Infinitesimali
Io non so. Le ho sentite tante volte da bambino che mi sembrano, per così dire, naturali. In mio possesso e nel dominio di tutti. «Ne vorrei una lacrima» si risponde a chi ti offre qualcosa da bere, ed è evidente che gli si sta dicendo di versare poco, appena appena. E chissà se dietro c’è un residuo triste, doloroso, legato al pianto, forse a una rinuncia.
Qualcuno ti allunga il vassoio a tavola e tu dici: «Solo un’idea». Splendida frase, con tutte le sue contraddizioni epistemologiche, come se l’idea fosse meno dell’oggetto che rappresenta e quanto sta nella mente inferiore a ciò che si trova nel mondo. «Solo un’idea», anche qui un’infinitesimale, microscopica frazione, un’inezia.
Son modi di dire piemontesi, comunemente usati nel linguaggio di tutti i giorni, entrambi sinonimo di “cicinin”. A spulciare i dizionari dialettali se ne troveranno certamente di analoghi in ogni dove, mi viene in mente l’”ombra” veneta, non l’oggetto vero e proprio ma solo la sua proiezione per effetto di una luce, sufficiente però a indicare che l’oggetto esiste, è presente, c’è.
Quanta fantasia c’è stata ai nostri albori, nelle epoche di privazioni del linguaggio, quando il dialogo era tutto da costruire e ognuno doveva metterci del suo, qualcuno a proporre significati e qualcun altro ad accoglierli, svelarli, riconoscerli per giungere a qualcosa di condiviso.
Mio cugino, superstite di quella tradizione orale dalla quale ormai sono emarginato, ha ritrovato un reperto prezioso del quale avevo ricordo, me l’ha scannerizzato e spedito per posta elettronica. Lo allego in fondo al post per chi ne fosse interessato, sperando che qualcuno meglio di me – ne comprendo solo il senso complessivo ma mi sfuggono singole parole di cui ignoro totalmente il significato – possa dargli una traduzione.
Come si vede la “lacrima” e l’”idea”, per quanto rarefatte e volutamente sfumate, quasi un po’ ambigue, non sono affatto approssimative, vaghe, sfuggenti. Anzi hanno tale e tanta precisione che c’è da rimanerne basiti. La lacrima, che si scrive accentando la prima a, Làcrima, corrisponde a 0,20 millimetri e ci vogliono due idee per fare una lacrima, dal momento che esse equivalgono a 0,1 millimetri.
Quello che è affascinante è che il prontuario di tale misure è stato redatto da una bambina d’una scuola elementare il cui padre lavorava in una fabbrica meccanica della Val di Susa, dove ci sono molti operai (ovriè) immigrati, giunti da altre regioni (che a rivo da d’àutre region), i quali ignorano quella fraseologia nata in fabbrica e quindi fino in fondo il loro lavoro (as capio pa sël travaj) e son stati gli operai piemontesi a redigere un comune modo d’intendersi in modo che quando si dice di limarne via una lacrima non si insista fino ad averne asportato un’idea. Ci si deve fermare prima, a metà.
Mi torna ovviamente in mente quel Faussone de La chiave a stella di Primo Levi, quella sua ostinata e incorreggibile dedizione a far le cose per bene, a regola d’arte, mica che siano perfette, ma fatte come devono essere fatte. Esemplare in via d’estinzione, anzi, temo, già estinto, sommerso.
Su due parole voglio soffermarmi: la bërlicà che se non ricordo male esattamente vuol dire “linguatina”, quel gesto infinitesimale e omeopatico con cui si assaggia qualcosa quasi di soppiatto, giusto per coglierne il sapore, al limite preservandosi da una possibile intossicazione, equivalente a 0,01 millimetri, un niente; e la flapà, del cui significato non sono certo, ma che se la memoria non mi tradisce dovrebbe indicare la battuta d’un ciglio, enormemente più grande della misura precedente, addirittura 3 interi millimetri senza virgole e decimali. Qualcosa, insomma, che si può percepire a colpo d’occhio.
Tags: Dialetto, Primo Levi