La politica ritrovata. II. La molla della politica

Giobbe

II. La molla della politica

È vero che la molla che muove l’uomo verso la politica è, come sostiene Revelli, la sofferenza di Giobbe, il torto subito, l’ingiustizia patita da una vittima per mano di chi non avrebbe proprio dovuto esserci nemico e di chi detiene un potere così enorme su di noi?

È vero, ma solo parzialmente. Innanzitutto dobbiamo sbarazzarci di un equivoco. Giobbe se la vede con Dio; gli uomini, dinanzi alla politica, con altri uomini. Di poi è vero, e nemmeno interamente, per le classi subalterne, per le vittime dell’ingiustizia. Anche fra gli umili c’è chi non reagisce, chi non sente l’impulso della molla. Anche fra i sudditi vessati dal potere c’è chi sbotta non per sé, ma per i propri simili. Anche nel proletariato c’è chi comincia a darsi da fare non per eliminare le classi, ma per risalire la scala sociale.

Vai all’indice

Vai al capitolo successivo

Vai al capitolo precedente

Del resto anche nei ceti dominanti, fra coloro che detengono un qualche potere e possono aspirare a “regnare”, può agire la morale avversione all’ingiustizia. Ma chi domina, chi trae beneficio dall’ingiustizia, chi intende esercitare potere “su”, di Giobbe non si cura affatto. Può addirittura ritenere che quell’uomo anziano non soffra, o che sia giusto che soffra, o almeno inevitabile: la disparità economica è un’ingiustizia? E ammesso che lo sia, da un punto di vista del tutto teorico, nella pratica non si deve prendere atto dell’assoluta indiscutibilità delle leggi di mercato?

Dunque la molla che muove l’uomo verso la politica non è sempre, anzi non è quasi mai, la sofferenza di Giobbe. Lo sdegno morale contro l’ingiustizia o il tentativo di soddisfare un bisogno represso da qualcun altro, da un proprio simile che evidentemente detiene un potere su di noi, non sempre innescano la politica.

Se questo è vero, è vero anche che nemmeno la ricerca del bene comune è la molla della politica. Così come neppure la ricerca del bene proprio. Spesso sì la “supposta” ricerca del bene proprio. Ma la falsa coscienza qui gioca brutti scherzi: com’è possibile che le tirannie godano sovente di vasti consensi? E qual è la ragione che nelle democrazie induce i ceti meno abbienti a sostenere chi propugna politiche volte a penalizzare proprio quei ceti, anche solo riducendo il welfare state?

Se si fa eccezione per quei momenti della storia che hanno visto una forte partecipazione delle masse alla vita politica – in linea di massima alcune campagne elettorali, le rivoluzioni, le sommosse, talune guerre, ancorché si sia detto che la guerra è esattamente la negazione della politica – la principale molla della politica è il proprio protagonismo.

Non si fa politica per schiacciare gli altri, né per impedire che gli altri ci schiaccino. O almeno non è questa la miccia che innesca il pensiero di chi “scende in politica”. L’incipit, semmai, è “salire”. Non ci si accontenta più del generico mugugno contro l’oppressore, della deprecatio temporis, si vuol emergere; non ci si accontenta più del privilegio sociale, serve una gratificazione pubblica, un riconoscimento ufficiale.

Certamente, chiunque scenda in politica sa, o prima o poi mette a fuoco, che non si può solo conquistare potere; bisogna anche difenderlo e mantenerlo. Si deve fare i conti con altri poteri, si sale e si scende sulla “bilancia dei poteri”. Si devono prevedere vittorie e sconfitte, secondo un linguaggio totalmente derivato dal dizionario della guerra, che – malgrado la celebre affermazione di Carl von Clausewitz[1] – è la negazione della politica.

Vero è, tuttavia, che senza male non c’è politica. In questo Revelli ha ragione. Ha ragione quando scrive, lo abbiamo già citato, che nel Leviatano il male figura «come condizione prima ed essenziale del “politico”; come suo presupposto costitutivo. [...] tratto specifico della condizione naturale dell’uomo»[2].

Male inteso, come già detto, «nella sua dimensione esistenziale più nota e diffusa – il male come possibilità di sofferenza e di morte, di dolore e paura (quello contro cui si levava il grido di ribellione di Giobbe), e come permanente stato di guerra, in cui “ogni uomo è nemico ad ogni uomo” e ognuno vive “senz’altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire”»[3].

Ma qui Revelli fa un salto che non consente di rappresentare più la politica nella sua reale dimensione. Scrive che «per sfuggire a quella condizione intollerabile di precarietà e incertezza della propria vita, affidata al gioco incerto della forza altrui e della violenza di tutti contro tutti [...] gli uomini, obbedendo alla propria Ragione, accettano e fondano quel Potere Politico che solo può garantire la sopravvivenza di tutti e di ognuno»[4].

In parte è vero, ma non per tutti. Qualcuno non vuole sfuggire a quella condizione, ma imporla. E lo fa anche stringendo il patto, ma un patto iniquo, ingiusto, che non garantisce diritti identici per tutti: ci sono diritti per chi il Potere lo detiene, e diritti per chi il Potere lo subisce.

In altre parole per qualcuno la politica è il mezzo per sottrarsi al male, per altri invece è il mezzo per riservarlo a chiunque fuor che a se stesso. Anche costui vuole «sfuggire a quella condizione intollerabile di precarietà e incertezza della propria vita, affidata al gioco incerto della forza altrui e della violenza», ma non di tutti contro tutti: degli altri contro di sé. E il mezzo non è quello di sopprimere la forza e la violenza, ma di acquistarne di sempre maggiore per esercitarne di sempre maggiore.

Checché ne dicesse Hobbes, dai suoi tempi a oggi, gli uomini, obbedendo alla propria Ragione, non hanno accettato e fondato quel Potere Politico che solo può garantire la sopravvivenza di tutti e di ognuno. Hanno accettato e fondato quel Potere Politico che ha garantito la sopravvivenza di qualcuno e di altri no. Che ha garantito la sopravvivenza di qualcuno perché non l’ha garantita ad altri.

Con ciò gli uomini hanno effettivamente obbedito alla propria ragione, non alla Ragione. Il patto, insomma, più che un patto è stato un editto, un capestro: se vuoi salva la vita, metti qui la tua firma. Ma l’atto è stato scritto unilateralmente.

Se rileggiamo una frase scritta in precedenza – quella che afferma che nello stato di natura, prima del patto cioè, «ognuno – in questo senso eguale a tutti gli altri – può legittimamente vantare uno ius in omnia, un diritto naturale su tutto ciò che con la forza o con la frode riesce ad accaparrarsi»[5] – comprendiamo che il diritto civile, e quindi la giustizia, introdotti dopo la stipula del patto, dopo la fondazione cioè dello Stato, fanno seguito a un precedente diritto (quello naturale) e a una precedente giustizia (quella in omnia, su tutto), i quali, tuttavia, erano assai ingiusti se chiunque poteva, con la forza e con la frode, accaparrare l’omnia a disposizione di tutti.

Comprendiamo inoltre che l’eguaglianza di chiunque a tutti gli altri si riduceva, prima del patto, alla possibilità di vedersi accaparrare, con la forza e con la frode, quanto era a propria disposizione come a disposizione degli altri; oppure alla possibilità di accaparrare, con la forza e con la frode, le medesime cose strappandole ad altri.

In altre parole non era affatto un’eguaglianza, se non all’interno di due gruppi distinti, totalmente diseguali fra loro: quello dei ladri e quello dei fessi, quello dei prepotenti e quello dei deboli, quello degli sfruttati e quello degli sfruttatori.

Ma questa eguaglianza/diseguaglianza, questa divisione in almeno due gruppi, questo esercizio della forza e della frode, si sono riprodotti esattamente anche dopo la stipula del Patto. Più regolamentati, forse, ma non meno evidenti.

Il che ci riconduce al concetto di classe che negli ultimi decenni si è voluto dimenticare, dal momento che con l’acqua sporca, anzi lercia, del comunismo, si è gettato via anche il bambino del pensiero di Marx: operazione sporca, dettata nei più da un opportunismo fuor di misura, e in qualcun altro, invece, o dai sensi di colpa, o dalla difficoltà ad articolare qualcosa di nuovo che tenesse conto di quel che era acquisito e di altro ancora, senza per questo sottostare all’abiura; senza per questo, gattopardescamente, cambiare tutto perché tutto resti com’è; senza per questo, soprattutto, rinunciare, ritrarsi, uscir dalla vita, dalla responsabilità, dalla politica. Che poi, a ben guardarle, sono la stessa cosa.

Questo ci porta a mettere a fuoco una delle critiche di fondo da fare al libro di Revelli, al fatto cioè che in esso vi è una scarsissima, pressoché inesistente, attenzione all’economia, di cui è chiaro che c’è consapevolezza, ma altrettanto chiaro è che si è deliberatamente voluto non occuparsene qui. Il che è assolutamente legittimo, però priva tanto l’excursus storico quanto la fase propositiva di un elemento assolutamente indispensabile, di una conditio sine qua non che dovrebbe risultare assai evidente.


[1] «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi». Carl von Clausewitz, Vom Kriege, 1837, tr. it. Della guerra, Milano, Mondadori, 1997.

[2] Revelli, p. 23. Sul debito di Hobbes al Libro di Giobbe si vedano le pagine 28-34.

[3] Ivi, pp. 23-24. La citazione di Hobbes è dal Leviatano, cit., p. 120.

[4] Revelli, p. 24.

[5] Ivi, p. 50.

Vai all’indice

Vai al capitolo successivo

Vai al capitolo precedente

Tags: , , ,

Leave a Reply