 21.
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