La politica ritrovata. I. Ripensare la politica
i. Ripensare la politica
In sole 137 pagine, Marco Revelli fa uno sforzo veramente notevole: quello di ricostruire i punti cardine del pensare e dell’agire politico nel corso della storia, da Platone ai giorni nostri, e di suggerirci, quindi, in questa epoca di grande sconcerto e desolazione, una via d’uscita per il futuro.
La politica perduta[1] non è un libro di storia delle dottrine politiche; né un pamphlet agitatorio per una nuova formazione politica alla ricerca di autorevoli referenze teoriche; né, infine, un saggio gelido e accademico per sfoggiare un po’ di erudizione. C’è qualcosa di tutto questo: lo sguardo d’insieme e la capacità sintetica; il pathos di chi si sente nella mischia e si rende conto che i tempi che corrono, quelli di breve e di lungo periodo, promettono poco di buono e urge fare qualcosa; una considerevole conoscenza delle idee a nostra disposizione e dell’evoluzione che esse hanno avuto, accompagnata dalla consapevolezza dei limiti di quei vecchi strumenti e degli argomenti a favore o contro di essi; le coordinate concettuali di riferimento, in particolare quelle figure mitiche che, espresse nel pensiero religioso, costituiscono i cardini o il substrato su cui si fondano le costruzioni politiche.
In quel libro si parla di politica. Di quella “alta” e di quella “quotidiana”. Ci viene ricordato, per esempio, che innanzitutto la politica è solo e semplicemente l’habitat del politicon zoon; si può scansarla quanto si vuole, rifugiandosi in questa o in quella consolazione, ma essa sta lì, inesorabile, a ricordarci la sua esistenza e l’interferenza forte con la nostra vita quotidiana[2].
Ci vengono ricordati i legami profondi che la politica ha con la morale, e non tanto con posticce e artificiose costruzioni di valori tenui come banderuole esposte al vento dello stomaco di Brecht[3], quanto con pratiche e inevitabili rese dei conti con il bene e il male, con ciò che ci fa bene e con ciò che ci fa male, con l’etica del piacere e del dolore, con l’esperienza della sicurezza e quella della paura, del terrore, della fame, dell’indigenza.
La politica, oltre a molte altre cose, è arte del dialogo, cioè retorica, perché presuppone che, in buona o cattiva fede, si cerchi prima tramite la parola di convincere qualcuno di ciò che si è fatto, si sta facendo, si intende fare. Anche il tiranno, il re assoluto, colui il quale governa senza consenso e nel disprezzo più totale sia dei propri avversari che dei propri sudditi, ha bisogno di servirsi della parola, della persuasione, del convincimento. Non esiste in terra potere così assoluto da non curarsi totalmente delle azioni e delle reazioni alle proprie azioni da parte degli altri esseri viventi su questa medesima terra.
Del resto, se non ci fossero gli altri, non ci sarebbe politica, né governo, né regni, né partiti, né fazioni, né eserciti. Persino le religioni, che hanno indistintamente prodotto entità superiori dotate di poteri sovranaturali e perciò capaci di compiere azioni incuranti della reazione di chi subisce quell’azione, hanno in qualche maniera previsto forme di interazione e, quindi, di balance of power fra il governante e i governati: dalla mensa degli dèi dell’Olimpo alla preghiera delle religioni monoteiste fino all’appartenenza comune alla Natura sia dell’ordinante che degli ordinati. Azioni e reazioni che, prima di degenerare in atti unilaterali e irreversibili, si manifestano per lo più sotto forma di dialogo e quindi di scambio di parole.
Ora, chiunque abbia “fatto” politica e molti di coloro che pur non avendola fatta se ne sono comunque interessati, sanno che un buon politico – abile cioè nel far politica, non necessariamente propugnatore di encomiabili ideali –, avendo doti oratorie, se deve stroncare qualcosa, inizia facendone il panegirico. Costoro – quelli che hanno fatto politica o almeno se ne sono occupati – sono il potenziale pubblico di questo scritto: i lettori e, tutto sommato, gli elettori. Essi, quindi, sanno bene che nelle prime righe di questo scritto è nascosto un tranello. L’elogio del libro di Revelli presuppone una stroncatura, un affondo. Si tratta solo di stabilire in quale momento ci sarà il colpo di scena e su cosa si incentrerà la spietata critica.
A scapito della suspense ecco il colpo di scena, se di questo si tratta: il libro di Revelli contiene alcuni punti deboli, ed è su quelli che s’incentra la critica, ma questa non è così spietata dato invece che l’apprezzamento del libro nel suo complesso è di gran lunga superiore alle obiezioni che gli si possono muovere.
Prima di entrare nel merito di queste critiche è opportuno ribadire proprio che l’impianto del libro è ampiamente condivisibile perché costituisce uno strumento prezioso per comprendere i limiti della “vecchia politica” e individuare fra questi ciò che invece può essere d’aiuto a una “nuova politica”, così come condivisibile e assolutamente apprezzabile è il tentativo di proporre una riscoperta, un rilancio della politica. La sola intenzione meriterebbe, presa a sé, il dovuto rispetto. Ma vediamo ora i punti deboli.
La tesi centrale del libro di Revelli è esposta nel capitolo III (La politica in frantumi) ed è racchiusa nell’affermazione che «il “paradigma politico dei moderni” non funziona più. Che la sua “spinta propulsiva” si è infranta»[4].
Perciò ce ne occorre uno nuovo, che Revelli tenta di descrivere nell’ultimo capitolo, proustianamente intitolato Alla ricerca di una «politica del futuro».
Il paradigma politico dei moderni entrato irreversibilmente in crisi è, secondo Revelli, quello esposto nel 1651 da Thomas Hobbes nel Leviatano. Quel libro è «il luogo costitutivo del paradigma politico della modernità»[5].
In esso il male – «nella sua dimensione esistenziale più nota e diffusa, il male come possibilità di sofferenza e di morte, di dolore e paura (quello contro cui si levava il grido di ribellione di Giobbe), e come permanente stato di guerra, in cui “ogni uomo è nemico ad ogni uomo” e ognuno vive “senz’altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire”»[6] – vi figura «come condizione prima ed essenziale del politico; come suo presupposto costitutivo»[7].
E infatti Hobbes affida «la garanzia del massimo bene collettivo terreno – la pace sociale, la sicurezza dei cittadini –, alla più terribile delle potenze negative», a quella figura che rappresenta «simbolicamente il potere politico sovrano attraverso l’immagine biblica dell’incarnazione del Male»[8].
Perciò, da Hobbes in poi, tutta la concezione moderna dello Stato e della politica andrà «nella direzione di un uso razionale e salvifico del “male” (come mezzo) per ottenere il “bene” (l’ordine, la convivenza) come risultato»[9]. Il male, dunque, si combatte col male e da questo può derivare il bene.
Ma il paradigma politico dei moderni fondato da Hobbes non si esaurisce qui. Esso presuppone anche che l’uomo, a differenza di quel che si riteneva nell’antichità, non possa più essere visto «nella sua innata socialità, ma al contrario [...] per quello che è: animale solitario»[10].
Animale solitario mosso da passioni e pulsioni, il cui «stato di natura» è il disordine, il «bellum omnium contra omnes», entro il quale «ognuno – in questo senso eguale a tutti gli altri – può legittimamente vantare uno ius in omnia, un diritto naturale su tutto ciò che con la forza o con la frode riesce ad accaparrarsi»[11].
Perciò uno stato di natura nel quale ognuno è «un mondo a sé [...] diretto al proprio bene»[12] e nel quale non vige giustizia, perché appunto ognuno può far valere la propria forza per garantire il proprio bene, come legittima difesa, ma anche come possibilità di offesa.
È solo concentrando nel Leviatano la forza di tutti e sottraendola a ognuno, che si può introdurre una distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, fondando uno Stato, un potere capace di fare legge e, quindi, una giustizia artificiale e non naturale, perché nello stato di natura vige, ancorché un’eguaglianza, l’ingiustizia. Infatti, «Dove non c’è Stato, non c’è niente di ingiusto»[13]. Ma neanche di giusto. Perché non c’è chi stabilisca cos’è l’uno e cosa l’altro.
La giustizia diviene dunque la sottrazione dell’uso della forza agli uomini, e l’attribuzione di essa in esclusiva allo Stato, «il luogo nel quale può avvenire il “miracolo” della transustanziazione della distruttività in sicurezza. In cui, cioè, l’uso monopolistico della Forza può assicurare a ognuno (a ogni contraente del patto sociale) l’unico, certo, “bene” in assoluto: la vita – la preservazione della propria sopravvivenza individuale –. Ed evitare il male peggiore – l’unica cosa percepita come naturalmente “ingiusta” –: la propria morte individuale»[14].
Il paradigma politico dei moderni è dunque essenzialmente un paradigma securitario. La sicurezza in cambio del consenso. Quand’esso non è più in grado di garantire la pace, di elargire sicurezza, esso è come morto. Questo è quel che giustamente sostiene Revelli. Giustamente tranne che in un punto.
Thomas Hobbes è il teorico della fondazione dello Stato moderno. Non delle democrazie parlamentari, che pur sono il compimento dello Stato moderno, o di altre forme di regime politico. Solo dello Stato moderno, così come lo abbiamo inteso per molti secoli. Di un’entità cioè in cui ci sono dei cittadini governati e un’autorità che governa. E dei rapporti, quindi, che regolano gli uni e l’altra. Delle leggi, cioè.
È il teorico dello Stato moderno, non della Nazione. E neppure – come avrebbe potuto, del resto! – di un’entità sovranazionale e interstatale.
Sarebbe sbagliato, data la stretta relazione che esiste tra la politica e lo Stato, scindere del tutto la riflessione sulla prima da quella sul secondo, ma non è nemmeno giusto farle coincidere. Sbaglia chi ancora oggi privilegia un’idea della politica che si consuma tutta nella società civile, così come sbaglia chi presta attenzione solo alle istituzioni, ai trattati, alla politica dei Grandi più che alla grande politica.
Se dunque è sbagliato tanto far coincidere, quanto scindere, la riflessione sulla politica da quella sullo Stato, rimane qualche dubbio sulla veridicità dell’affermazione che in Hobbes sia da rinvenire l’origine del “paradigma politico dei moderni”.
Se quest’affermazione non dovesse stare in piedi, non starebbe in piedi neanche quella che ne consegue nel ragionamento di Revelli, e cioè che al giorno d’oggi sia entrato in crisi il “paradigma politico dei moderni”.
Il che non significa che un qualche paradigma politico non sia entrato in crisi, ma non necessariamente quello fondato sull’idea propugnata da Hobbes, secondo la quale gli uomini, per evitare di essere esposti alla brutalità delle forze operanti nel bellum omnium contra omnes che contraddistingue lo stato di natura, debbono sottoscrivere fra di essi un patto col quale fondare un’autorità superiore – il Leviatano – alla quale devolvere la propria forza.
Non è tanto vero che sia entrato in crisi il patto hobbesiano, quanto che esso sia valso prima. Hobbes ha scritto con una straordinaria lucidità quasi quattro secoli fa e da allora di cose ne sono successe nel mondo, e altri, dopo di lui, hanno tentato di capire e spiegare come andavano le cose.
Per esempio noi dovremmo considerare come elemento costituente del paradigma politico dei moderni il pensiero che sta alla base della Rivoluzione francese, perché è nel 1789 – o due anni prima, nel 1787, quando a Filadelfia fu stesa la Carta fondativa della Repubblica americana[15] – che vanno ricercate molte delle basi concettuali su cui poggia ancor oggi il nostro modo di intendere la politica. In particolare fu allora che si gettarono i preliminari dei diritti umani fondamentali ai quali ancora, benché solo retoricamente, facciamo appello quando cerchiamo dei capisaldi che giustifichino le nostre azioni politiche e il nostro operare nella storia.
Noi oggi parliamo di globalizzazione e allora di universalità, e tra questi due concetti c’è un filo che corre strettissimo. Così come dovremmo recuperare, nell’individuazione del paradigma politico dei moderni, concetti come lotta di classe o libero arbitrio o nihilismo, ancorché il primo ci scandalizzi solo a sentirlo, il secondo, sotto forma di libero mercato, sia diventato una sorta di tabù intoccabile e il terzo ci incuta terrore.
Senza questi concetti, e altri ancora, la nostra riflessione è monca, e il meritorio tentativo di ricercare una politica del futuro, di più, l’encomiabile sforzo di ritrovare la politica perduta, di riaffacciarci sulla scena della vita e della storia, di riprendere in mano il proprio destino – così come fece l’umanità all’epoca dell’Umanesimo, quando si sottrasse all’ineluttabilità delle forze divine – mostrano di essere votati al fallimento, a una nuova cocente sconfitta.
E prendiamo per buono quello che proprio Revelli scrive nelle ultime righe del suo libro: «sarebbe una sconfitta, per tutti»[16].
La riflessione, dunque, può ripartire da Hobbes come suggerisce Revelli, e spingendosi con lui più indietro, dal Libro di Giobbe, ma deve nutrirsi di qualche altro contributo che è a nostra disposizione.
[1] Marco Revelli, La politica perduta, Torino, Einaudi, 2003. D’ora in poi revelli.
[2] Com’ebbe a rispondere un amico negli anni caldi della politica a una persona che gli chiedeva se lui si occupava di politica, «è lei che si occupa di me».
[3] Bertolt Brecht, «Giratela come vi pare, prima viene lo stomaco e poi la morale».
[4] Revelli, p. 59.
[5] Ivi, p. 23.
[6] Ivi, pp. 23-24. La citazione di Hobbes è dal Leviathan, 1651, tr. it. Leviatano, di Gianni Micheli, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 120.
[7] Revelli, p. 23.
[8] Ivi, p. 31.
[9] Ivi, p. 33.
[10] Ivi, p. 46.
[11] Ivi, p. 50.
[12] Ibidem.
[13] Thomas Hobbes, Leviatano, cit., p. 139.
[14] Revelli, p. 51.
[15] Si rifaceva ai princìpi di libertà, democrazia, ricerca della felicità per tutti gli esseri umani e, per quanto atteneva ai rapporti interni tra le Repubbliche con il nuovo Stato, al principio del federalismo.
[16] Revelli, p. 137
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