Il modello del modulo
Fra le cose che mi sarebbe piaciuto fare nella mia vita lavorativa c’era – uso il passato perché vi ho rinunciato, avendo compreso che si tratterebbe d’una battaglia contro i mulini a vento – quella di metter ordine nella comunicazione scritta della pubblica amministrazione, o comunque dei grandi fornitori di servizi ai cittadini. Non intendo tanto il lavoro con i comunicati stampa, che in realtà ho fatto, né quello negli uffici dove la comunicazione è intesa come pubblicità e promozione. Intendo, invece, la banale trasmissione di messaggi interni, la compilazione di documenti, moduli, lettere, relazioni, circolari, provvedimenti, l’affissione di cartelli e indicazioni, l’esposizione in bacheca.
Ho ricordi lontani di carta polverosa e rugosa, è vero, e perciò inospitale, anzi respingente, repulsiva, ma tutto sommato riconoscibile, catalogabile, certa. L’Inps aveva i suoi moduli e l’Enel, o la Sip – quando Telecom, Tim e tutti gli altri erano una bestemmia perché c’era uno Stato a garantirci le infrastrutture di comunicazione – parlavano sempre nello stesso stile, ognuno il proprio, o almeno la forma.
Oggi giri un ospedale o un ufficio postale o l’anagrafe d’un Comune o le stanze affastellate d’un tribunale o la filiale della banca ed ogni foglio di carta balla con sua nonna, e quando vai a riordinarle quelle carte stenti a comprendere di dove vengano e chi le abbia prodotte e a quali scopi siano destinate. Fissi i muri e ti chiedi il senso di moniti, avvertimenti, prescrizioni, avvertenze e ti domandi perché non abbiano spazi preposti e debbano spuntare come funghi approfittando di pareti vuote o di superfici lavabili, perché stiano a destra quando ti mandano a sinistra, perché mescolino linguaggi con metalinguaggi, o accomunino l’utente con l’operatore suggerendo al primo l’orario della pausa e al secondo quello d’apertura degli uffici.
Guidi o cammini per strada e anche la segnaletica sembra volerti solo indurre in errore o trarti nel tranello e mettere a dura prova la tua capacità di frantumare il tuo occhio in un caleidoscopio di rifrazioni che il cervello deve riordinare affidando a ciascuna il suo posto.
Così, nella mia nuova professione abbandonata prima d’averla anche solo proposta, avrei affibbiato colori certi alle indicazioni in base al tipo di informazione che devono dare, alla loro perentorietà e urgenza, stabilendo un ordine dall’alto verso il basso a seconda della gerarchia del messaggio da comunicare. Avrei uniformato i formati delle matrici, dei bolletini, delle cedole, delle ricevute, stabilito uno standard per i ticket e i numeri di prenotazioni in lista d’attesa, imposto l’uso d’un carattere tipografico, d’una giustezza, di un’interlinea, rendendo impotenti i computer e i loro demenziali set di font più comunemente noti come disponibilità di caratteri, fra i quali solitamente vien messo a disposizione un obbrobrio tipografico che è stato non a caso battezzato comics da quanto è ridicolo e perciò incomprensibile.
Avevo molti sogni da bambino, volevo fare il pompiere e l’astronauta, il soldato e l’attore. Poi mi sono svegliato e ho detto: vivo in questo mondo.
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