Wozu dichter?
Ci sono amici con cui si può stare ore a parlare. Anzi: ad ascoltarli. E, anche se in alcuni momenti il loro bisogno di parlare risulta leggermente patologico, davvero rispondente al solo loro bisogno di parlare, di avere un pubblico dinanzi ed orecchie senzienti, ciò che si apprende, ciò che giunge, ciò che si incamera, ciò che si sente, è nutrimento, salute, ricchezza. Questo avviene in particolare con le persone che hanno molto vissuto o molto pensato.
Sono due doti indispensabili a scrivere un libro: bisogna aver di che scrivere, non solo saperlo fare, e il più delle volte ciò deriva principalmente dall’aver vissuto o pensato. Orbene, vi son persone che anziché trasferire quel vissuto e quel pensiero sul foglio di carta, lo consegnano alla parola, al dialogo, alla conversazione e possono andare avanti per ore, giustappunto tenendo desta l’attenzione e l’udito di chi hanno di fronte.
Ecco, un amico, malgrado una certa mia stanchezza e un momentaneo ma attualmente insopprimibile fastidio a sopportare gli altri, mi ha tenuto qualche ora a elucubrare su questioni diverse, spaziando dalla politica alla filosofia, dal costume alla letteratura, alla confessione e per quella strada alla psicologia, sempre attingendo alla propria erudizione che è un ingrediente basilare per sollecitare la curiosità a cui accennavo precedentemente.
Si è trattato di un dialogo, non di un monologo, per cui c’è stata interlocuzione, ma come ho spiegato, i miei interventi son stati moderati, quasi solo dei correttivi per non disperdere il filo di un discorso o precisazioni che evitassero eventuali equivoci. Quel che ne ho tratto meriterebbe la stesura se non proprio di un saggio, almeno di un corposo articolo da rivista culturale, non meno di dieci cartelle sicuramente.
La questione di fondo, a cui solo accenno, è se l’intelligenza con cui saggiamente critichiamo il mondo così come ci si presenta, non sia in definitiva solo un rimedio alla nostra incapacità di stare in questo mondo, una sorta di farmaco che ci protegge dalla pesante realtà in cui siamo immersi, e quindi, in definitiva, che lo stesso pensare sia solo un alibi per non vivere. Un bel quesito esistenziale, intorno al quale in forme diverse mi son più di una volta e variamente arrovellato, trovando anche solide intuizioni, le quali però, alla luce di quanto appena affermato, possono essere esse stesse una droga a cui sottomettersi per estraniarsi da questo mondo e da questa vita.
C’era un filosofo che si chiedeva «perché i poeti?». E il poeta si potrebbe chiedere «perché i filosofi?». E noi, forse, «perché i perché?»
Tags: Antonio Rigol, Martin Heidegger, Maurizio Marinelli, Saber Jelidi
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