La politica ritrovata. III. L’ingombrante presenza di Dio
III. L’ingombrante presenza di Dio
Un’altra critica di fondo da fare al libro di Revelli è che in esso vi è un eccesso, se così lo si può chiamare, di attenzione al ruolo del religioso, malgrado proprio questa sia la forza del libro, soprattutto nella parte storica, ma anche nell’osservazione degli accadimenti più vicini ai giorni nostri.
Revelli giustamente ci dice che il Libro di Giobbe è il «trattato originario sulla questione del male», il promemoria individuale e storico del dolore e della sofferenza dell’innocente, il libro della prova dell’uomo e dell’assenza di Dio[1].
Ci ha già detto, e noi gli abbiamo dato ragione, che senza male non c’è politica. Ma di qui a fare della sofferenza di Giobbe – così antica, così profonda, così vasta – la rappresentazione figurativa della molla che muove l’uomo verso la politica, ne corre. Subire un torto ed essere vittima di un’ingiustizia da parte di chi non avrebbe proprio dovuto esserci nemico o da parte di chi detiene un potere così enorme su di noi, può spingere, e talvolta spinge, verso la politica, ma solitamente il meccanismo è un altro e ne abbiamo già riferito.
Uscire da questa rappresentazione ci consente di ridimensionare il ruolo del religioso nell’ambito della politica, che esiste, non c’è dubbio, o può esistere, ma è residuale rispetto al ruolo dell’economico, del passionale, dell’utile.
Sappiamo tutti bene quanto peso abbia oggi l’integralismo religioso: quello islamico, certamente, ma anche quello ebraico, e non meno quello cattolico, sia nella sua versione protestante americana, sia in quella pontificia. Ma la molla che spinge alla politica, per tutti, è un’altra.
Se circolassero più soldi fra le masse di Baghdad, di Gerico, dell’Afghanistan o della Cecenia, se ci fosse di più da lavorare, Maometto forse farebbe sentire meno la sua voce, o comunque non la spenderebbe per mandare ad ammazzarsi ammazzando. Se ci fossero abbastanza territori per accogliere tutti i coloni ebrei sfuggiti alle crisi economiche (e, quindi, alle nuove intolleranze) dei paesi orientali europei (ma anche della ricca Germania) e lì si potesse garantire più sicurezza, l’ebraismo continuerebbe ad occuparsi del rapporto dell’ebreo con il suo dio, o al massimo delle norme che regolano l’esistenza nella comunità, non dei gohim e del loro operare. Se Lutero e Calvino non dovessero essere scomodati per dare un’aurea sacra alla sete sempre crescente di ricchezza e benessere, sentiremmo solo più Gospel. E se, infine, il Papa non assistesse a un genocidio di così vaste proporzioni in ogni angolo della Terra, i suoi strali si concentrerebbero forse sui costumi sessuali degli uomini, forse sull’aborto, e non sarebbe il punto di riferimento di migliaia e migliaia di pacifisti.
La storia naturalmente non si fa con i “se”, e sappiamo tutti quanto la religione abbia influenzato sempre la storia, ma la storia si fa con i “ma”, e sappiamo tutti quanto la storia (la politica, l’economia) abbia influenzato la religione.
Ci sono però un paio di punti nel ragionamento che Revelli fa intorno al Libro di Giobbe e, attraverso di esso, al ruolo di Dio nella politica, i quali meritano un ulteriore approfondimento.
Innanzitutto, ci dice Revelli, Giobbe apre «la prima “teodicea”: il primo “processo a Dio”, o la prima approfondita, sistematica interrogazione sulla “giustizia di Dio”. O anche – se si preferisce – il primo serio tentativo di “giustificazione” dell’operato di Dio rispetto appunto alla questione del “male”»[2].
Se Dio è buono e Giobbe è sottoposto a pene atroci, ergo, Giobbe ha peccato. Ma il suo dolore, ogni dolore, non ha ragione, senso, regola. Non c’è nesso tra colpa e pena. Anzi, la storia rivela «esattamente il contrario: non l’infelicità dell’empio, ma la “sofferenza del giusto” è la cifra della presenza di Dio nel mondo»[3].
Dunque non bisogna attendere l’annuncio che “Dio è morto” perché in Terra non avvenga ciò che non avremmo voluto che Dio consentisse. E quindi, né il nihilismo di Nietzsche, a cui appunto si deve la celebre sentenza[4], né l’Olocausto – e si potrebbe dire il secondo in quanto il primo – sono il punto di svolta della storia a partire dal quale entra in crisi il paradigma politico dei moderni.
Dio è morto assai prima, in quella partita a scacchi o a dadi con il proprio grande antagonista, in quella scommessa per «provare la propria forza…»[5], nella quale mise in gioco Giobbe. Quando pendeva dalla forca nell’inferno di Auschwitz – come scrive Elie Wiesel ne La notte[6] – Dio era già putrefatto, assassinato molti secoli prima.
Qui è opportuno notare che alla «scommessa di Dio sull’uomo» corrisponde una «scommessa dell’uomo su Dio». Infatti, spiega Revelli, contro l’evidenza e malgrado tutto, Giobbe riconosce a Dio la capacità di dare un ordine giusto, ancorché imperscrutabile, al Cosmo, nel quale ordine anche il male trovi un senso, indipendente dalla responsabilità umana. Non potendosi liberare dalla sofferenza, l’uomo si libera dalla colpa. Ciò è possibile non attribuendo a Dio ragioni umane. È la Fede assoluta.
Ma occorre notare che in entrambi i casi, nella «scommessa di Dio sull’uomo» e nella «scommessa dell’uomo su Dio», come in tutte le scommesse del resto, il responso è nel futuro, che non è il tempo della politica, occupandosi questa del presente.
Quindi, da un punto di vista della politica, quello che ci può aiutare non è tanto il derivare la rinuncia all’onnipotenza dalla constatazione che è fragile anche l’onnipotenza di Dio – come sembra suggerire Revelli nei primi tre capitoli del suo Epilogo – quanto rinunciare a Dio, o almeno estromettendolo dalle vicende che hanno a che fare con gli uomini, dalla politica, lasciando che egli operi esclusivamente, per chi proprio lo vuole, in interiore homine.
In altri termini non è ruotando intorno a questioni divine che si può trovare un nuovo paradigma politico, perché tutti i paradigmi politici fondati sulla religione di cui si ha conoscenza nel corso della storia, hanno condotto a partite a scacchi dove il re è destinato a morire o dove il gioco finisce in patta.
Bisogna dunque stare alla larga dalla “tentazione” «di far fare dalla filosofia politica al concetto moderno di politica quello che la filosofia teologica di Hans Jonas ha fatto al concetto tradizionale di Dio»[7]. Di più: dalla tentazione di tenere insieme filosofia politica e filosofia teologica, politica e teologia.
Con tutto il rispetto per la riflessione di Jonas, e più in generale per il bisogno di fede degli uomini, Dio non «può salvarsi dalla catastrofe di Auschwitz solo indebolendosi. Cedendo potenza». Né può farlo dalle catastrofi precedenti. Se esiste di quelle è colpevole. Dalla catastrofe di Auschwitz, invece, può salvarsi – dando a questo verbo il significato di riscatto, un riscatto che non elimina la colpa, ma tenta di rimediarvi – l’uomo, e lui sì indebolendosi, cedendo potenza, ma solo se tutti si indeboliscono e cedono potenza.
Infatti, come scriveva Primo Levi, «Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada: perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi»[8].
Ma di questo ci occuperemo oltre. Qui ci limitiamo a ribadire l’opportunità che la religione resti fuori dalla porta della politica. Si può tranquillamente convenire con Jonas che «Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza»[9], e che quindi per il fedele «la diminuzione di potenza è il prezzo che l’idea di Dio paga alla libertà dell’uomo [...] e, infine, all’esistenza di “un mondo”»[10]. Si può convenire che questa per il fedele sia la strada che opera in interiore homine per condurlo alla responsabilità, eventualmente alla coscienza. Ma di qui a farne il perno di un nuovo paradigma politico ne corre.
Infatti, come spiega lo stesso Revelli, è a partire da Leibnitz che «tutta la riflessione moderna sulla questione del male tende a ricondurlo all’uomo»[11]. Dio si fa da parte o a questo provvede l’uomo. Scrive Revelli:
Senza il male, ci dicono in sostanza i moderni, niente libertà (niente libero arbitrio, niente possibilità di scelta). Senza responsabilità, niente storia (e, potremmo aggiungere, niente politica, che è appunto il “luogo” in cui l’uomo assume la propria responsabilità rispetto all’“ordine” del proprio mondo)[12].
Senza politica, dunque, niente responsabilità rispetto all’“ordine” del proprio mondo, ovvero sia rispetto alla convivenza con gli altri; e soprattutto niente storia.
Qui è racchiusa un’importante indicazione per chi va alla ricerca di una nuova politica o comunque del recupero della politica. La fine della storia, ci ha appena detto Revelli, può coincidere solo con la fine della responsabilità e della politica.
La fine della storia è l’Olocausto, la catastrofe assoluta, l’Apocalisse. L’Apocalisse è la distruzione totale, la guerra atomica, la morte, più o meno lenta, del pianeta.
Abbiamo quindi un solo strumento per impedire l’Apocalisse, la fine del mondo: politica e responsabilità. Pensare prima, ed agire poi. Esserci ed essere consapevoli che esistono (ci-sono) gli altri. Compiere atti di cui conosciamo gli effetti e di cui possiamo prevedere le possibili reazioni. Evitare, quindi, sempre la forza, perché ad essa si contrappone sempre una forza di uguale intensità e segno contrario.
La fisica dice questo, ma la politica non può dire altrettanto. La reazione all’azione innescata da una forza è quasi sicuramente di segno contrario, ma la sua intensità è ignota e non necessariamente uguale. Noi ignoriamo, purtroppo, la reale entità degli arsenali a nostra disposizione. Nel bene e nel male. Come dimostrano le pericolosissime armi chimiche irachene mai trovate o le bombe intelligenti americane o il gas usato dai russi per eliminare i terroristi ceceni (e soprattutto gli indifesi cittadini russi) nel teatro Dubrovska di Mosca (è questa la scena con cui si apre il libro di Revelli). Di tutto ciò non sapevamo e non sappiamo.
Sappiamo solo, dal 7 agosto 1945 almeno, che esistono ordigni capaci di annientare l’intero genere umano. Questo lo sappiamo bene, ma non sembra averci persuaso ad imboccare una strada diversa. Non sembra averci inchiodato alle nostre responsabilità, anzi, alla responsabilità.
Si ha l’impressione, invero, a dispetto di quanto si sosterrà in un capitolo successivo, che nemmeno la coscienza, la quale invocheremo come scintilla della nuova politica, ci sia d’aiuto a preferire la politica al conflitto, la pace alla guerra, la sobrietà alla dissipazione, la vita alla morte.
Il male che la riflessione moderna ha ricondotto all’uomo espropriandolo a Dio, appare non più come uno dei due termini tra i quali si può scegliere esercitando quindi il libero arbitrio ed affermando la propria libertà, ma come la scelta obbligata, inevitabile, la conditio sine qua non. O, almeno, come l’oggetto di una sorta di «coazione a ripetere» che la dice lunga sul nostro stato psichico.
Ma se non c’è scelta non c’è responsabilità, e se non c’è responsabilità non c’è politica, e se non c’è politica non c’è storia, e se non c’è storia non ci sono né mondo né uomini.
La salvezza, dunque, passa per il bene. Perché per il male ha già mostrato di fallire.
[1] Ivi, p. 10. Cfr. Josy Eisenberg, Elie Wiesel, Job, ou Dieu dans la tempete, Paris, Fayard Verdier, 1986, tr. it. Giobbe o dio nella tempesta, di Chiara Pagani, Torino, Sei, 1989; Walter Vogels, Job, l’homme qui a bien parleé de Dieu, tr. it. Giobbe. L’uomo che ha parlato bene di Dio, Milano, Edizioni San Paolo, 2001; Carlo Maria Martini, Avete perseverato con me nelle mie prove. Riflessioni su Giobbe, Casale Monferrato, Piemme, 1990; Simone Weil, Attente de Dieu, tr. it. Attesa di Dio, Milano, Rusconi, 1972.
[2] Revelli, p. 11.
[3] Ivi, p. 13.
[4] Friedrich Nietzsche, Die Frohliche Wissenschaft, 1882, Leipzig, Kroner, 1930, tr. it. La gaia scienza di Ferruccio Masini., vol. III, § 125. Cfr. anche Martin Heidegger, Nietzsche Wort “Gott ist tot” (1936-40) in Holzwege, Frankfurt am Main, Klostermann, 1950, tr. it. La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, di Pietro Chiodi, in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 191-246.
[5] Revelli, p. 16. Più oltre (p. 20) Revelli paragona Dio a un «demiurgo occulto e inconoscibile che si giocò ai dadi la vita di Giobbe agli albori della civiltà».
[6] Elie Wiesel, La nuit, Paris, Les editions du Minuit, 1958, tr. it. La notte, Firenze, Giuntina, 1980, p. 67, cit. in Revelli, p. 107.
[7] Revelli, p. 111.
[8] Primo Levi, Vanadio, in Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1975, ora in Opere, vol. i, Torino, Einaudi, 1997, p. 933.
[9] Hans Jonas, Ider Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine judische Stimme, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1990, tr. it. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Genova, Il Melangolo, 1990, p. 36, cit. in Revelli, p. 111.
[10] Revelli, p. 111.
[11] Ivi, p. 19. Cfr. Gottfried Wilhelm Leibnitz, Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal, Amsterdam, 1710, tr. it. Saggi di Teodicea, Milano, San Paolo, 1994.
[12] Ivi, pp. 19-20.
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