L’occhio
C’è un occhio che ti guarda, forse son due e per questa strada magari quattro. Ti guarda, ti osserva, al limite ti spia, fruga dentro di te, inquieto cerca quello che non sa trovare altrove, disabituato a guardare, a vedere, a cogliere, disattento, distolto, disturbato, disadattato, sofferente. Un occhio con le palpebre serrate e il bulbo invertito, la pupilla dall’altra parte, il cristallino sottosopra, l’iride a ritroso.
Che sia bello quell’occhio poco importa, che abbia un bel colore e che tu l’abbia visto sorridere, poco importa. E anche se importasse non importerebbe a nessuno. Nessuno ha mai chiesto a un occhio che gliene importi qualcosa. Il suo compito è guardare, vedere, portar la luce dentro, o al limite percepire l’assenza di luce, il buio.
Assomiglia sempre meno a un occhio quell’occhio. Troppe lenti, troppi specchi, minuscole telecamere, fibre ottiche, microchip. E poi c’è la mente a condizionarlo, a fargli vedere quello che non c’è o quello che si vuol vedere o che non si sa far altro che vedere perché non si è buoni a veder altro, e ci spaventa vedere quel che c’è.
Ci son gli altri occhi che gli dicono cosa guardare e il suo campo visivo si sposta, deraglia, ancor peggio, come già scritto, si volge all’opposto, ma per quella via ha troppi ostacoli – muscoli, mucose, mucillagini, maschere, meschinità, messeinscena, messe – per giungere a vedere fino in fondo, dove sarebbe guardare se solo si avessero gli occhi capaci o desiderosi di farlo e non si temesse quello che si può vedere, perché talvolta può capitare di guardare in faccia l’assurdo.