La politica ritrovata. IV. Politica, politiche
IV. Politica, politiche
Malgrado la politica che passa per il male abbia già mostrato di fallire, di non condurci cioè alla salvezza, insisteremo ad occuparci del male per comprendere se si può ritrovare una politica che ci salvi, ci liberi dal male e per di più non fallisca.
Dobbiamo però chiederci se esiste davvero un’esigenza di ritrovare la politica perduta. Se non sarebbe più esatto, e producente, ritrovare una determinata politica perduta, vale a dire qualcosa che assomigli a un “ideale politico”, magari avendo lo scrupolo di non restare nuovamente impigliati nei trabocchetti degli “ideali” e nelle prigioni dell’“ideologia”. O, ancora, se non sarebbe meglio preoccuparsi di individuare il modo migliore per far sì che il maggior numero possibile di persone semplicemente si occupino di politica, cosicché, quand’è il momento di votare, si possa influenzare davvero coloro che prenderanno una decisione per nostro conto. In altre parole estendere le basi della democrazia.
Fondendo queste prospettive, dobbiamo chiederci se non sarebbe meglio curarsi di comprendere cosa si può fare perché gli individui, il maggior numero possibile di individui, abbiano quella che Lukács chiamava “coscienza di classe” e noi oggi più semplicemente potremmo chiamare solo “una coscienza”.
Com’è noto, alla “coscienza di classe”, György Lukács ha dedicato un intero volume, Storia e coscienza di classe[1], ma per la comprensione del termine così come qui lo si vuol intendere, è opportuno citare una nota di Lukács al proprio saggio Il problema della guida intellettuale:
Il concetto di coscienza affiorò per la prima volta nella filosofia classica tedesca e ivi ricevette la sua spiegazione. Coscienza significa quel particolare stadio della conoscenza in cui il soggetto e l’oggetto conosciuto sono omogenei nella loro sostanza, in cui quindi la conoscenza avviene dall’interno e non dall’esterno. (L’esempio più semplice è la conoscenza morale che l’uomo ha di se stesso, ad esempio il sentimento della responsabilità e la coscienza morale, di contro al metodo conoscitivo delle scienze naturali in cui l’oggetto conosciuto, nonostante la sua acquisizione conoscitiva, rimane eternamente estraneo al soggetto conoscente.) L’importanza primaria di questo metodo conoscitivo è che il semplice fatto della conoscenza produce nell’oggetto conosciuto un’alterazione essenziale: ad opera della presa di coscienza la tendenza in esso già preesistente diventa mediante la conoscenza più sicura e più forte di quanto non lo fosse prima o di quanto avrebbe potuto esserlo senza di essa. Questo metodo conoscitivo significa però altresì che in tal modo scompare la differenza tra oggetto e soggetto, e quindi pure la differenza tra teoria e prassi. La teoria, senza perdere nulla della sua purezza, imparzialità e verità, si trasforma in azione, in prassi. [...][2]
Questo a me pare il vero punto chiave delle riflessioni sulla politica oggi. Quello della costruzione, o forse meglio, della sollecitazione di un «particolare stadio della conoscenza in cui il soggetto e l’oggetto conosciuto [siano] omogenei nella loro sostanza, in cui quindi la conoscenza [avvenga] dall’interno e non dall’esterno».
Ci sono molti milioni di persone che, tanto nei regimi democratici, quanto in quelli autoritari, tanto nel mondo ricco che in quello povero, non fanno e non s’interessano, o comunque non possono fare ed interessarsi, di politica. E non solo perché ci sono meccanismi di relazione tra governati e governanti – tra classe politica e società civile – tali da scoraggiare questo interesse e questa prassi, ma perché, per varie ragioni, utili e futili, quest’interesse non è praticato e non c’è interesse a questa prassi.
Gli esseri umani preferiscono occuparsi – o anche, se non lo preferiscono, lo fanno – di racimolare quel che serve alla loro sussistenza ed eventualmente a garantirsi quel minimo indispensabile di distrazione e piacere che consenta loro di continuare a racimolare quel che serve alla sussistenza. Questo, ovviamente, soprattutto nei paesi poveri e nelle fasce povere dei paesi ricchi, ma anche nell’altra parte del mondo.
Per questi miliardi di persone la mente è ingombra di un bisogno o di più bisogni: mangiare, far l’amore, ritagliarsi una risata, dormire. Anzi, non c’è essere umano al mondo che non brighi o comunque non sia distolto dalla necessità di soddisfare questi e altri bisogni, alcuni dei quali hanno assunto la forma di desideri e, talvolta, anche di capricci, coazioni, schizofrenie.
La mente è ingombra di questi “fantasmi” e lascia poco spazio al riconoscimento consapevole della loro esistenza, alla considerazione dei modi migliori per soddisfarli, alla constatazione del fatto che tutti gli altri, non solo noi, siamo agiti da quegli “spettri”.
In una parola lascia poco spazio alla “coscienza”. Così diventa ingiusto patire una sofferenza perché anche uno solo di questi bisogni non può essere soddisfatto, ma assai più raramente questo senso di ingiustizia si trasforma nello sdegno perché quello, o un altro bisogno, non può esser soddisfatto da un essere umano che non siamo noi: l’altro.
Se politica dev’essere, dunque, è opportuno che sia innescata da qualcosa di personale, e anzi, meglio, da qualcosa di visceralmente personale. Da qualcosa che ci coinvolge, che possiamo sentire nel cuore, nella pancia e nella testa. Dentro e fuori.
Lasciamo perdere la morale, se con questa s’intende l’applicazione di schemi prefissati coi quali stabilire cos’è giusto e cosa sbagliato, cosa bene e cosa male, cosa normale e cosa no. Lasciamo perdere quel che ci porta su un piano prima ideale e poi ideologico. Lasciamo perdere, dunque, per dirla con Marx, la sovrastruttura e restiamo ancorati alla struttura.
A uno strutturale, però, che non sia gelido e piatto, che non si trasformi a sua volta, in un baleno, in una sovrastruttura, nell’ideologia della non-ideologia. A uno strutturale, cioè, che sappia dialogare con il sovrastrutturale, che tenga aperte le porte con esso, sapendo quand’è il momento di chiuderle per non essere invasi, ma con la consapevolezza che un istante dopo vanno riaperte.
Se questa dev’essere, dunque, la nostra prospettiva, proviamo a dialogare con Hobbes, e, se del caso, con il Libro di Giobbe.
Hobbes ci ha rivelato un mondo scrivendo il Leviatano e le sue altre pregevoli opere. Innanzitutto a lui dobbiamo il disvelamento dell’essenza umana: homo homini lupus, non politicon zoon. Affermazione errata, dacché niente vieta al “lupo degli uomini”, agli “uomini-lupo”, di essere socievoli e bisognosi di stare con gli altri. Lo stesso animale selvatico è istintivamente portato a stare in branco. E poi, non lo dimentichiamo, c’è la parentela tra il lupo e il cane. Per cui possiamo supporre che per l’uomo ci sia anche una propensione, o, se si preferisce, un continuo trasmigrare, dall’essere lupo all’essere cane e viceversa.
Dobbiamo cioè prendere atto della nostra contraddittoria natura, della capacità che abbiamo di essere egoisti e generosi, cooperativi e solitari, distruttivi e creativi, solidali e spietati. Del potere che abbiamo di uccidere, e di farlo, a differenza di qualunque animale, per nessuna ragione; della libertà che abbiamo, come qualche altro animale, addirittura di suicidarci, contravvenendo a quella che sembra – ed evidentemente non è – la legge fondamentale di natura, quella che prescrive la sopravvivenza e fa di essa un istinto, addirittura il più forte di tutti, quello dinanzi al quale, per la stessa legge civile, è concesso uccidere: legittima difesa.
Dunque, con Hobbes, oltre Hobbes, realismo dinanzi alla “natura” umana (e ai suoi lati artificiali o innaturali).
[1] György Lukács, Geschichte und Klassenbewusstsein, Berlin, 1923, tr. it. Storia e coscienza di classe, di Giovanni Piana, Milano, Sugarco, 19786, al quale ovviamente si rimanda ed in particolare al saggio in esso contenuto dal titolo Coscienza di classe, pp. 59-106.
[2] György Lukács, Il problema della guida intellettuale, in Frühschriften ii, Berlin, Hermann Luchterhand Verlag, 1968, tr. it. Scritti politici giovanili 1919-1928, di P. Manganaro e N. Merker, Bari, Laterza, p. 20.