Il senso della pace

La prima domanda è: ha senso la pace? È meno stupida di quel che sembri la domanda, perché non si può prescindere dal fatto che, da che mondo è mondo, non che la pace non sia esistita e magari anche diffusa e territorialmente maggioritaria, ma un conflitto almeno c’è quasi sempre stato. Sarebbe interessante se uno storico o un gruppo di storici predisponesse, ora poi con l’ausilio dell’informatica, dell’animazione digitale e della tridimensionalità, una mappa del mondo dalle origini ai giorni nostri che evidenziasse, sulla scorta dei documenti e delle testimonianze in nostro possesso, l’estensione delle ostilità e il loro sviluppo nel tempo, magari associando a questa mappa virtuale qualcosa che ci dica delle popolazioni coinvolte, civili o militari che fossero, ma quel tanto che ci consentisse di comprendere a colpo d’occhio quanta sofferenza è stata prodotta.

Intorno alla prima domanda si aprirebbe naturalmente una diatriba tra filosofi, ormai ampiamente sviluppata e esaurita in ogni suo elemento, nella quale si porterebbe a supporto della propria interpretazione il buon selvaggio di Jean Jacques Rousseau o l’animo ferino di Nietzsche, in cerca della vera natura dell’animo umano, per dimostrare nell’un caso che potremmo, volendo, rasserenarci tutti in cuor nostro e sorridere al prossimo, nell’altro che un rodimento non ci abbandonerà mai e solo l’accettare questo squilibrio può renderci meno inquieti.

Ma ammettendo che la pace abbia un senso ed avvalendoci di Rousseau e di Nietzsche e di chi altro si voglia, bisognerebbe poi chiedersi qual è il senso della pace, o meglio quale gli individui intendono dargli e se su quello individuato possa esserci condivisione e convergenza. Le sfumature e le definizioni potrebbero essere molte, da una variante dell’atarassia alla semplice assenza di armi e altri strumenti d’aggressione, dall’amore universale all’estensione massima della coscienza individuale.

Non so dar risposta all’interrogativo né intendo fare il catalogo dei significati attribuibili. Voglio solo scartare dal possibile vocabolario un significato di pace intesa come capitolazione, come guai dei vinti, vae victis, come gioco imposto per terminare lo scontro. È, invece, questo un significato assai diffuso, ovviamente assai diffuso, perché come scriveva Tacito: “Auferre, trucidare, rapere falsis nomibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”, il deserto chiamato pace. Quella che il più delle volte i popoli hanno conosciuto è una pace ottenuta con la guerra, poco importa chi avesse più ragione nel conflitto o nelle cause che l’hanno prodotto, se l’aggredito o l’aggressore e chi dei due sia risultato vincitore.

Scarterei dal mio vocabolario questa definizione, queste forche caudine alle quali soggiogare chi nella prova di forza è risultato più debole e vulnerabile, così come scarterei un altro senso della parola pace, meno cruento del primo, ma parimenti umiliante: c’è chi intende la pace come l’annientamento del nemico, la sua riduzione a qualcosa di utile al vincitore, la sua incondizionata resa al volere, alle pretese, ai deliri di chi detta le condizioni dell’assenza di armi. C’è, nell’esercito di coloro che invece apprezzano questa soluzione, una più o meno consapevole riminescenza del desiderio di battersi, questa volta servendosi di armi meno affilate o letali, ma non meno ferenti: le armi della mente.

Perché la pace abbia un senso bisogna che tutti coloro che vi partecipano, vincitori e vinti, ve ne trovino uno, e questa soggettività sia reciprocamente rispettata e non sia fonte di nuovi conflitti.

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